Reati ambientali, la legge che fa saltare i processi. E la grande industria ringrazia
Porto
Tolle, Tirreno Power, Ilva: per magistrati ed esperti di diritto il
testo in discussione al Senato sembra scritto appositamente per limitare
le indagini e mettere a rischio procedimenti in corso. Il Pd si divide.
Realacci parla di "eccesso di critica dei magistrati", Casson bolla il
testo come un "regalo alle lobby"
Licenziato alla Camera e ora all’esame delle commissioni Ambiente e Giustizia del Senato, il
disegno di legge 1345
introduce delitti in materia ambientale, prima puniti solo con
contravvenzioni, ad eccezione del traffico illecito di rifiuti (2007) e
della “combustione illecita” del decreto Terra dei Fuochi (2014). Viene
inoltre introdotto all’articolo 452 ter il “
disastro ambientale”,
punito con pene da 5 a 15 anni. Mano pesante, dunque, se non fosse che
la norma è scritta con tanti e tali paletti da renderne
impossibile l’applicazione,
almeno ai casi davvero rilevanti. E lo dicono gli stessi magistrati che
devono utilizzarlo. Il nuovo testo qualifica infatti il “disastro” come
“alterazione irreversibile dell’equilibrio dell’ecosistema” quando
quasi mai, per fortuna, il danno ambientale si rivela tale. In
alternativa come un evento dannoso il cui ripristino è “particolarmente
oneroso” e conseguibile solo con “provvedimenti eccezionali”. Ma il
degrado ambientale potrebbe verificarsi anche se ripristinabile con
mezzi ordinari. L’estensione della compromissione e del numero delle
persone offese cozzano poi con la possibilità che il disastro possa
consumarsi in zone poco abitate e non per forza estese.
Il disegno di legge sposta poi in avanti la soglia di punibilità configurando il disastro
come reato di evento
e non più di pericolo concreto, come è invece il “disastro innominato”
(l’art. 434 del codice penale, comma primo), la norma finora applicata
dalla giurisprudenza al disastro ambientale. Sinora era stato possibile
punire chi commetteva “fatti diretti a causare un disastro”, quando vi
era stato il pericolo concreto per la pubblica incolumità, anche senza
che il disastro avvenisse perché non sempre il disastro è una nave che
perde petrolio,
un incendio o
un’esplosione che producono evidenza immediata del danno. A volte, come nel caso dell’
inquinamento da combustibili fossili e delle microparticelle come
l’amianto, il disastro può restare “
invisibile” a lungo prima che emergano i segnali della
compromissione
dell’ambiente e della salute della collettività. Segnali che, a volte,
solo le correlazioni della scienza medica e dei periti riescono a
individuare tra una certa fonte inquinante e il pericolo concreto di
aumento di patologie e degrado ambientale in una certa area. Sempre che i
magistrati abbiano potuto disporre le indagini penali.
Il procuratore generale di Civitavecchia
Gianfranco Amendola, storico “
pretore verde”,
sottolinea la terza grave lacuna. “Deriva dalla evidentissima volontà
del nuovo testo di collegare i nuovi delitti alle violazioni
precedenti”. Il reato può essere contestato solo nelle ipotesi in cui
sia prevista una “violazione di disposizioni legislative, regolamentari o
amministrative, specificamente poste a tutela dell’ambiente e la cui
inosservanza costituisce di per sé illecito amministrativo o penale, o
comunque abusivamente, cagiona un disastro ambientale”. Come se fosse
lecito, altrimenti, provocare enormi danni all’ambiente. “Fare
addirittura dipendere la
punibilità di un fatto
gravissimo dall’osservanza o meno delle pessime, carenti e complicate
norme regolamentari ed amministrative esistenti significa subordinare la
tutela di beni costituzionalmente garantiti a precetti
amministrativi spesso solo formali o a norme tecniche che, spesso,
sembrano formulate apposta per essere inapplicabili”.
I processi a rischio: da Rovigo alla Terra dei FuochiIl
testo di legge sembra sdoganare allora la linea difensiva (finora
sconfitta) in alcuni processi celebri, a partire da quello di
Radio Vaticana dove, a fronte di prove indiscutibili sulla molestia e la nocività delle emissioni,
la difesa si era incentrata sul fatto che la norma contestata (art. 674
c.p.) richiede che l’evento avvenga “nei casi non consentiti dalla
legge”. Ma soprattutto apre grandi incognite su quelli ancora da
celebrarsi. Allunga un’ombra, ad esempio, sull’appello del processo
appena concluso a
Rovigo che ha visto condannare gli amministratori di Enel Tatò e Scaroni per le emissioni in eccesso della centrale a olio di Porto Tolle.
C’è il rischio concreto, se la norma sarà licenziata così dal Senato,
che in sede d’Appello ci sarà una normativa più favorevole ai vertici
del colosso energetico che depenalizza proprio il reato per cui sono
stati condannati.
“Nel dibattimento la maggior difficoltà è
stata proprio quella di individuare specifiche disposizioni violate
nella gestione dell’impianto”, spiega il legale di parte civile
Matteo Ceruti.
Era poi quello il cavallo di battaglia della difesa degli imputati, la
non illeicità delle emissioni della centrale che – grazie a deroghe e
proroghe connesse per gli impianti industriali esistenti – avrebbe
potuto “legittimamente” emettere in atmosfera fino al 2005 enormi
quantità di inquinanti, ben oltre i limiti imposti dall’Europa sin dagli
anni Ottanta del secolo scorso. Il Tribunale ha invece condannato gli
amministratori per violazione dell’art. 434, 1° comma cp che punisce i
delitti contro la pubblica incolumità, evidentemente ritenendo – sulla
base delle consulenze tecniche disposte dalla Procura – che l’enorme
inquinamento provocato ha comunque messo in pericolo la salute degli
abitanti del Polesine e l’ambiente del Parco del Delta del Po”. La
stessa fine, a ben vedere, potrebbe fare anche il procedimento penale
di Savona che ha condotto al sequestro dei gruppi a carbone della
centrale termoelettrica Tirreno Power di
Vado Ligure.
Il decreto di sequestro emesso dal gip si fonda, tra l’altro, proprio
sulla circostanza che per integrare il reato di disastro innominato non è
necessario dimostrare che l’impianto abbia funzionato in violazione di
specifiche prescrizioni di legge o dell’autorizzazione.
Lo scontro a suon di emendamenti. Il Pd diviso verso l’approvazione Sul
testo si annuncia ora, in previsione del rash finale, uno scontro
durissimo nelle commissioni Giustizia e Ambiente. Salvo slittamenti, si
potranno presentare
emendamenti fino al 29 aprile. E
mentre la destra sta a guardare, è la sinistra che si ritrova il
problema di far passare il testo com’è o tentare di arginare le falle.
Ne rivendica la bontà il proponente,
Ermete Realacci (Pd)
che non lesina stoccate ai critici che “rischiano di mandare la palla
in tribuna, quando sono vent’anni che si lotta per avere reati
ambientali nel codice penale”. “Non sono un giurista né un magistrato –
dice – se ci sono margini per migliorarlo ben venga. Ma ricordo che
alcune toghe avevano criticato anche l’introduzione del reato penale di
smaltimento dei rifiuti pericolosi che è stato invece determinante per combattere le
ecomafie. Senza quel reato le inchieste sulla
Terra dei Fuochi
non sarebbero state possibili”. Non è una legge su misura delle
industrie? “A volte si cerca la perfezione mentre tocca cercare vie
praticabili. Questo testo riesce a tenere insieme l’equilibrio delle
pene, che devono essere proporzionali rispetto ad altri reati e la
certezza del diritto rispetto al quadro normativo, perché non è che se
sono un magistrato posso arrestare chi voglio”.
Parole molto diverse da quelle di un altro esponente di punta del Pd,
Felice Casson,
vicepresidente della commissione Giustizia al Senato, per 25 anni toga
di peso in fatto di reati e processi ambientali (a partire dal
Petrolchimico di
Porto Marghera,
1994). Casson ha colto subito nel testo il rischio di un favore ai
gruppi industriali sotto assedio delle procure. E ha depositato a sua
volta un disegno di legge in materia di reati ambientali. “L’avevo anche
detto a quelli di
Legambiente quando, a inizio
legislatura, erano venuti in Senato a presentare il ddl: il testo, che
resta un importante passo avanti, presenta però criticità di
impostazione tecnica tecniche tali da impattare pesantemente su indagini
e processi in corso. Allora proposi di modificarlo e rinviarlo alla
Camera, piuttosto che farlo entrare in vigore così. A questo punto
presenteremo
emendamenti correttivi che integrino le
disposizioni dei due testi, ma sarà dura. Perché c’è una pressione forte
da parte del centrodestra per difendere il testo e farlo passare così
com’è, ritenendolo perfetto proprio perché l’impostazione è tale da
limitare le possibilità dell’azione penale della magistratura”.
Ilva e la norma sull’irreversibilità del danno
Anche a Taranto,
nel procedimento contro la famiglia Riva e i vertici dell’Ilva per il
disastro ambientale causato dalle emissioni nocive della fabbrica, il nuovo provvedimento legislativo potrebbe rappresentare un
assist agli imputati. Già perché per dimostrare che il danno compiuto dalla fabbrica è “
irreversibile” sarebbe necessario dimostrare di aver compiuto una serie di
tentativi di bonifica
che non hanno prodotto risultati. Nel capoluogo ionico, finora, le
bonifiche sono state solo una promessa sulla carta: nonostante i mille
proclami e la nomina di garanti, commissari e subcommissari, le
operazioni di risanamento del quartiere
Tamburi e delle
zone colpite dalle emissioni dell’acciaieria, a oggi, nessuna
operazione è concretamente partita. In un’aula di tribunale, quindi, al
di là delle perizie, l’accusa non avrebbe strumenti per dimostrare che
quelle operaizoni sono state inutili. Al collegio difensivo, in
definitiva, basterebbe puntare sull’assenza di elementi certi per
dimostrare che il danno arrecato non è, oltre ogni ragionevole dubbio,
irreversibile. Un regalo che, tuttavia, non migliorerebbe di molto la
situazione dei Riva che devono rispondere anche di un reato ben più
grave come
l’avvelenamento di sostanze alimentari per
la contaminazione di oltre 2mila capi di bestiame nelle cui carni fu
ritrovata diossina proveniente, secondo le perizie del tribunale, dagli
impianti dell’Ilva. Un reato, che richiede la corte da’assise come per i
casi di omicidio, punito con una reclusione che va da un minimo di 15
anni a un massimo, se l’avvelenamento ha causato la morte di qualcuno,
anche con l’ergastolo.
(ha collaborato Francesco Casula)