Da dove è arrivato il Coronavirus, e dove ci porterà?
Un’intervista con Rob Wallace, autore di “Big Farms Make Big Flu”
(Traduzione dal sito https://www.marx21.de/)
Quanto è pericoloso il nuovo coronavirus?
Dipende
da dove ti trovi rispetto alla temporalità del focolaio di Covid-19:
nel momento iniziale, di picco, tardivo? Quanto è efficace la risposta
della sanità pubblica della tua regione? Quali sono le caratteristiche
demografiche della tua zona? Quanti anni hai? Sei compromesso dal punto
di vista immunitario? Qual è il tuo stato di salute? Per porre una
domanda che non ha risposta: la tua immunogenetica, la genetica
sottostante alla tua risposta immunitaria, combacia col virus o no?
Quindi tutto questo clamore attorno al virus è solo una tattica della paura?
No,
certamente no. A livello di popolazione, il Covid-19 oscillava tra un
tasso di mortalità tra il 2 e il 4% all’inizio del focolaio a Wuhan.
Fuori da Wuhan, il tasso di mortalità sembra scendere più intorno all’1%
e anche meno, ma sembra anche avere delle impennate in alcuni punti qua
e là, alcuni luoghi dell’Italia e degli Stati Uniti. La sua portata non
sembra molto in confronto, ad esempio, al 10% della Sars, al 5-20%
dell’influenza del 1918, al 60% dell’influenza aviaria H5N1, o al 90% di
alcune fasi dell’Ebola. Ma certamente eccede il tasso di mortalità
dello 0.1% dell’influenza stagionale. In ogni caso il pericolo non è
solo una questione di tasso di mortalità. Dobbiamo confrontarci con
quella che viene chiamata penetrazione o tasso di attacco alla comunità:
ovvero quanta della popolazione globale viene penetrata dal contagio.
Puoi essere più specifico?
La
rete globale di spostamenti è a un livello di connessione senza
precedenti. Senza vaccini o antivirali specifici per i coronavirus, né
(almeno fino ad ora) alcuna immunità registrata al virus, anche un ceppo
con solo l’1% di mortalità può rappresentare un pericolo considerevole.
Con un periodo di incubazione che può arrivare fino a due settimane e
un’evidenza crescente di alcuni contagi precedenti alla malattia – ossia
prima di sapere che le persone sono infette – pochi luoghi saranno
verosimilmente liberi dall’infezione. Se, diciamo, il Covid-19
registrasse un 1% di fatalità nel corso dell’infezione di 4 miliardi di
persone, questo vorrebbe dire 40 milioni di morti. Una piccola
percentuale di un grande numero resta comunque un numero elevato.
Sono numeri spaventosi per un agente patogeno apparentemente minore…
Assolutamente.
E siamo solo all’inizio del contagio. È importante capire che molte
nuove infezioni cambiano nel corso dell’epidemia. Infettività,
virulenza, o entrambe potrebbero attenuarsi. Dall’altro lato, altri
focolai dilagano in virulenza. La prima ondata della pandemia
influenzale nella primavera del 1918 era un’infezione relativamente
mite. Sono state la seconda e la terza ondata durante quell’inverno e
fino al 1919 che hanno ucciso milioni di persone.
Ma
gli scettici della pandemia sostengono che il coronavirus abbia
contagiato e ucciso meno pazienti dell’influenza stagionale. Cosa ne
pensi?
Sarei il primo a
celebrare se questo contagio fosse un’esagerazione. Ma questi tentativi
di liquidare il Covid-19 come una minaccia minore citando altre malattie
letali, specialmente l’influenza, è una costruzione retorica per far
credere che la preoccupazione in merito al coronavirus sia mal riposta.
Quindi la comparazione con l’influenza stagionale è errata?
Ha
poco senso comparare due patologie in punti differenti delle loro curve
epidemiche. Sì, l’influenza stagionale infetta molti milioni di persone
in tutto il mondo ogni anno, uccidendone, secondo stime OMS, fino a
650,000 all’anno. Covid-19, tuttavia, sta solo cominciando il suo
viaggio epidemico. E, al contrario dell’influenza, non abbiamo vaccino
né immunità di gregge per rallentare il contagio e proteggere le
popolazioni più vulnerabili.
Anche
se l’accostamento è fuorviante, entrambe le patologie appartengono ai
virus, persino ad un gruppo specifico, i virus RNA. Entrambe possono
causare malattia. Entrambi colpiscono la zona della bocca e della gola e
a volte anche i polmoni. Entrambe sono molto contagiose.
Queste
sono similitudini superficiali che tralasciano una parte essenziale
della comparazione delle due patologie. Sappiamo molto sulle dinamiche
dell’influenza, sappiamo molto poco di quelle del Covid-19. Sono avvolte
dal mistero. In realtà, ci sono molte cose del Covid-19 che sono
impossibili da conoscere fino a quando il contagio non raggiunge il suo
picco. Allo stesso tempo, è importante capire che non è un problema di
Covid-19 versus influenza. Covid-19 è influenza. L’emersione di più
infezioni capaci di diventare pandemiche, che attaccano popolazioni, dovrebbe essere il problema centrale.
Hai
studiato le epidemie e le loro cause per molti anni. Nel tuo libro "Big
Farms Make Big Flu" cerchi di connettere le pratiche zoo-agricole
industriali, quelle organiche e l’epidemiologia virale. Quali sono le
tue conclusioni?
Il vero
pericolo di ogni nuovo focolaio è il fallimento o, per dirla meglio, il
rifiuto di comprendere che ogni nuovo caso di Covid-19 non è un
incidente isolato. L’aumento dell’incidenza dei virus è strettamente
legato alla produzione alimentare e ai profitti delle multinazionali.
Chiunque voglia comprendere come mai i virus stanno diventando più
pericolosi deve indagare il modello industriale dell’agricoltura e in
particolare la produzione del bestiame. Al momento, pochi governi e
pochi scienziati sono pronti a farlo. Abbastanza il contrario di ciò che
andrebbe fatto. Quando i nuovi focolai esplodono, governi, media e
addirittura la maggior parte del personale medico sono talmente
focalizzati sulle nuove emergenza che non si curano delle cause
strutturali che stanno portando numerosi agenti patogeni marginali a
diventare, uno dopo l’altro, delle vere e proprie “celebrità„ mondiali.
Di chi è la colpa?
Ho
detto l’agricoltura industriale, ma bisogna adottare una prospettiva
più ampia. Il Capitale é in prima linea nell’accaparrarsi terre nelle
ultime foreste vergini e nelle piccole proprietà terriere in tutto il
mondo. Questi investimenti portano con sé la deforestazione e lo
sviluppo, che a loro volta portano all’emergenza delle malattie. La
diversità e complessità funzionale che queste grosse porzioni di
territorio rappresentano stanno venendo messe alla prova in maniera tale
che agenti patogeni che prima erano importati adesso si impiantano nel
bestiame e nelle comunità umane locali. Per dirla in breve, i centri del
capitale come Londra, New York, Hong Kong dovrebbero essere considerati
i primi focolai di contagio.
Di quali malattie parliamo?
Non
ci sono agenti patogeni slegati dall’azione del Capitale a questo
punto. Anche i più lontani ne sono coinvolti, qualora distalmente Ebola,
il virus Zika, i coronavirus, la febbre gialla, una varietà di
influenze aviarie e l’influenza suina africana sono alcuni tra i molti
agenti patologeni che stanno uscendo dai più remoti hinterland per
avanzare nelle zone peri-urbane, nelle capitali regionali e infine farsi
strada nel network dei flussi di trasporto globali. Dai pipistrelli
erbivori del Congo arrivano ad uccidere i bagnanti di Miami in poche
settimane.
Quale è il ruolo delle multinazionali in questo processo?
Il
pianeta Terra è ormai diventato il Pianeta Azienda Agricola, sia per
biomassa che per porzione di terra utilizzate. L’agroindustria sta
puntando a mettere all’angolo il mercato alimentare. La quasi totalità
del progetto neoliberale è basata sul supportare i tentativi da parte di
aziende provenienti dai paesi più industrializzati di espropriare
terreni e risorse dei paesi più deboli. Come risultato, molti di questi
nuovi agenti patogeni precedentemente tenuti sotto controllo dagli
ecosistemi a lunga evoluzione delle foreste stanno venendo liberati,
minacciando il mondo intero.
Quali sono gli effetti dei metodi produttivi dell’agroindustria su tutto questo?
L’agricoltura
a guida capitalista che rimpiazza ecosistemi naturali offre le
possibilità perfette agli agenti patogeni per evolvere e sviluppare i
fenotipi più virulenti e contagiosi. Non si potrebbe immaginare un
sistema migliore per sviluppare malattie mortali.
In che termini?
Allevare
monoculture genetiche di animali domestici rimuove ogni tipo di
barriera immunologica in grado di rallentare la trasmissione. Grandi
densità di popolazione facilitano un più alto tasso di trasmissione.
Condizioni di tale sovrappopolamento debilitano la risposta immunitaria
[collettiva]. Alti volume di produzione, aspetto ricorrente di ogni
produzione industriale, forniscono una continua e rinnovata scorta di
suscettibili, benzina per l'evoluzione della virulenza. In altri termini
l'agroindustria è talmente concentrata sui profitti che l'essere
colpiti da un virus che potrebbe uccidere un miliardo di persone è
considerato come un rischio che val la pena correre.
Cosa?
Queste
multinazionali possono tranquillamente esternalizzare i costi delle
loro operazioni epidemiologicamente pericolose su chiunque. Dagli stessi
animali ai consumatori, i contadini, gli habitat locali e i governi
attraverso giurisdizioni particolari. I danni sono tanto estesi che se
dovessimo conteggiarli nei fogli di bilancio delle stesse multinazionali
l'agroindustria, per come la conosciamo, cesserebbe di esistere.
Nessuna multinazionale potrebbe sostenere i costi [reali] dei danni che
produce.
Su molti media si
proclama che l'epicentro del coronavirus sia stato un “mercato di cibo
esotico” a Wuhan. Questa descrizione è veritiera?
Sì
e no. Ci sono indizi territoriali in favore di questa idea. Il
tracciamento dei contatti ha ricollegato infezioni al Mercato
all'Ingrosso del Pesce di Huanan, nel Whuan, dove si vendono animali
selvatici. Il campionamento ambientale sembra individuare l'estremità
occidentale del mercato, dove vengono tenuti questi animali. Ma quanto
all'indietro e quanto estesamente dobbiamo ripercorrere le tracce? In
quale momento è effettivamente iniziata l'emergenza? Il focalizzarsi sul
mercato perde di vista l'origine dell'agricoltura non domestica [wild]
nell'entroterra e la sua crescente capitalizzazione. A livello globale, e
in Cina, la produzione di cibo da animali selvatici [wild food] sta
diventando in modo sempre più effettivo un settore economico a sé. Ma le
sue relazioni con l'agricoltura industriale vanno ben oltre l'essere
entrambe proprietà degli stessi miliardari. Non appena la produzione
industriale – che sia di maiale, pollame o simili – si espande nelle
foreste primarie, mette pressione ai cacciatori di selvaggina, che sono
costretti a cercarla più in profondità, aumentando l'interfaccia e lo
“spillover” di nuovi agenti patogeni, tra cui il Covid-19.
Il Covid-19 non è il primo virus nato in Cina che il governo ha cercato di insabbiare.
È
vero, ma in questo la Cina non fa eccezione. Anche gli Stati Uniti e
l'Europa sono stati epicentro di molte nuove forme influenzali, di
recente l'H5N2 e l'H5Nx, e le loro multinazionali, con i loro avamposti
neocoloniali sono state responsabili dell'emergenza dell'Ebola in Africa
occidentale, della Zika in Brasile. I funzionari statunitensi della
sanità pubblica hanno fatto da copertura per le aziende sia durante
l'epidemia di H1N1 (2009) che durante l'H5N2.
L'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato lo stato di pandemia. E' una misura corretta?
Si.
Il pericolo di un agente patogeno simile è che le autorità sanitarie
non abbiano il polso sulle statistiche riguardanti la distribuzione del
rischio. Non abbiamo idea di come il virus possa rispondere. Siamo
passati da un focolaio in un mercato a un'infezione diffusa in tutto il
mondo nel giro di poche settimane. L'agente patogeno potrebbe
semplicemente estinguersi. Sarebbe magnifico. Ma non possiamo saperlo.
Una migliore preparazione potrebbe incrementare le probabilità di minare
alla base la velocità di propagazione del virus. La dichiarazione
dell'OMS è anche parte di quello che io chiamo “teatro della pandemia”.
Le organizzazioni internazionali sono scomparse. Torna in mente la
Società delle Nazioni. L'ONU è sempre preoccupata della sua rilevanza,
del suo potere, dei suoi finanziamenti. Ma questo “azionismo” potrebbe
piuttosto convergere sull'effettiva preparazione e prevenzione di cui il
mondo ha bisogno per interrompere la catena di trasmissione del
Covid-19.
La
ristrutturazione neoliberale del sistema sanitario ha peggiorato sia la
ricerca che la cura dei pazienti, per esempio negli ospedali. Quali
differenze potrebbe fare un sistema sanitario maggiormente finanziato
nella lotta contro il virus?
C'è
la terribile ma significativa vicenda di un dipendente di un'azienda di
attrezzature mediche che, appena tornato dalla Cina con sintomi simili a
quelli dell'influenza, fece la cosa più giusta verso la propria
famiglia e la propria comunità, richiedendo all'ospedale locale un
tampone per Covid-19. Era preoccupato che la sua assicurazione minima
garantita dall'”Obamacare” non coprisse il test. Aveva ragione. Si trovò
improvvisamente fregato per 3270 dollari. Una rivendicazione per gli
americani potrebbe essere l’approvazione di un decreto d'emergenza che
stabilisca che, in caso di un focolaio di pandemia, tutte le fatture
mediche in sospeso, legate ai test per infezione e per la cura, in
seguito a un tampone positivo, vengano pagate dal governo federale.
Vogliamo incoraggiare le persone a cercare aiuto, piuttosto che a
nascondersi – infettando altre persone – perchè non possono permettersi
di pagare le cure. La soluzione più ovvia sarebbe un sistema sanitario
nazionale – perfettamente formato e attrezzato per affrontare emergenze
così pervasive nella comunità – cosicché un problema tanto ridicolo,
come lo scoraggiare la cooperazione comunitaria, non possa neanche
sorgere.
Non appena il
virus viene scoperto in un paese, ovunque i governi reagiscono con
misure autoritarie e punitive, come la quarantena obbligatoria di intere
aree, regioni e città. Misure così drastiche sono giustificate?
Utilizzare
un focolaio per testare le ultime novità in termini di controllo
autocratico post-focolaio è capitalismo dei disastri fuori controllo. In
materia di salute pubblica, preferirei sbagliarmi nell’eccesso di
fiducia e compassione, che sono variabili epidemiologiche importanti.
Senza di esse, la sola giurisdizione perde il supporto della
popolazione. Senso di solidarietà e rispetto reciproco sono aspetti
cruciali nel promuovere la cooperazione di cui abbiamo bisogno per
sopravvivere a queste minacce insieme. Quarantene autoimposte, con il
dovuto supporto – controlli da parte di brigate solidali di quartiere
ben preparate, consegne di cibo porta-a-porta, permessi di lavoro,
sussidi di disoccupazione – possono suscitare quel sentimento
comunitario per cui ci siamo dentro tutti e tutte insieme.
Conservatori
e neo-nazisti, come l'AfD in Germania hanno cominciato a diffondere
report (falsi) sul virus e a richiedere al governo misure più
autoritarie: voli interdetti e stop agli ingressi dei migranti, chiusura
dei confini e quarantene forzate...
I
divieti di viaggiare e la chiusura dei confini sono rivendicazioni con
cui l'estrema destra vuole razzializzare quelle che ora sono malattie
diffuse a livello globale. Tutto ciò, ovviamente, non ha senso. A questo
punto, dal momento che il virus è sul punto di diffondersi ovunque, la
cosa più importante da fare è lavorare per migliorare la resilienza
della sanità pubblica, in modo che, chiunque si presenti con
un'infezione, si possa disporre dei mezzi per ricoverarlo e curarlo. E
chiaramente, è necessario in primo luogo smettere di sottrarre terre in
altri paesi e provocare esodi migratori, così da impedire sul nascere
l'emergere di nuovi patogeni.
Quali potrebbero essere dei cambiamenti sostenibili?
Nell'ottica
di ridurre l’insorgere di nuove epidemie di virus, deve cambiare
radicalmente la produzione alimentare. Autonomia degli agricoltori e un
forte settore pubblico possono contenere l'impatto ambientale e
scacciare le infezioni. Bisogna introdurre riserve e colture – e
ripristinare aree non coltivate – sia nelle aziende agricole che a
livello regionale; permettere agli animali di riprodursi sul posto per
consentire loro di sviluppare e trasmettere le proprie immunità. Fornire
sussidi e programmi di acquisto per i consumatori in supporto alla
produzione agroecologica; infine, difendere questi esperimenti sia dalle
coercizoini che l'economia neoliberale impone sugli individui e sulle
comunità sia dalle minacce della repressione statale a guida
capitalistica.
Cosa dovrebbero chiedere i socialisti di fronte alle crescenti dinamiche di epidemie virali?
L'agroindustria,
come forma di riproduzione sociale, deve terminare per davvero, anche
solo per una questione di salute pubblica. La produzione altamente
capitalizzata di cibo dipende da pratiche che mettono in pericolo la
totalità della specie umana, in questo caso contribuendo a provocare una
nuova mortale pandemia. Dovremmo rivendicare la socializzazione dei
sistemi alimentari in modo da impedire sul nascere l'emersione di nuovi
patogeni così pericolosi. Ciò richiederà in primo luogo di armonizzare
la produzione di cibo con le esigenze delle comunità agricole e,
inoltre, di implementare pratiche agroecologiche che proteggano
l'ambiente e gli agricoltori nel momento in cui coltivano il nostro
cibo. Su una scala più ampia, dobbiamo curare le fratture metaboliche
che separano la nostra economia dall'ecologia. In breve, abbiamo un
pianeta da riguadagnare.
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