sabato 14 aprile 2012

pc 14-15 aprile - dal passato all'oggi, da brescia a bologna, l'avanzata del moderno fascismo

Strage di Piazza della Loggia: tutti assolti nel processo d'Appello

La Corte d'assise d'Appello di Brescia ha assolto Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi, Maurizio Tramonte e il generale dei carabinieri Francesco Delfino nel quarto processo per la strage di Piazza della Loggia, avvenuta nel 1974. In primo grado, il 16 novembre 2010, i quattro erano stati assolti con formula dubitativa. Nei confronti del quinto imputato del processo di primo grado, Pino Rauti, anch'egli assolto, non era stato presentato ricorso da parte della Procura ma solamente da due parti civili. Uno dei ricorsi è stato dichiarato inammissibile con la conseguente disposizione del pagamento delle spese processuali a carico delle parti civili. Prima di leggere la sentenza, il presidente della Corte d'assise d'appello, Enzo Platé, ha ringraziato i giudici popolari per l'impegno e lo scrupolo profusi durante la durata del processo.

I pm: abbiamo fatto tutto il possibile - Si sono detti "sereni perché è stato fatto tutto il possibile" il procuratore Roberto Di Martino e il pm Francesco Piantoni, titolari dell'inchiesta sulla strage di piazza della Loggia che causò 8 morti e oltre cento feriti il 28 maggio del 1974. "Ormai è una vicenda che va affidata alla storia, ancor più che alla giustizia", ha commentato il procuratore di Martino. La procura attenderà il deposito delle motivazioni per decidere se ricorrere in Cassazione.

14 aprile 2012

Redazione Tiscali

Bologna, manifesti di Fascismo e Libertà in strada autorizzati dal Comune

Nonostante i regolari timbri dell'amministrazione, il sindaco Merola pensa di fare un esposto in Procura. "Ci intentino pure causa", afferma Giovanni Montoro, leader del Mfl-Psn che si rifà al Ventennio, "tanto le abbiamo sempre vinte"

L’affissione di quei 50 manifesti è regolare al cento per cento. Il timbro degli uffici comunali è stato apposto senza battere ciglio. Così da alcuni giorni i fasci littori del Mfl-Psn, Movimento fascismo e libertà-Partito socialista nazionale, campeggiano ai bordi delle vie di Bologna, come testimoniato dalle foto del blog Nonleggerlo. Loro, i camerati di questo movimento che invoca un ritorno al corporativismo fascista, alla repubblica presidenziale e alla socializzazione delle fabbriche (sostanzialmente le idee dell’ultimo Mussolini), cadono dalle nuvole quando sanno che ora il Comune sta pensando a fare un esposto contro di loro in procura. “I timbri sono stati messi senza problemi e le cause che ci hanno intentato le abbiamo sempre vinte”, spiega a ilfattoquotidiano.it il leader regionale del partito, Giovanni Montoro.
Il sindaco, Virginio Merola, nel pomeriggio, mentre sul web cominciavano a fioccare le proteste di cittadini indignati per quel simbolo affisso negli albi del comune, con una nota ha subito preso le distanze. “L’amministrazione comunale esprime il proprio dissenso nei confronti dei contenuti dei manifesti e rigetta ogni richiamo all’ideologia fascista. Bologna è città medaglia d’oro della Resistenza, questa nostra cultura non deve mai venire meno. Nelle prossime ore valuteremo se formulare un esposto alla procura della repubblica perché accerti la sussistenza di ipotesi di reato riferibili al contenuto dei manifesti in questione”.
Il Mfl-Psn non è nuovo alle vicende giudiziarie. “Abbiamo sempre vinto le nostre battaglie in tribunale. Le denunce contro di noi – spiega Montoro – sono sempre finite in assoluzioni o archiviazioni”. Del resto come spiega una delle tante sentenze, i fasci riprodotti nei manifesti appesi anche a Bologna non sono i fasci littori di mussoliniana memoria, ma i fasci repubblicani. Inoltre nei loro manifesti non si parla (esplicitamente) né di soppressione del pluralismo, né di sovversione. Una serie di cavilli insomma con cui il movimento, nonostante i molteplici problemi con la giustizia, se l’è sempre cavata. Ma gli espliciti riferimenti al Ventennio lasciano pochi spazi ai dubbi. “Ancora una volta nella storia d’Italia la rinascita della Patria non può che essere affidata al Fascismo” si legge sul loro sito internet.
Il Movimento fascismo e libertà nasce nel 1991 dal fuoriuscito del Movimento sociale italiano, il parlamentare ferrarese Giorgio Pisanò morto nel 1997. Il senatore, che in gioventù combatté per la Repubblica di Salò nelle file della Decima Mas, ebbe da subito problemi con i tribunali di tutta Italia, che gli contestavano la presunta incostituzionalità della propaganda e della stessa esistenza del movimento. Il camerata bolognese Montoro difende tuttavia la bontà del suo movimento: “Certo che ci rifacciamo al fascismo, ma noi per esempio non siamo razzisti: per noi per esempio può essere più meritevole un camerata di colore che un italiano”, spiega. Tuttavia, a leggere il loro sito si trova un elenco di problemi che andrebbero estirpati nella “stuprata” nazione italiana: le massonerie, le mafie, l’inflazione, i lavori precari, gli scandali finanziari, le devastazioni di pacifisti, le attività degradanti dei centri sociali l’immigrazione.
Sul fronte politico intanto il movimento si prepara alle prossime elezioni amministrative un po’ in giro per l’Italia. In provincia di Bari, a Santeramo, la scritta Fascismo e libertà sul simbolo della lista è stata sostituita da un più anonimo Mfl che continua comunque ad affiancare il fascio. “Ma siamo in lizza anche in Piemonte e in altre parti d’Italia” assicura Montoro. Fatto sta che il caso pugliese è finito ancora una volta al centro di un’interrogazione parlamentare.
Chissà forse tutta questa pubblicità in tempi di crisi potrebbe portare bene ai camerati in termini di voto, del resto loro vanno oltre i normali schieramenti: “Il Movimento Fascismo e Libertà-Partito Socialista Nazionale, vuole realizzare uno stato sganciato dalle ideologie fallite, sanguinarie e falsamente democratiche imperanti nel XX secolo. In parlamento potremmo sederci a sinistra, al centro, a destra o dove più ci piace; siamo diversi da tutti”.


pc 14-15 aprile - Richiedenti asilo: il prossimo scandalo della Protezione civile


di Antonello Mangano

Emergenza profughi: per la guerra dello scorso anno sono stati distribuiti 500 milioni a pioggia per i 20mila che dalla Libia, via Lampedusa, sono arrivati da noi. La Protezione civile ha creato un sistema parallelo di accoglienza, affidandolo – senza gare – a strutture private. Mancano i controlli e nel Lazio spuntano i primi scandali. Un viaggio tra ruberie e strutture fatiscenti, migranti che spalano la neve, procedure lentissime, rivolte e sassaiole. Le operatrici denunciano: “Siamo mamme, amiche, guardiane”. E precarie.


SOCIETÀ
13 aprile 2012 - 15:32
Roma. Cinqueceventomilioni di euro. È costata tanto a tutti gli italiani la cosiddetta “emergenza Nord Africa”. Almeno finora. Funziona così: la Protezione Civile nomina per ogni regione un “Soggetto Attuatore”: quasi sempre un funzionario della stessa Protezione Civile (dunque una sovrapposizione di compiti), a volte uno della Prefettura. In Toscana ci sono dieci “attuatori”. In Campania uno, ma è l’assessore ai Lavori Pubblici.

Il “Soggetto Attuatore”, a sua volta, sceglie il “Soggetto Gestore”. «Ci siamo candidati perché c’era una procedura d’urgenza», spiega Claudio Bolla, dirigente del consorzio “Eriches” che gestisce alcuni centri nel Lazio. «Alle strutture è stata richiesta una disponibilità di posti. Noi, che eravamo già conosciuti, abbiamo presentato la nostra offerta. La parte del leone la fanno le strutture cattoliche, noi siamo di area Pd. Abbiamo una storia, siamo conosciuti sul territorio, rinomati. È stato naturale chiederci se avevamo strutture da mettere a disposizione».

Ogni migrante costa 42 euro al giorno, 80 se minore. Agli africani vengono distribuiti beni di prima necessità e un pocket money di 2.50 euro al giorno. Spesso si tratta di un voucher che può essere speso solo negli esercizi commerciali con cui il gestore ha concluso delle convenzioni. L’emergenza dovrebbe essere una sospensione di procedure, controlli e garanzie finalizzata alla risoluzione rapida di un problema. In Italia non è mai così. Con il sistema emergenziale tutti – tranne i migranti – hanno oggettivamente interesse a prolungare l’ospitalità. «Le giornate passano tra la noia e la tensione per l’incertezza sul proprio futuro», ci racconta un operatore del Lazio. «Non mancano i comportamenti aggressivi tra loro e con noi, alternati con gli infantilismi tipici di chi si abitua all’assistenza».

I migranti attendono il responso delle “Commissioni” sulla loro domanda d’asilo. Oltre la metà ha già ricevuto un diniego. Si stanno creando migliaia di irregolari senza possibilità di riemersione. Nonostante questo, da qualche giorno il governo ha presentato il nuovo decreto flussi stagionali: porte aperte per 35mila nuovi ingressi.

«La risposta arriva nel giro di 6-7 mesi», spiega Bolla. «Se c’è il ricorso passano in media altri 3 mesi. Se lei chiede alle istituzioni, dicono: le associazioni che curano l’accoglienza non preparano la documentazione in tempi rapidi. Invece i nostri ragazzi sono seguiti da uno staff qualificato e nel giro di sei mesi hanno la prima risposta».

Intanto le Opcm (Ordinanze della presidenza del consiglio dei ministri) si susseguono. La prima fu firmata da Berlusconi (12 febbraio 2011), l’ultima da Monti il 30 dicembre 2011. Ognuna ha aggiunto una manciata di milioni alle casse della Protezione civile ma anche al finanziamento di misteriosi accordi tra Italia e Tunisia, al ministero della Difesa per costi di sicurezza e trasferte dei militari. Persino alle navi che hanno pattugliato il braccio di mare nei pressi di Lampedusa. Lo stato di emergenza è stato prorogato al 31 dicembre di quest’anno anche se la guerra in Libia è finita da un pezzo e non si registrano più arrivi di massa.

L’italiano medio è convinto che questi soldi servono ad assistere gli stranieri. Invece sono numerose le proteste dei migranti che vogliono conoscere in tempi rapidi il loro destino. Rivolte violente nei Cara di Bari, Crotone e Mineo (con blocchi stradali e sassaiole) e tensioni a Falerna e Cetraro, in Calabria. Non protestano di certo i furbi abili ad inserirsi in questo circuito. In molti sospettano che i centri di accoglienza per minori siano diventati un business. Non è facile stabilire l’età di un africano. Ci sarebbero – specie nel Lazio - enti che hanno gonfiato il numero di minori presenti per ottenere la doppia diaria prevista in questi casi.

Nella rete troviamo anche chi lavora con scrupolo e persone capaci. Ma la gestione privatistica e l’assenza di controlli sembrano fatti apposta per favorire i disonesti. Le verifiche sono in buona parte affidate al “team di monitoraggio” della Protezione civile, “impegnato a visitare alcune strutture di accoglienza”. Le spese si rendicontano con un foglio Excel. “Emergenza significa che il privato può fare quello che vuole”, dice un altro operatore. Tutto legale, anche perché la legge ordinaria è sospesa. I giuristi lo chiamano “stato di eccezione”. Rispetto ai tempi di Bertolaso, la Protezione civile è cambiata solo in parte. Rimangono le emergenze e l’aggiramento delle regole, ma i soldi arrivano a pioggia anziché alla “cricca”. Quasi una manovra anticrisi a favore di albergatori, laureati disoccupati, operatori del sociale.

Il caso più grave, finora, è quello di Roccagorga. Siamo nel pontino: quarantasei immigranti erano ammassati in 90 metri quadri in condizioni igieniche al limite della sopravvivenza. “Latina come Rosarno”, annotava il giornale locale. Mangiavano un piatto di riso al giorno e non avevano assistenza sanitaria. La onlus assegnataria aveva a disposizione la solita diaria di 42 euro per ciascun ospite, ma ne spendeva più o meno cinque. La truffa contestata sfiorerebbe il milione di euro. Dopo una segnalazione del monitoraggio del Ministero e della Protezione civile, i carabinieri effettuavano un primo blitz nell’estate 2011, per poi arrestare cinque persone lo scorso gennaio. Tra loro il presidente della cooperativa, consigliere comunale a Sezze in quota Pdl. In questi mesi i profughi venivano spostati come pedine da un appartamento all’altro, senza che la convenzione venisse revocata. Agli atti dell’indagine anche un tentativo di intercessione politica.

I profughi sono stati dislocati in tutta Italia, dalle Dolomiti al Pollino. Dalla Sila a sperduti paesi calabresi. Dalla Piana di Catania alla cintura romana. Dall’hinterland milanese alle città del Veneto. Li chiamano i libici, anche se sono nati a sud del Sahara. Lavoravano nel paese di Gheddafi fino a quando la guerra li ha costretti alla fuga. Li hanno sistemati in appartamenti e palazzine. E spesso alberghi. “Se le strutture non risultano sufficienti il Soggetto Attuatore, normalmente attraverso Federalberghi, si rivolge a enti privati che possano garantire gli stessi servizi delle strutture che abitualmente accolgono migranti”, dice a Linkiesta la Protezione civile.

“Hanno creato un sistema di accoglienza parallelo e di serie B”. Così un’operatrice di un centro per richiedenti asilo commenta quello che è successo. L’allora ministro dell’Interno, Maroni, parlò di “invasione biblica”. È stato predisposto un piano per 50mila persone. Oggi l’Italia ospita appena 21.257 rifugiati (in Tunisia ce ne sono 290mila). Lo stato di emergenza è stato dichiarato quando la rete ufficiale esistente - Cara e Sprar – era satura. Ma si tratta di un circolo vizioso: è la lentezza delle procedure che crea saturazione.

Il problema riguarda anche i lavoratori italiani. Molti operatori, dopo un lungo percorso di studi universitari, sono umiliati dal lavoro precario. Ci spostiamo in un centro nei pressi di Tivoli. Qui incontriamo un’operatrice. Ci chiede di rimanere anonima, perché tra ricevute di prestazioni occasionali e contratti a progetto il suo posto di lavoro è appeso a un filo. “Siamo altamente qualificati, ma le nostre competenze non servono”, spiega. “Il lavoro che ci chiedono è quello di guardiani. Non a caso quelli che lavorano nel nostro centro sono principalmente maschi, non parlano inglese e non hanno alcun interesse riguardo le problematiche che coinvolgono i richiedenti asilo”.

Le convenzioni regionali prevedono alcuni servizi basilari per i richiedenti asilo (assistenza sanitaria, mediazione culturale, etc). Ma solo in teoria. In un altro centro ci dicono che gli operatori chiedono ad amici medici, avvocati e insegnanti di venire a lavorare gratis, per dare una mano. Qualcuno ha deciso comunque di impegnarsi: “Oltre a svolgere il ruolo di mamme, sorelle, amiche e guardiane, siamo anche medici, avvocati, insegnanti e psicologi”.

“Sarebbe un bel segnale rendersi utili nei confronti del paese che li sta ospitando”. Con queste parole, in piena emergenza neve, Romano La Russa invitava 3000 richiedenti asilo ospitati in Lombardia ad armarsi di pala e contribuire a pulire le strade. L’asilo è un diritto internazionale riconosciuto dalla Convenzione di Ginevra e non un regalo di cui sdebitarsi. La proposta del fratello di Ignazio, assessore alla protezione civile alla Regione, è rimasta un’ipotesi sepolta dalle polemiche.

Alle porte di Roma è successo davvero, per tre giorni all’inizio di febbraio. “I richiedenti asilo che spalavano la neve tra Tivoli e Marcellina erano volontari”, ci dice un responsabile dei centri. “La popolazione locale non ha accolto molto bene gli immigrati. Abbiamo chiesto ai ragazzi se volevano dare una mano e loro sono stati ben contenti. Abbiamo regalato le scarpe da lavoro e le pale. Poi che qualcuno abbia voluto regalare qualcosa ai ragazzi... So che qualcuno ha provveduto a ringraziare... Noi peraltro abbiamo fatto firmare una dichiarazione di lavoro volontario. C’è il divieto assoluto di lavorare per chi è nella zona grigia dello status di richiedente. Questo sarebbe stato un motivo per non avere il riconoscimento dello status”.



Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/emergenza-profughi-protezione-civile#ixzz1s0GxfAN3

pc 14-15 aprile - Ravenna: corteo tunisini revocato. Ma rimane alta la tensione in città



La decisione di annullare la manifestazione di sabato a Ravenna da parte del presidente dell'associazione della comunità tunisina è sbagliata.
Il problema così non sono più il razzismo, istituzionale e popolare, le violenze poliziesche, le politiche nazionali e locali antimmigrati, ma... vietare il corteo annunciato!
Questa decisione si piega ai diktat della Questura e non a caso riceve il pieno sostegno da parte del Sindaco delle ordinanze "antidegrado" (cioè antimmigrati) e delle espulsioni così come dei politicanti di destra e di sinistra, espressione dei ravennati "perbene", cioè dei bottegai a cui vengono messi "in sicurezza" i loro guadagni impedendo le manifestazioni in centro.
Una decisione che non presenta nemmeno la contropartita della liberazione della Stazione e del centro, oggi occupati dalle forze repressive e nemmeno dell'annullamento della fiaccolata razzista e neofascista di lunedì.
Non abbiamo visto lo stesso attivismo da parte dell'associazione tunisina "della solidarietà e della fratellanza" per contrastare la canea razzista nei confronti degli immigrati tunisini arrivati in città da Lampedusa e risolvere il problema dell'accoglienza (casa e lavoro), sulle persecuzioni e la repressione poliziesca, sulle botte in Questura che hanno subito i suoi connazionali, come riportato da qualche quotidiano locale.
Le provocazioni poliziesche si sono viste anche immediatamente dopo l'uccisione di Hamdi, quando sono stati strappati i ritratti del ragazzo ucciso affissi dai suoi amici a piazza del Popolo da parte delle forze dell'ordine, che sono stati all'origine della giusta rabbia che ha poi portato al primo corteo non autorizzato.
Il rappresentante dell'associazione tunisina dice di volere la manifestazione tra sei mesi/un anno, "quando il clima sarà sereno", cioè quando l'uccisione di Hamdi cadrà nel dimenticatoio.
Noi siamo per la continuità delle mobilitazioni per rivendicare:
verità e giustizia per Hamdi Ben Hassen
abrogazione della Legge Bossi-Fini
diritto di cittadinanza, diritto alla casa e alla salute per tutti gli immigrati
chiudere i lager di stato come CIE e CARA

proletari comunisti-Ravenna


venerdì 13 aprile 2012

pc 13 aprile - Verità e giustizia per Hamdi, ucciso da un carabiniere a Ravenna. Sabato manifestazione




Siamo al fianco della comunità tunisina e dei famigliari di Hamdi Ben Hassen, ucciso da un carabiniere a Ravenna.
Vogliamo verità e giustizia, il carabiniere che ha ucciso deve pagare!
Sono stati sparati 15 proiettili, poco chiara è la dinamica di tutta la vicenda, in pronto soccorso cos'è successo, visto che Hamdi non sembrava in pericolo di vita? Già si parla di pallottola "deviata" con l'intento di assolvere il carabiniere che ha sparato contro Hamdi.
Ma di questa morte è responsabile soprattutto la legislazione razzista, la legge Bossi-Fini, che ha istituito il reato di "clandestinità", costringendo gli immigrati senza documenti a vivere l'incubo quotidiano dei controlli e delle provocazioni poliziesche, dei lager che chiamano CIE o CARA, dei pestaggi che avvengono "normalmente" nelle questure e ogni altra sorta di abuso, il terrore che costringe a piegare la testa di fronte al ricatto di padroni senza scrupoli, a trovare rifugi di fortuna per la notte, a non potere recarsi nelle strutture sanitarie per curarsi.
Ma anche l'amministrazione comunale del centrosinistra è responsabile del clima antimmigrati: di fronte al problema alloggio i cittadini "benpensanti" li hanno cacciati dal Torrione, il Sindaco delle ordinanze "antidegrado" ha sostenuto la loro espulsione alla scadenza della proroga per i permessi "umanitari", dimostrando nessun interesse per il diritto alla vita e alla salute degli immigrati, altro che accoglienza e integrazione!
Pensiamo che Hamdi stava fuggendo ancora una volta da tutto questo che la politica dei padroni e dei commercianti chiama "legalità". Quando parlano di "sicurezza" è per mettere "al sicuro" i loro privilegi!
La violenza delle forze repressive nei confronti degli immigrati non è certo una novità anche a Ravenna: sono stati denunciati 2 agenti che hanno procurato lesioni ad una immigrata somala e vari articoli sono stati pubblicati che ammettono che molti non vogliono querelare perchè temono le conseguenze.
"Quando siamo in ufficio ti faccio il c...", "uno picchiava, l'altro guardava", "quando ho smesso di prenderlo a calci avevo il fiatone", queste alcune frasi pronunciate da anonimi poliziotti e riportate da un quotidiano locale a febbraio. E poi allo sportello Immigrati del Comune di Ravenna un'operatore ha denunciato che "un ragazzo tunisino del 1992 è entrato con labbra rotte, segni sulle gambe e sulle braccia e il giubbotto strappato. Ha detto che erano stati degli agenti durante un normale controllo, senza che lui avesse reagito. Ha detto – prosegue nel racconto – di essere stato costretto a firmare un foglio sotto le minacce di pugni in testa. Ma siccome non parla italiano, non ha capito cosa stesse firmando"
Le provocazioni della polizia sono aumentate dopo l'arrivo dei profughi dalla Tunisia, unite alla canea razzista/mediatica/istituzionale contro di essi.
Le manifestazioni spontanee degli immigrati tunisini dopo l'uccisione di Hamdi sono state giuste e necessarie per mantenere alta l'attenzione su un omicidio di stato che altrimenti avrebbe avuto solo due righe di cronaca per poi essere dimenticato. Giuste e necessarie perchè non passi che i carabinieri possono uccidere un giovane immigrato ad un posto di blocco e che si invochi legge e ordine contro chi grida "carabinieri assassini", chiedendo più repressione (che è arrivata immediatamente, con la militarizzazione della stazione e del centro storico)!
Giuste e necessarie perchè hanno rotto il solito teatrino dove a prendere la parola sono solo i politicanti locali a difesa delle ragioni del carabiniere che ha ucciso, dalla destra che vuole "stroncare cortei non autorizzati e commissariare la gestione dell'emergenza" (Ancisi, ex UDC ora lista civica), alla sinistra di palazzo: "manifestare in tribunale alimenta tensioni" e garantire all'Arma dei Carabinieri "che la città non si dividerà fra innocentisti e colpevolisti e che comunque non cambia il giudizio sulle forze dell'ordine" (Paglia,Sel), fino alla "passeggiata silenziosa" di albergatori e commercianti e quella xenofoba di lunedì di FN, organizzazione neofascista che la questura ha autorizzato in violazione della stessa Costituzione e leggi antirazziste.
La manifestazione degli immigrati tunisini invece è la voce della dignità umana degli sfruttati e "invisibili", l'unica voce che fa da contraltare a quella delle cosiddette "persone perbene" tanto invocate da questa amministrazione comunale.

verità e giustizia per Hamdi Ben Hassen
abrogazione della Legge Bossi-Fini
diritto di cittadinanza
chiudere i lager di stato come CIE e CARA

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pc 13 aprile - lo stato dei torturatori

Così torturavamo i brigatisti'
Usare ogni mezzo per far parlare i terroristi: era il 1982 quando l'Espresso denunciò le sevizie ai responsabili per il sequestro Dozier. All'epoca il nostro cronista fu smentito e arrestato. Oggi il commissario di polizia Savatore Genova conferma tutto: 'Ero tra i responsabili, e ricevemmo il via libera per botte e sevizie"
SI, sono anche io responsabile di quelle torture. Ho usato le maniere forti con i detenuti, ho usato violenza a persone affidate alla mia custodia. E, inoltre, non ho fatto quello che sarebbe stato giusto fare. Arrestare i miei colleghi che le compivano. Dovevamo arrestarci l'un con l'altro, questo dovevamo fare".
Salvatore Genova è l'uomo il cui nome è da trent'anni legato a una grigia vicenda della nostra storia recente. Quella delle torture subite da molti terroristi tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta.

Una vicenda grigia perché malgrado il convergere di testimonianze concordanti, le denunce di poliziotti coraggiosi e le inchieste giudiziarie la verità non è mai stata accertata. Nessuna condanna definitiva, nessuna responsabilità gerarchico-amministrativa, nessuna responsabilità politica. Solo lui, il commissario di polizia Salvatore Genova, e quattro altri poliziotti arrestati con l'accusa di aver seviziato Cesare Di Lenardo, uno dei cinque carcerieri del generale americano James Lee Dozier, sequestrato dalle Brigate rosse il 17 dicembre 1981 e liberato dalla polizia il 28 gennaio 1982. Evocare il nome di Genova vuol dire far tornare alla memoria l'acqua e sale ai brigatisti, le sevizie, le botte.

Oggi Salvatore Genova non ci sta più. Nel 1997 aveva iniziato a mandare al ministero informative ed esposti senza avere risposte. Adesso ha deciso di fare nomi, indicare responsabilità, svelare quello che accadde davvero in quei giorni drammatici. Ecco il suo racconto.
"Questura di Verona, dicembre 1981. Il prefetto Gaspare De Francisci, capo della struttura di intelligence del Viminale (Ucigos) convoca Umberto Improta, Salvatore Genova, Oscar Fioriolli e Luciano De Gregori. E' la squadra messa in campo dal ministero dell'Interno (guidato dal democristiano Virginio Rognoni) per cercare di risolvere il caso Dozier.

Il capo dell'Ucigos, De Francisci, ci dice che l'indagine è delicata e importante, dobbiamo fare bella figura. E ci dà il via libera a usare le maniere forti per risolvere il sequestro. Ci guarda uno a uno e con la mano destra indica verso l'alto, ordini che vengono dall'alto, dice, quindi non preoccupatevi, se restate con la camicia impigliata da qualche parte, sarete coperti, faremo quadrato. Improta fa sì con la testa e dice che si può stare tranquilli, che per noi garantisce lui. Il messaggio è chiaro e dopo la riunione cerchiamo di metterlo ulteriormente a fuoco. Fino a dove arriverà la copertura? Fino a dove possiamo spingerci? Dobbiamo evitare ferite gravi e morti, questo ci diciamo tra di noi funzionari. E far male agli arrestati senza lasciare il segno.


Il giorno dopo, a una riunione più allargata, partecipa anche un funzionario che tutti noi conosciamo di nome e di fama e che in quell'occasione ci viene presentato. E' Nicola Ciocia, primo dirigente, capo della cosiddetta squadretta dei quattro dell'Ave Maria come li chiamiamo noi. Sono gli specialisti dell'interrogatorio duro, dell'acqua e sale: legano la vittima a un tavolo e, con un imbuto o con un tubo, gli fanno ingurgitare grandi quantità di acqua salata. La squadra è stata costituita all'indomani dell'uccisione di Moro con un compito preciso. Applicare anche ai detenuti politici quello che fanno tutte le squadre mobili. Ciocia, va precisato, non agì di propria iniziativa. La costituzione della squadretta fu decisa a livello ministeriale.

Ciocia, che Umberto Improta soprannomina dottor De Tormentis, un nomignolo che gli resta attaccato per tutta la vita, torna a Verona a gennaio, con i suoi uomini, i quattro dell'Ave Maria. Da più di un mese il generale è prigioniero, la pressione su di noi è altissima.

Il 23 gennaio viene arrestato un fiancheggiatore, Nazareno Mantovani. Iniziamo a interrogarlo noi, lo portiamo all'ultimo piano della questura. Oltre a me ci sono Improta e Fioriolli. Dobbiamo "disarticolarlo", prepararlo per Ciocia e i quattro dell'Ave Maria. Lo facciamo a parole, ma non solo. Gli usiamo violenza, anche io. Poi bisogna portarlo da Ciocia in un villino preso in affitto dalla questura. Lo facciamo di notte. Lo carichiamo, bendato, su una macchina insieme a quattro dei nostri. Su un'altra ci sono Ciocia con i suoi uomini, incappucciati. Fioriolli, Improta e io, insieme ad altri agenti, siamo su altre due macchine. Una volta arrivati Mantovani viene spogliato, legato mani e piedi e Ciocia inizia il suo lavoro con noi come spettatori. Prima le minacce, dure, terrorizzanti: "Eccoti qua, il solito agnello sacrificale, sei in mano nostra, se non parli per te finisce male". Poi il tubo in gola, l'acqua salatissima, il sale in bocca e l'acqua nel tubo. Dopo un quarto d'ora Mantovani sviene e si fermano. Poi riprendono. Mentre lo stanno trattando entra il capo dell'Ucigos, De Francisci, e fa smettere il waterboarding.

pc 13 aprile -I l governo peruviano vuol imporre il Proyecto Conga

Il governo vuol imporre il Proyecto Conga
Perù: in sciopero contro la miniera
Militarizzate le province di Cajamarca, Celendin e Bambamarca

Nelle province di Cajamarca, Celendin e Bambamarca (nord del Perù) in questi giorni si sciopera per l’acqua e per la vita, ma il governo intende blindare il Proyecto Conga, una miniera per l’estrazione a cielo aperto di oro e rame che farà sparire le cosiddette cabeceras de cuenca, lagune adagiate sulle sorgenti da cui l'acqua nasce. Il progetto minerario è blindato in duplice senso: da un lato è atteso a giorni il responso sulla valutabilità d’impatto ambientale ad opera di tre periti internazionali ritenuti assai vicini al governo, dall’altro l’esecutivo di Ollanta Humala ha pensato bene di inviare l’esercito nelle province di Cajamarca, Celendin e Bambamarca per reprimere le inevitabili proteste, una militarizzazione a scopo preventivo. Il presidente regionale di Cajamarca, Gregorio Santos, ha accusato il governo centrale di aver chiuso la porta di fronte ai tentativi di dialogo proposti dall’ampio fronte di forze popolari contrarie al progetto. La scelta di Ollanta Humala, orientato a dare una chiara dimostrazione di forza al frente anti-minero, non sorprende: da tempo il presidente peruviano ha fatto dimenticare la sua opposizione alle miniere, sbandierata durante la campagna per le presidenziali. Ciò che preoccupa riguarda però la gestione dell’ordine pubblico. Oltre a proseguire sulla strada della politica economica congeniale ai suoi predecessori, Garcia e Toledo, Humala si è caratterizzato per la propensione a reprimere violentemente le proteste di piazza. Sotto la sua presidenza, durata finora otto mesi, sono morte ben sette persone, tutte a seguito di interventi dell’esercito inviato a bloccare le mobilitazioni di strada, alcune delle quali in un’altra protesta contro l’estrazione mineraria a cielo aperto in uno delle centinaia di conflitti ambientali tuttora in corso in Perù.In Perù è presente un’oligarquía minera particolarmente agguerrita. Il 52,62% della produzione del rame nel corso del 2011 è stata realizzata da due sole imprese, Antamina e Cerro Verde. Il discorso è poco diverso per quanto riguarda l’estrazione dell’oro: Yanacocha, Barrick Misquichilca e Buenaventura raggiungono insieme quasi il 50% della produzione del metallo più prezioso. Si tratta di una concentrazione di proprietà e di potere non solo di carattere economico, ma soprattutto politico: il business minerario attrae sempre nuovi investimenti. il governo ha deciso di militarizzare Cajamarca. Fonti governative provenienti da Limala scelta di affidare la gestione dell’ordine pubblico nelle province di Cajamarca, Celendin e Bambamarca a Óscar Valdés, attualmente presidente del Consiglio, ma soprattutto ex militare con un curriculum caratterizzato da una serie infinita di violazioni dei diritti umani.

pc 13 aprile - ancora cariche poliziesche contro i lavoratori a roma


ieri a Roma, sotto il ministero del Lavoro in via Fornovo, la Polizia ha caricato, manganellando i lavoratori della Sirti che manifestavano pacificamente sotto la sede ministeriale; un lavoratore, membro del coordinamento nazionale unitario e Rsu Sirti Giovanni Cuccu, è stato più volte colpito con i manganelli alla testa ed è stato trasportato d’urgenza in autoambulanza al vicino ospedale di Santo Spirito."

"I lavorato Sirti stanno manifestando pacificamente da giorni sotto il Ministero perché una dirigenza irresponsabile e incapace sta mettendo a rischio l’intera azienda e con essa il lavoro. "Chiediamo da mesi che venga affrontato in sede ministeriale un piano industriale serio che rilanci e dia prospettiva alla Sirti e ai suoi lavoratori, ma le uniche risposte ottenute fino ad oggi sono le manganellate."

"Non ci lasceremo certo intimidire da quanto accaduto oggi, continueremo a manifestare pacificamente fino a quando non avremo risposte certe sul futuro del lavoro in Sirti."

giovedì 12 aprile 2012

pc 12 aprile - Bologna: il corteo operaio blocca la tangenziale. Senza la cgil



LA PROTESTA CONTRO LA RIFORMA DEL LAVORO

Un migliaio di manifestanti entrati dall'uscita di via Stalingrado. Auto ferme in coda

BOLOGNA - Il corteo della Fiom, contro la riforma del lavoro del governo Monti, ha bloccato la tangenziale per circa un'ora, fino alle 15,45. I manifestanti, oltre un migliaio, sono entrati dall'uscita di via Stalingrado e hanno percorso lentamente la tangenziale in direzione San Lazzaro. Si formate code di auto in entrate e in uscita.

In piazza non ci sono i vertici della Cgil, a cominciare dal segretario Danilo Gruppi. "Se fossero venuti...", si limita a dire Papignani, segretario della Fiom bolognese, allargando le braccia.

pc 12 aprile - i maoisti indiani vincono il braccio di ferro con il governo indiano - massimo sostegno alla guerra popolare diretta dai maoisti


liberati i prigionieri politici maoisti



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pc 12 aprile - Nepal: i maoisti manifestano contro il "tradimento della rivoluzione", scontri con la polizia


Manifestanti maoisti si scontrano con la polizia

REPUBLICA

KATHMANDU, 11 aprile: Il Segretario Generale del PCNU (maoista) Ram Bahadur Thapa e altri leader hanno riportato ferite a causa dell’intervento della polizia durante la protesta organizzata dalla fazione dissidente guidata dal Vice-presidente del partito Mohan Baidya.
Thapa, che guidava la fiaccolata lungo la New Road di Kathmandu, è stato ferito quando i poliziotti hanno caricato i manifestanti con i bastoni. La polizia ed i manifestanti si sono scontrati quando i poliziotti hanno cercato di strappare le torce e gli striscioni dei manifestanti.
Secondo il membro del Comitato Centrale del Partito Maheshwar Dahal, altre 22 persone, tra cui il membro maoista del Comitato Centrale Dinesh Sharma sono stati ricoverati all'ospedale di Bir. Il membro maoista del Politburo Hitman Shakya e il capo del CPN (maoista) Matrika Yadav hanno anch’essi subito lievi ferite.
I manifestanti hanno bruciato immagini del Primo Ministro Baburam Bhattarai e del presidente maoista Pushpa Kamal Dahal per protestare contro la decisione del governo di consegnare le armi e gli acquartieramenti dei maoisti all’esercito nazionale. I quadri della fazione Baidya hanno bruciato immagini di Bhattarai e Dahal in tutto il paese.
Nell’approssimarsi alla manifestazione, il Segretario Generale maoista Thapa ha detto che stivali e manganelli non li scoraggeranno dalla lotta per l'integrità e la sovranità nazionale.
Nel frattempo, in un comunicato, il segretario del Partito CP Gajurel ha denunciato l'intervento della polizia dicendo "l'attacco contro le proteste pacifiche è deplorevole."
I quadri della fazione dissidente del partito di governo hanno anche ostacolato il movimento veicolare in vari luoghi a Kathmandu e in tutto il paese per un'ora dalle 10 di mercoledì.
I rapporti dicono che il movimento veicolare hanno posto un blocco lungo le strade principali, quali la East-West Highway e l'autostrada Araniko dalle ore 10.
Ci sono anche segnalazioni di alcuni arresti effettuati in alcuni punti durante lo sciopero. Ma, nessun incidente altro spiacevole è stato segnalato.
Allo stesso modo, la fazione contraria sta portando avanti raduni con fiaccolate in serata, dove si bruciano immagini del presidente del partito Pushpa Kamal Dahal e del Vice-presidente e Primo Ministro Baburam Bhattarai per il loro 'tradimento della rivoluzione.'
Martedì sera, con un passo importante verso la conclusione del processo di pace, tutti gli acquartieramenti dell’EPL insieme con la loro gestione della sicurezza sono stati consegnati all'esercito nazionale per decisione del Comitato Speciale.

http://www.myrepublica.com/portal/index.php?action=news_details&news_id=33812

pc 12 aprile - CORTEO NO TAV A PALERMO, SCONTRI CON POLIZIA E CARABINIERI ALLA STAZIONE CENTRALE


Ieri, mercoledì 11 Aprile, anche a Palermo il movimento No Tav ha organizzato un'iniziativa gemellata con la mobilitazione che fin dalla mattina ha avuto luogo in Val di Susa per opporsi agli espropri dei terreni dove dovrebbero iniziare i lavori nell'attuale "non-cantiere" e fortino militare.
Diverse centinaia di persone sono partite alle 17 da Pza Massimo attraversando il centro città verso la stazione centrale, scandendo slogan per tutto il percorso quali "la Val Di Susa non si tocca, la difenderemo con la lotta", "Contro la Tav che bisogna fare? Sabotare!", "l'alta velocità la può fermare solo e soltanto la lotta popolare" e "ma quale centro-destra, ma che centro-sinistra, chi vuole la tav è sempre un fascista".

In particolare quest'ultimo slogan racchiudeva il significato particolare dell'iniziativa palermitana dove in piena campagna elettorale, in una città in cui la disoccupazione è alle stelle, migliaia di dipendenti di municipalizzate quali Amat e Amia, dipendenti Gesip e operai della Fincantieri sono in cassa integrazione e rischiano di perdere il lavoro, gli stessi partiti che a livello nazionale appoggiano il governo Monti e sono favorevoli alla Tav chiedono il voto ai cittadini nonostante abbiano dimostrato di non saper e/o voler risolvere questi e altri problemi del popolo a partire dallo smaltimento dei rifiuti.
In generale tutti i partiti  di questa tornata elettorale sono legati a doppio filo a coalizioni "impresentabili".
Per questo motivo il corteo giunto davanti il palazzo comunale e poco più avanti al palazzo della provincia ha duramente contestato entrambe le istituzioni fonte solo di sprechi e malaffare.
Inoltre nello spezzone del Circolo di proletari comunisti erano presenti anche diversi lavoratori aderenti allo Slai Cobas per il Sindacato di Classe che hanno denunciato il fatto che a fronte di condizioni precarie di lavoro  subite da milioni di lavoratori, vengano sperperate cifre stratosferiche di denaro pubblico per opere inutili e dannose come la Tav.
Arrivati davanti la stazione centrale il corteo ha provato ad entrarvi  ma le forze dell'ordine hanno caricato a freddo i manifestanti che, dopo essere stati momentaneamente respinti, hanno colto di sorpresa i servi in divisa riuscendo quasi ad entrare da un'ingresso secondario ma venendo respinti nuovamente in extremis da una carica ancora più violenta che comunque non ha impedito ai manifestanti di ricompattarsi e dirigersi verso la stazione dei pullman bloccandone l'ingresso (coincidente con un ulteriore ingresso della stazione) e provocando la chiusura di tutti gli ingressi della stazione per paura di ulteriori incursioni.
Un corteo combattivo che è riuscito nell'intento di bloccare la stazione centrale per decine di minuti raccogliendo la solidarietà di giovani proletari del quartiere.
Questo è il movimento NoTav da nord a sud, espressione delle rivendicazioni popolari per mezzo di forme di lotta radicali e originali allo stesso tempo che nulla hanno a che fare con i politicanti istituzionali compresi quelli travestiti da comunisti o da "sinistra" che, dopo la latitanza dalle piazze causa impegno nella campagna elettorale, oggi si sono presentati salvo poi sparire magicamente, insieme ad altre realtà "folkloristiche", a parole "ultrarivoluzionari" e nella pratica pacifisti e fifoni, al primo accenno di provocazione poliziesca.
Ma d'altronde il movimento NoTav ce lo ha insegnato: si parte e si torna insieme!
Tutto il resto non ha nulla a che spartire con la lotta seria e coerente contro il governo Monti e questo sistema che va combattuto e rovesciato.

mercoledì 11 aprile 2012

pc 11 Aprile - No Tav a Palermo in corteo... scontri alla stazione con la polizia

I No Tav sfilano in corteo scontri alla stazione

I manifestanti hanno cercato di raggiungere ai binari per bloccare la partenza e l'arrivo dei treni, ma hanno trovato tutti gli ingressi bloccati dalle forze dell'ordine in assetto antisommossa. A quel punto ci sono stati momenti di tensione e alcuni scontri con i manifestanti che sono riusciti comunque a bloccare per un po' la stazione dei pullmandi

Scontri davanti alla stazione centrale fra i No Tav e le forze dell'ordine. Il corteo dei manifestanti è partito nel pomeriggio da piazza Verdi e ha attraversato le vie del centro, paralizzando il traffico cittadino. In centinaia fra studenti, precari e disoccupati hanno sfilato con in testa lo striscione "Io voto Notav! Usiamo i soldi del Tav per casa, reddito e servizi".

Palermo, ha aderito così alla giornata di mobilitazione lanciata dalla Val di Susa e dal movimento No Tav contro gli espropri dei terreni.

"In una Palermo - dicono i manifestanti - sommersa dai manifesti elettorali con politici di tutti i colori sempre pronti a difendere gli interessi dei soliti noti, noi scegliamo di portare un po' di Val di Susa a Palermo. Non soltanto per solidarietà con una popolazione che difende il proprio territorio dalla devastazione, ma anche perché i soldi di quest'opera inutile possono essere utilizzati per tanti altri piccoli interventi di estrema utilità sociale".

Il corteo si è fermato davanti a Palazzo delle Aquile per urlare che i soldi della Tav "devono essere spesi per i lavoratori delle aziende palermitane in crisi (Fincantieri, Amia, Gesip, Keller), per un reddito garantito per disoccupati e precari, per il raddoppio dei binari ferroviari in tutta la Sicilia, per alloggi popolari per i senza-casa e per la messa in sicurezza delle scuole decadenti".

Arrivati alla stazione centrale, i manifestanti hanno cercato di raggiungere ai binari per bloccare la partenza e l'arrivo dei treni, ma hanno trovato tutti gli ingressi bloccati dalle forze dell'ordine in assetto antisommossa. A quel punto ci sono stati momenti di tensione e alcuni scontri con i manifestanti che sono riusciti comunque a bloccare per un po' la stazione dei pullman e poi si sono dispersi. Sei i poliziotti contusi.

www.repubblicapalermo.it

pc 11 aprile - Ddl RIFORMA MERCATO DEL LAVORO - 3° PARTE


IL BLUFF DELLA FORNERO SULLE DONNE

Sull’abolizione delle dimissioni in bianco, spacciata dalla Fornero come sostegno alle donne, la realtà mostra tutta la sua pochezza. Le dimissioni in bianco sono la forma per le aziende per liberarsi di lavoratrici incinta o prossime alla maternità, di lavoratrici che sono costrette ad utilizzare assenze per assistenza dei figli o di anziani (visto che pesa tutto su di loro), di donne che non ce la fanno (non per debolezza fisica ma soprattutto perché già esaurite dal doppio lavoro che normalmente fanno) a sostenere i ritmi e carichi produttivi, ecc. La riforma dice che l’azienda che abusi del foglio firmato in bianco dalle lavoratrici sarà punita con una sanzione da 5 mila a 30mila euro. Primo, va notato che si parla di un “abuso” dell’azienda, quindi se è fatta solo una volta, non è sanzionabile?; secondo la riforma non dice che in questi casi il licenziamento è nullo.
D’altra parte questo è solo un palliativo. La riforma del mercato del lavoro, se passa, sarà
drammatica nei suoi effetti e per le donne lo sarà non solo in termini di lavoro, di reddito, ma di generale peggioramento in termini di vita, di aumento delle condizione di discriminazione, di oppressione, di peso della famiglia. Tutti i contratti precari che restano e che precarizzano ogni giorno l'esistenza, riguardano soprattutto le donne che faticheranno come e più di prima a trovare anche uno straccio di lavoro precario, mentre non troveranno nessuno ostacolo ad essere cacciate dal lavoro (pur senza dover ricorrere alle ‘dimissioni in bianco’, tanto c’è il ‘motivo economico’).
Con i licenziamenti per "motivi economici", i casi delle operaie dell'Omsa diventeranno decine e decine, visto che tra i motivi economici c'è la "chiusura dell'attività produttiva"; così come tante operaie, soprattutto delle grandi fabbriche, a partire dalla Fiat, saranno le prime ad essere mandate a casa perchè, tra i motivi economici, vi è l'introduzione di macchinari per risparmiare lavoro; o saranno cacciate le operaie con Ridotte Capacità Lavorative, cioè ammalate, invalidate a causa dello sfruttamento sul lavoro e del doppio lavoro in casa. Le lavoratrici saranno poi tra le prime ad essere licenziate nei licenziamenti collettivi camuffati da licenziamenti individuali per motivi economici, l’unica loro salvezza sarà se costano di meno all’azienda, appunto perché donne.
Infine, il bluff diventa enorme quando si vuole far passare per “cultura di maggior condivisione dei compiti di cura dei figli all'interno della coppia”, il fatto che il “il padre lavoratore dipendente entro i cinque mesi dalla nascita del figlio, ha l'obbligo di astenersi dal lavoro per un periodo di... tre giorni, anche continuativi, dei quali due giorni in sostituzione della madre...”, ma deve avvisare l'azienda almeno 15 giorni prima”. Della serie: che fa la Fornero, sfotte le donne? Tutta la condivisione si riduce a 3 gg? E, quasi a modificare una spinta “troppo in avanti” del governo, si dice che questa estensione è solo in via sperimentale per gli anni 2013/2015...

GLI AMMORTIZZATORI SOCIALI CONTRO MOBILITA' E IN FUTURO CONTRO LA CIGS

Sugli ammortizzatori sociali, la riforma è inversamente proporzionale alle montagne di dichiarazioni della Fornero, di Monti, circa il suo riassetto universalistico, l’estensione a tutti coloro che sono senza lavoro. La realtà è che invece di estendere gli ammortizzatori sociali ai settori che attualmente ne sono privi, soprattutto i disoccupati di lunga durata, in una situazione in cui le percentuali di disoccupazione sono cresciute soprattutto al sud e cresceranno paurosamente con la chiusura di aziende, si taglia l’indennità a chi ce l’ha.
A tutti i lavoratori che perdono il lavoro verrà corrisposta una nuova forma di indennità l’Aspi (assicurazione sociale per l’impiego). Per averla i lavoratori devono avere almeno 52 contributi settimanali nel biennio precedente la data di licenziamento (13 settimane negli ultimi 12 mesi per la mini Aspi).
Questa indennità sostituirà l’indennità di mobilità e tutte le diverse tipologie di disoccupazione oggi esistenti (quella ordinaria, quella con requisiti ridotti e quella speciale edile), con una durata di 12 mesi (18 per chi ha più di 55 anni) e un tetto massimo di 1.119,32 euro, ma vi sarà una riduzione dopo i primi sei mesi e un’altra dopo altri 6 mesi, entrambe del 15%.
In questo modo viene attuato un pesante taglio della indennità di mobilità che ora arriva, soprattutto al sud, fino a 36 mesi.
Viene fortemente limitato l’uso della cassintegrazione straordinaria, che porterà inevitabilmente le aziende a procedere, al posto delle attuali cigs, ai licenziamenti. La cigs, per il momento mantenuta, cesserà definitivamente nel 2016, lasciando solo il licenziamento e l'indennità dell’Aspi. L’effetto per i lavoratori sarà devastante soprattutto nella grandi aziende che oggi ricorrono spesso alla cigs; vorrà dire perdita di centinaia, migliaia di posti di lavoro.
Viene poi tolta la cassintegrazione per le aziende non coperte dal cigs, sostituita da un fondo di solidarietà.
Per le aziende non c’è un aggravio contributivo, visto che in generale non è stata elevata l’aliquota già prevista. L’unico incremento è per i contratti a tempo determinato, in cui vi è un aliquota aggiuntiva del 1,40% (ma anche qui, come abbiamo visto, vi sono delle deroghe). Gli ammortizzatori in deroga saranno finanziati (a rischio) ogni anno, ma con le nuove regole spariranno; in alcune realtà e settori questo equivale al licenziamento di centinaia di lavoratori soprattutto donne, in particolare nel sud e in settori come quello delle pulizie, o, pur mantenendo il posto d lavoro, ad una riduzione delle ore di lavoro e del salario sotto ogni limite (esempi già in corso sono di 1,30 ora di lavoro al giorno e 200 euro al mese). In più vi è la beffa che i soldi risparmiati dagli ammortizzatori in deroga serviranno a coprire l’Aspi e la cassa integrazione fino al 2016. Vale a dire, l’Aspi verrà pagata dagli stessi lavoratori.

CERTO MARCEGAGLIA E LA CONFINDUSTRIA SONO ARRABBIATI.

Volevano di più, soprattutto vogliono la certezza e la libertà dei licenziamenti e la sola parola “reintegro” – pur se non avrà alcuna efficacia nella pratica – diventa per loro inaccettabile.
I capitalisti dichiarano senza infingimenti, in maniera spudorata, che il loro diritto di sfruttare, di disporre in termini “usa e getta” della forza lavoro non deve trovare davanti alcun ostacolo; che i lavoratori, gli operai non contano, non sono essere umani, ma solo merce particolare che gli permette di fare profitti e oggi di uscire dalla crisi indenni.
Ma nello stesso tempo sono i padroni che fanno tornare in “vita” Marx: se il rapporto operai/capitale si svela per quello che è, allora anche le conseguenze sono quelle che scriveva Marx: il capitale stesso produce inevitabilmente il proprio becchino: il proletariato.


8.4.12

pc 11 aprile - Sciopero della fame degli studenti rivoluzionari in carcere a Taza e a Fès in Marocco

Lettera dalle carceri marocchine. Parla il detenuto n. 7000096


Ezedine Erroussi, studente all'università di Taza, è in carcere dal 1° dicembre scorso. Da oltre tre mesi ha avviato uno sciopero della fame per protestare contro la sentenza di condanna (5 mesi per appartenenza ad un gruppo illegale) e per denunciare gli abusi subiti al momento dell'arresto. "Sono poco più di un cadavere disteso giorno e notte", fa sapere il ragazzo nel corso di una lettera-choc in cui testimonia le violenze della "nuova era democratica".


a cura di Jacopo Granci


In Marocco la detenzione arbitraria e la tortura non sono solo un brutto ricordo legato ad un periodo ritenuto (da alcuni) concluso e lontano, gli "anni di piombo".

Sono molte infatti le testimonianze, raccolte nell'ultimo decennio, sugli abusi e le sevizie commesse dalle forze di sicurezza (e dalla polizia politica) a carico di attivisti, presunti terroristi, "separatisti" saharawi o semplici cittadini.

I casi di Zahra Boudkour, Ilham Hasnouni, Rida Benotmane, Kassim Britel e Younes Zarli, o più in generale dei detenuti islamici transitati nell'oscuro centro di Temara dopo gli attentati del 2003 (Casablanca), sono solo alcuni degli esempi recensiti da Amnesty International, Human Rights Watch e dall'Associazione marocchina per i diritti umani (AMDH).

Praticato forse in modo meno sistematico rispetto all'epoca della dura repressione e dei bagni penali di Hassan II, il ricorso alla tortura resta pertanto di attualità nel regno maghrebino, come ha ricordato recentemente il quotidiano francese L'Humanité nell'articolo "De Hassan II à Mohammed VI, les rois passent, la torture reste".

Una delle tante "anomalie", troppo spesso taciute dall'opinione pubblica, di un paese che difende - in principio - il rispetto dei diritti umani e che bandisce l'uso della tortura (art. 22), ma che nei fatti rimane lontano dai buoni propositi consacrati recentemente dalla nuova costituzione.

Un'anomalia che il detenuto n. 7000096 della prigione di Taza, Ezedine Erroussi, non manca di sottolineare nel corso della sua lunga lettera (scritta dal carcere il 20 febbraio scorso), di cui pubblichiamo di seguito alcuni dei passaggi più significativi.

Appartenente all'organizzazione della gioventù marxista (basistes o qaidistes) e attivista del sindacato studentesco (UNEM), Ezedine è stato fermato dalla polizia ad inizio dicembre durante un sit-in. Il ventenne stava manifestando assieme ad altri compagni per denunciare le precarie condizioni di vita patite all'interno del campus universitario.

Il giovane, da oltre cento giorni ormai in sciopero della fame, dovrebbe lasciare la sua cella il prossimo 1° maggio.

Ma intanto continua a portare avanti dalla prigione la battaglia per la giustizia e la dignità, mentre la sua vita "è appesa più che mai ai tubi dell'alimentazione artificiale", come ricorda Mouha Oukriz, coordinatore del comitato di sostegno #FreeEzedine#.



IL "QUADERNO DELLA TORTURA"


Sono stato bloccato da una trentina di agenti, che si sono accaniti su di me con i manganelli fino a farmi perdere conoscenza. Mi hanno legato e trascinato per i piedi su un veicolo blindato parcheggiato davanti alla facoltà. […]

Lì mi hanno spogliato, insultato e picchiato con violenza, calpestandomi più volte sulla pancia e sulla testa. Poi un agente mi ha infilato una pistola in bocca, dicendomi: 'un solo colpo e per te è finita, gli anni di piombo non sono ancora terminati e subirai gli orrori che non hai mai visto durante tutta la tua vita'.

Trasportato in commissariato, la sequenza non cambia.

Appena arrivati mi hanno spinto dentro, sono caduto per terra e ho sbattuto il viso. Mani e piedi legati, sono stato preso a calci. In seguito mi hanno bendato gli occhi […], mi hanno fatto entrare in una stanza per l'interrogatorio.

Non ho reagito alle loro domande. Allora un poliziotto mi ha puntato di nuovo la pistola in bocca e poi alla tempia, insultandomi e minacciandomi: 'se non parli ti farò esplodere la testa'.

Di fronte al mio silenzio prolungato hanno iniziato a strapparmi i capelli, con un tale rabbia che in alcuni punti hanno asportato perfino il cuoio capelluto. Le loro domande insistevano sui particolari dell'organizzazione a cui appartengo.

Non ho ceduto […] così, impotenti di fronte al mio mutismo, hanno ripreso la tortura. Mi hanno messo uno straccio inzuppato di fango e olio di motore nella bocca, continuando a pestarmi su tutto il corpo, specialmente nei punti più sensibili. Ho rischiato il soffocamento.

Ricoperto di insulti e provocazioni, sono stato trasferito nei sotterranei, dove sono riprese le sevizie. Mi hanno immerso la testa in un secchio pieno d'acqua […] per sei ore ininterrottamente, senza che io pronunciassi una parola.

A questo punto sono stato rinchiuso in cella, nudo, senza lenzuola né coperte, con il freddo glaciale che c'era in quel periodo dell'anno".

Le "sedute" di tortura, ricorda Ezedine, sono andate avanti a cadenza quotidiana per tutto il tempo trascorso in commissariato.

Il mio corpo era divorato dai dolori e dalle piaghe. Avevo mani e piedi fratturati. Non capivo cosa stesse succedendo e soprattutto perché non mi avessero trasportato in ospedale. Non riuscivo a muovermi per le fitte di dolore. […]

Mi sono rifiutato di firmare il verbale dell'interrogatorio, consegnatomi in bianco. Non so se l'abbiano firmato al mio posto".

E' questo lo spirito della nuova costituzione? - si domanda Ezedine nella missiva - E' questa la costituzione dei diritti e delle libertà che ci è stata promessa, la costituzione che garantisce il rispetto dei diritti umani e di quelli del detenuto?


UN GRIDO DI DIGNITÀ

Dopo la condanna, i maltrattamenti e le torture, Ezedine Erroussi ha deciso di entrare in sciopero della fame (fine dicembre scorso). All'iniziativa si sono poi uniti altri compagni di lotta, rinchiusi nelle prigioni di Taza, Fès, Errachidia e tuttora in attesa di giudizio.

L'azione congiunta è servita a far conoscere la storia del giovane ed a sollecitare la solidarietà degli attivisti marocchini e non, che hanno avviato una campagna mediatica (#FreeEzedine#) per chiedere la sua liberazione.

Il clamore attorno alla vicenda ed il deterioramento delle condizioni di salute del detenuto hanno spinto i rappresentanti del regime a cercare una mediazione, un compromesso per uscire dall'impasse ed evitare una tragedia quanto mai inopportuna.

Ho ricevuto la visita del Procuratore [nel mese di febbraio, ndr] in presenza di mio padre. Lo hanno convocato per ricattarmi. In quell'occasione mi hanno promesso una borsa di studio permanente, […] un diritto di visita aperto a tutti i miei amici e parenti. Il Procuratore ha detto che era sua intenzione prendersi cura di me.

Il "ricatto" è andato avanti e le autorità hanno promesso ad Ezedine un posto di lavoro, a condizione di interrompere lo sciopero e di rinnegare la lotta portata avanti assieme agli altri compagni in prigione.

Non ho ceduto - continua il racconto dello studente - ed ho ribadito che l'unica condizione per mettere fine alla protesta è il soddisfacimento delle nostre rivendicazioni e la liberazione dei detenuti politici.

[Il Procuratore] ha risposto, rivolgendosi a mio padre: 'uardi suo figlio, a cui ho voluto bene, rovina tutto e rende vani i miei sforzi' Mio padre ha replicato: 'referisco che mio figlio muoia piuttosto che viva umiliandosi. Sa quello che fa, e se anche io fossi uno studente, starei al suo fianco qui in prigione'

E' la dignità, oltre alla determinazione, ad aver spinto Ezedine a rifiutarsi di scrivere la domanda di grazia reale, unica possibilità per sperare in una scarcerazione immediata.

La dignità di chi non è disposto al pentimento e a chiedere perdono per aver osato reclamare diritti e giustizia sociale. "Non tornerò sui miei passi. Non sono una pecora e non rientrerò all'ovile".

Dal febbraio scorso, tuttavia, le sue condizioni si sono ulteriormente aggravate. Svenimenti continui e uno stato al limite del coma, come ha denunciato in un recente comunicato l'AMDH.

Da allora le autorità carcerarie hanno deciso di alimentare forzatamente il giovane detenuto, tenuto in vita dalle flebo che periodicamente gli vengono somministrate durante i trasferimenti all'ospedale Ibn Bayah.

La sua morte, infatti, potrebbe sollevare una nuova ondata di indignazione e critiche alla gestione delle "politiche di sicurezza" da parte del governo in carica, al centro delle polemiche fin dal suo insediamento all'inizio del gennaio scorso.

Finché le forze e la capacità di autocontrollo me lo hanno permesso - spiega la lettera di Ezedine - ho rifiutato il ricovero e l'alimentazione forzata.

Per potermi infilare l'ago nel braccio mi hanno legato al letto dell'ospedale. In 72 ore mi hanno iniettato trenta flaconi di sostanze nutritive e anti-coagulanti.

Sei agenti si alternavano per sorvegliarmi, insultarmi e provocarmi. Sembravano in estasi e ripetevano tra loro: 'uesto qui non vuole ancora morire!'

Pur di eludere il mio sciopero della fame illimitato ed evitare la mia morte programmata - continua il ventenne ormai ridotto ad uno scheletro (ha perso più di 20 kg) incapace di sollevarsi o di muovere autonomamente gli arti - il regime si è accanito su di me. Ma fino a quando il sérum riuscirà a tenermi in vita?

Fino a quando avrò vene e vasi sanguigni in grado di sopportare tutto questo? Non per molto, ancora. […] Sono poco più di un cadavere disteso giorno e notte.


6 aprile 2012