Pubblichiamo
di seguito nuove prese di posizione sulla tragica vicenda
dell'assassinio di Davide Bifolco. Il primo è un commento interessato e
puntuale di Alfonso De Vito, un compagno dei movimenti napoletani che,
prendendo spunto dal precedente articolo
con cui si contestualizzavano le dinamiche che hanno attraversato il
territorio a seguito dell'uccisione per mano poliziesca di Davide,
approfondisce e integra con ulteriori elementi di critica e riflessione
che preludono ad una ipotesi di lavoro diretto e al contempo
disincantato sulle contraddizioni e le potenzialità del quartiere.
Il
secondo è invece opera dei compagni di Zero81 di Napoli, che oltre a
ricostruire in maniera puntuale gli avvenimenti accaduti (facendo luce
sulle tante zone d'ombra e falsità che hanno circondato la vicenda),
sottolineano la complessità e le particolarità di un contesto come
quello napoletano, nonchè le narrazioni denigratorie e stereotipate che
riproducendosi nei media e nelle reti sociali altro che non fanno che
assolvere e sollevare dalle proprie responsabilità chi ha portato via
Davide alla sua comunità.
La
tesi è condivisibile, ma secondo me va contestualizzata e integrata.
Che il Sistema, la criminalità economica organizzata, preferisca la
cogestione e il compromesso allo scontro con gli apparati dello Stato è
sicuro. Del resto fin dall'800 una caratteristica degli apparati
statuali nel sud è stata quella di sussumere i poteri informali per
rimediare all'inefficenza degli apparati statuali (e a volte anche di
sussumere le forme e le pratiche sociali dell'informale all'interno
delle forme della governance, cosa che di conseguenza richiede sempre di
contestualizzare il concetto di "illegalità di massa" nel processo di
soggettivazione sociale in cui di volta in volta si inserisce).
Però
non sono certo onnipotenti. Se i camorristi o i narcos potessero
garantire da soli e sempre l'ordine pubblico nei quartieri popolari, non
si spiegherebbero i veri e propri riot che ci sono stati ad esempio
contro le megadiscariche e gli inceneritori anche in territori dove
esistono clan radicati e aggressivi, come Pianura, Acerra, la stessa
Terzigno, Chiaiano. Rivolte che quasi sempre contrastavano l'interesse
primario della camorra non solo per l'effetto di militarizzare a
oltranza il territorio, ma anche per il coinvolgimento diretto dei clan
nell'affare delle discariche. In molti di questi casi il Sistema è stato
costretto ad abbozzare, aspettare e lasciar fare alla repressione
statale o adeguarsi e riposizionare i propri interessi (vedi oggi la
possibilità di infiltrare i finanziamenti per le bonifiche). Perciò ci
sono secondo me altri elementi di contesto che vanno inserirti per
cercare una spiegazione del contenimento della rabbia sociale. A partire
da quel che abbiamo visto in questi giorni al rione Traiano.
Anzitutto
la composizione sociale che si è mobilitata. Sabato in piazza, a parte
un circuito di compagni, c'erano, in massa, gli ultimi. Neppure i
penultimi e i terz'ultimi... Un paio di migliaia di giovani e
giovanissimi sottoproletari del quartiere e un pò di compagni di scuola,
con i parenti di Davide e qualche altro adulto del rione.
Una
manifestazione abbastanza isolata sia dal punto di vista della
composizione sociale che della rappresentanza (nell'immediato non ci ha
messo la faccia nemmeno un consigliere di municipalità, un prete, un
associazione, una sigla sindacale qualunque...).
La chimica
sociale che ha innescato, dato forza e legittimato socialmente le
rivolte antidiscarica era indiscutibilmente più complessa, saldando la
rabbia sociale degli ultimi a un discorso pubblico forte e a un
coinvolgimento sociale molto più largo che aveva svariate forme di
organizzazione/autorganizzazione.
Eppure per quanto riguarda il
rione Traiano non stiamo parlando di un ghetto isolato della periferia,
Traiano è un rione socialmente chiuso ma urbanisticamente abbastanza
centrale, a poche centinaia di metri dal più importante polo
universitario cittadino. Un rione che fino alla metà degli anni '80
vedeva importanti presidi anche della sinistra radicale.
Questo isolamento nasce perciò, secondo me, dalla potenza di due discorsi:
da
un lato l'egemonia del discorso securitario, delle politiche della
paura che in generale è uno straordinario scudo difensivo per le
violenze commesse in divisa (e del resto quante rivolte ricordiamo per i
tanti omicidi commessi dalle forze dell'ordine in questi anni in
Italia!?). Dall'altro la potenza degli stereotipi, i processi culturali
di razzializzazione del sottoproletariato urbano meridionale che
agiscono non solo nell'opinone pubblica del nord, ma anche nei corpi
sociali della città e perfino in chi ne è oggetto. Nella narrazione
largamente egemone sui mass media e non solo, Davide è una vittima del
ghetto, del contesto "incivile" di cui farebbe parte, in ultima istanza
vittima anche di se stesso. Mezza italia oggi conosce i microclan che si
contendono "Traiano di sotto e Traiano di sopra", presume di conoscere
vita morte e miracoli di Davide e degli altri che erano con lui sul
motorino, e perfino della famiglia di Davide fino alla terza
generazione, mentre niente si conosce, neppure l'identità, dell'uomo in
divisa che l'ha realmente ammazzato (e uno degli elementi di
rivendicazione di Ferguson è stata proprio l'identità degli assassini).
Come se fosse il coprotagonista "accidentale" di un dramma già scritto.
Una percezione amplificata dalla torsione "gomorrista" della cultura
antimafia, con tutto il suo portato antropologico ed essenzialista che
però piuttosto che attribuire a un libro interessante e ad una buona
crime-story mi pare addebitabile al contesto culturale in cui sono state
calate e in cui hanno finito per giocare un certo ruolo.
Così per
tornare alle scene del rione Traiano nemmeno il Sistema ha usato metodi
arroganti per arginare la rabbia sociale (cosa che potrebbe avvenire
quando i residui di insubordinazione sociale diverranno numericamente
esigui) ma si è ipocritamente servito degli stessi dispositivi di
autocontenimento culturale che in maniera più convinta ha adottato anche
la parrocchia e perfino qualche insegnante di scuola. "Dobbiamo
dimostrare che siamo civili, altrimenti diranno che avevano ragione i
carabinieri", sottintendendo l'immagine di feccia urbana cui gli
abitanti dei rioni più popolari si sentono incatenati. Erano questi gli
inviti che venivano rivolti alle anime più infuocate e sconvolte
dall'accaduto, spesso giovanissimi amici della vittima. Una sorta di
moral suasion che però non so quanto avrebbe funzionato se l'iniziale
corteo di duemila persone, che sembrava attraversato da autentiche
scariche elettriche di rabbia fluida e disordinata, fosse arrivato
compatto alla caserma dei carabinieri a cui si dirigeva con passo di
carica, invece di essere scompaginato dal diluvio.
Sono questi
dispositivi del razzismo e della subalternità sociale ad avvicinare,
molto più del topos della rivolta, questa vicenda al parallelo
suggestivo con Ferguson. Con la differenza, come ha rilevato Bascetta,
che qui non c'è un processo di soggettivazione sociale e di conflitto
come c'è a Ferguson intorno alla linea del colore che sappia rompere
questi meccanismi sociali e culturali di contenimento.. Non c'è
un'elaborazione del razzismo e della razzializzazione dei meridionali
come si è strutturata nella costruzione materiale di questo paese, anche
se qualcosa negli ultimi anni riemerge sui social network, negli stili
degli ambienti ultras, nella ricerca di collettivi ed esperienze di
base.
Tornando all'isolamento sociale del corteo di sabato non
potevano romperlo da soli neppure i compagni presenti, trattandosi per
altro di uno dei rioni in cui c'è meno presenza (e anzi questo dramma è
stata occasione di recupero di relazioni sociali).
Volevo rimarcare
questi aspetti perchè credo ne vengano delle indicazioni su come
lavorare, sia rispetto alla necessità di creare dei riferimenti
autorganizzati nel quartiere, sia rispetto al contrasto di certe
retoriche oggi egemoni a Napoli e in Italia.
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Non è un paese per poveri: #DavideBifolco e il #Razzismo di classe in #Italia
Partiamo dall’inizio, per chiarire le cose: noi, come tanti altri, nel Rione Traiano sabato 6 settembre c’eravamo.
In
realtà eravamo lì già il giorno prima, quando ci ha travolto la notizia
che un carabiniere avesse ucciso un ragazzino di 16 anni.
Scusateci,
ma non siamo proprio capaci di guardare quello che accade attorno a
noi senza averne conoscenza diretta e abbiamo sentito dal primo momento
il bisogno di stare accanto alla famiglia di
Davide che perdeva un figlio e un fratello per mano di “
un uomo dello Stato” proprio in quel quartiere già devastato dall’abbandono e dalla criminalità organizzata.
Abbiamo
voluto esserci per loro e per Davide: troppo giovane per poter portare
sulle spalle anche le responsabilità della sua stessa morte. Una
responsabilità che dal giorno dopo, con lurida freddezza, hanno provato
ad addossargli carabinieri, poliziotti, istituzioni, intellettuali
progressisti e quel gigantesco ventre molle razzista e classista che
abita questo paese.
Abbiamo fatto una scelta di parte, quella che
ci è sempre appartenuta: affiancarci agli ultimi di questa società e di
questa città, coloro che non riescono ad arrivare a fine mese, che
vivono di piccoli lavoretti a nero, che sopravvivono nel centro e nelle
periferie senza aver mai conosciuto nessuna forma di welfare; chi vive
in questi quartieri dormitorio e campa di lavori sottopagati in altre
parti della città, o a quelli che vivono di illegalità perché di
possibilità di scelta non ne hanno mai avute, a quelli che la gente
chiama “
La Camorra” ma che della Camorra sono le prime
vittime, manovalanza di un mercato del lavoro criminale spietato quasi
come quello legale, ma decisamente più accessibile.
Ci
siamo stupiti che grande parte della città non ci fosse, mentre la
ritrovavamo sui social media, comodamente seduta dietro le proprie
scrivanie, a pontificare su quello che non ha mai visto e a pensare di
poter dare lezioni di vita.
Abbiamo creduto che
un evento tragico come quello della notte del 5 settembre avesse la
forza di scuotere anche le coscienze più perbeniste.
Anche la razzistissima America ha avuto un briciolo di comprensione per la rabbia di
Ferguson,
mentre l’Italia razzista e bigotta, e pezzi consistenti della classe
dirigente di questa città, hanno guardato l’ennesimo spettacolo da
“gomorra”, non riuscendo a “perdonare” a Davide Bifolco, napoletano, di
essere morto ammazzato per mano di un carabiniere.
Quel ventre
molle, razzista e classista, è il terreno fertile di un’opinione
pubblica e il mercato di una stampa che dal giorno dopo ha scelto di
ignorare i fatti accaduti nel corso di quella notte (e confermati dalle
testimonianze dei giorni seguenti) per darsi a un’imbarazzante litania
sociologica sulle “colpe” di Davide, dei suoi amici, del suo quartiere e
della sua città.
Di certo ci aspettavamo le cazzate del
Salvini e del
Saviano di turno, e le evocazioni legalitarie del
fascista più inappropriato e odioso della situazione: a questo giro il premio l’ha vinto
Bobbio, ex sindaco di Castellamare di Stabia e membro del partito con il più alto tasso di collusione
mafiosa della regione.
Quello
che non ci aspettavamo, invece, è la foga di alcuni editoriali e di
numerosi profili Facebook e Twitter che hanno messo in luce quanto
questo paese e questa città covino un odio viscerale nei confronti dei
poveri, degli ultimi della società, i fanoniani “dannati della terra” o
una lombrosiana “razza maledetta”.
Scrive
Paolo Macry sul
Corriere della Sera dell’8 settembre: “
A Napoli esistono i ghetti.
Ciò che nella Parigi di Victor Hugo o nella Londra di Charles Dickens
era il confine di classe e che nelle città americane è stato lungamente
(e in parte è tuttora) il confine di razza, a Napoli è il confine della
legalità.
Scampia, Forcella, il Rione Berlingieri, il Rione Luzzatti,
eccetera, costituiscono aree economicamente degradate e
urbanisticamente fatiscenti, ma sono anche il luogo di una
contrapposizione dei cittadini allo Stato che appare intensa, diffusa e,
a quanto sembra, introiettata. È qui che si nascondono i latitanti, che
la gente cerca di resistere con la forza agli arresti della polizia,
che i conflitti tra interessi vengono risolti da una giustizia privata e
cruenta e le guerre tra bande armate avvengono alla luce del sole.
Mentre un miscuglio inestricabile di paura, collusione e omertà
suggerisce il silenzio ai testimoni. Sono insomma ghetti perché
riflettono un contesto infernale ma anche perché, in qualche modo, si
sentono essi stessi ghetti. Ovvero territori separati dal resto del
tessuto urbano, soggetti a codici speciali, abituati a proprie gerarchie
di potere, fidelizzati con ricompense di varia natura dalle
organizzazioni criminali”
Il “quartiere illegale” è l’espressione
sublime della razzializzazione di questo popolo. È il ghetto
all’italiana nel suo odiato, utile e imbarazzante
Sud. È lo spazio dove esiste un peccato originale e oggettivo, per il quale non esiste sociologia che tenga.
È uno
shock culturale e discorsivo che annienta tutte le altre categorie del discorso.
È
(scusateci l’astrazione che abbandoniamo immediatamente) ciò che
consente di superare, con un battito di ciglia, tutte le questioni di
diritto che la storia di quella notte pone.
In primo luogo: il
diritto di un carabiniere di sparare al petto un uomo. Ragazzino o non
ragazzino, di spalle o di faccia, in fuga o inerte.
In secondo luogo:
il
diritto di un carabiniere di sparare al petto un ragazzino in fuga,
senza alcun rischio di offesa. Che abbia ignorato o meno un posto di
blocco con il suo motorino, che girasse da solo o evidentemente in barba
al codice della strada (ma solo al codice della strada!!) a due, a tre,
o quattro senza casco.
Questa discussione non esiste.
Esistono invece tutte quegli argomenti che servono a giustificare
l’omicidio di un ragazzino a opera di un carabiniere, che si esprimono
nel trovarsi in un quartiere dormitorio con un alto tasso di criminalità
organizzata, con altissima disoccupazione e dispersione scolastica, con
servizi zero, prospettive nulle. Esiste, dunque, la colpa di essere
povero.
In un quartiere ghetto, costruito, come tanti altri ghetti
nostrani, da quello stesso Stato e dai poteri forti che evocano
legalità mentre continuano ad affamare, avvelenare e impoverire le
nostre terre. E mentre sparano, senza alcun diritto, rivendicano
legalità.
Il giorno dopo raccontano al mondo il ghetto.
Mentre
continuano ad avvelenarlo di miseria, mentre continuano a intossicarlo
di disoccupazione e dispersione scolastica. Domani sarà di nuovo il
ghetto “dimenticato”, perché in questo paese non si vede luce in fondo
al tunnel della disoccupazione e della precarietà, allo smantellamento
della scuola e dei servizi.
Quello che vediamo davanti a noi
è un razziale odio di classe da romanzo dell’800, ma terribilmente vivo nelle attuali testate nazionali e nell’opinione pubblica nostrana.
Un
odio di classe necessario: l’odio figlio della paura che quella
moltitudine di corpi esca dal corpo, rabbiosa, per rivendicare un
briciolo di dignità. La paura che quella moltitudine fuoriesca dal
ghetto.
La Napoli bene, che ha trascorso l’inverno a scimmiottare le frasi più cult di “
gomorra”,
ha tremato dinanzi all’ipotesi che quella gente arrivasse fuori alle
proprie case, ha tremato all’idea che lo stato di cose presenti venisse
messo in discussione.
Su queste paure, coscienti o meno, mette
basi il falso assioma classista che vuole nella povertà e
nell’illegalità la causa della prevaricazione e la nascita delle mafie.
Lo stesso assioma che vuole tutti i poveri camorristi e, fuori dalla
città, tutti i napoletani camorristi. Sulla base di questo assioma trova
perfino giustificazione l’omicidio di un ragazzino di 16 anni per mano
di un carabiniere.
Noi oggi non vogliamo raccontare la storia di quella notte, lo sta facendo benissimo
la gente del rione Traiano
che con forza dirompente esplode di narrazioni, testimonianze, video,
interviste, che scende in piazza ogni giorno e parla linguaggi diversi.
Che ha la forza di parlare con noi, reagendo anche alle svariate
operazioni delle grandi testate giornalistiche e dei miseri poliziotti
di quartiere che dal primo giorno hanno avuto l’ansia di raccontarci in
piazza come corpo estraneo, “portatori d’odio”, violenti e pericolosi,
che dal primo giorno si sono occupati di diffamare la nostra
solidarietà.
Testate e poliziotti che non aspettano altro che
completare l’assioma povertà=illegalità=camorra mettendoci dentro anche
coloro che come noi dal primo giorno hanno scelto di non abbandonare
Davide e i suoi amici (un primo imbarazzante comico assaggio sul
Corriere del Mezzogiorno
del 10 settembre traccia con aria massonica trame di connessione tra
antagonisti e dei virgolettati “amici di Davide”, inserendo con un colpo
di magia tra le prime quindici parole anche i mitici “black block”).
Testate
e poliziotti che non aspettano altro che creare altri ghetti nel
ghetto, per rimettere ogni cosa al suo posto e tornare a dialogare
serenamente con i galoppini delle piazze di spaccio della zona, quelli
che portano valanghe di voti ai politici di turno a ogni appuntamento
elettorale.
Questo ve lo possiamo raccontare: in piazza, sabato, c’erano loro a mantenere calma la manifestazione.
Per nostra fortuna erano la minoranza di un quartiere vivo e solidale che piangeva, urlava, cantava e pregava. Gente semplice.
Noi stiamo con queste persone, voi scegliete da che parte stare.
Il silenzio, sicuramente, sarebbe più dignitoso.
Noi vogliamo ringraziare questi ragazzi
perché è solo grazie alla loro scelta di stare in piazza ogni giorno da
sabato che forse la ricerca di verità e giustizia non sarà vana.
E vogliamo ringraziare
l’associazione ACAD che ha tempestivamente offerto supporto legale, gestendo anche in parte efficientemente la comunicazione nei giorni successivi.
A
tutti i perbenisti da tastiera facciamo l’invito a un po’ di silenzio e
ad una rapida ricerca su Google per scoprire che la metà delle proprie
convinzioni è falsa. Se proprio non ci riescono, gliene forniamo
qualcuna.
1)
“A Napoli si scende in piazza solo quando un carabiniere ammazza un ragazzo e mai quando uccide la camorra!”
Falso.
A Napoli si scende in piazza sempre contro gli abusi dell”una e
dell’altra faccia del capitalismo, basta guardare la fiaccolata dopo la
morte di Pasquale Romano (novembre 2013), vittima innocente di una
guerra di camorra.
2)
“Dopo la morte di Davide Bifolco sono state incendiate 6 auto della polizia.”
Falso. La questura stessa in un comunicato ufficiale smentisce la notizia.
3)
“Bisogna tutelare la privacy del carabiniere e non diffondere le sue generalità per la presunzione d’innocenza.”
Noi
chiediamo a gran voce che le generalità del carabiniere siano diffuse
perché siamo convinti che questo sia un atto di tutela nei confronti
dell’intera cittadinanza. Vogliamo essere sicuri che sia lui e solo lui a
pagare per ciò che ha fatto, senza la possibilità di insabbiare e
depistare le indagini o inquinare le prove come già è stato fatto sul
luogo del delitto. Vogliamo che sia lui a non tornare mai più al suo
posto di lavoro, per la tutela dell’intera comunità, pretendiamo le sue
generalità per una questione di trasparenze e tutela dal basso della
cittadinanza. Al contrario, dettagli della vita della famiglia di Davide
sono stati passati al setaccio dai giornali per costruire l’immagine di
un ragazzo-delinquente.
4)
Per quale
motivo nessun giornale ha posto l’attenzione sul fatto che l’indagine
sia stata affidata agli stessi carabinieri, dunque colleghi
dell’omicida? Non sarebbe stato un gesto di buon senso e di trasparenza affidarle a un altro organo dello Stato?
5)
“Il colpo che ha ucciso Davide è accidentale”
Da quando in Italia esiste la legge Reale, 1975, sono più di 1000 i
casi di morti “accidentali”, grazie all’art. 14 che recita: “estendendo
la previsione normativa dell’art. 53 c.p., consente alle forze
dell’ordine di usare legittimamente le armi non solo in presenza di
violenza o di resistenza, ma comunque quando si tratti di «impedire la
consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro
aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano
armata e sequestro di persona”. Gli agenti colpevoli di omicidio l’hanno
sempre fatta franca. È arrivato il momento di abolire questa infame
legge che tutela gli omicidi di Stato.
6)
“ Il carabiniere che ha ucciso Davide Bifolco NON È sottoposto a custodia cautelare”
Questo risulta davvero incomprensibile, visto che è stato già appurato
che l’agente dell’Arma abbia di proposito inquinato la scena del delitto
e le relative prove, spostando il cadavere e nascondendo il bossolo.
Cosa fa credere al PM che non possa farlo di nuovo? Questa eventualità è
resa possibile dal fatto che sono gli stessi appartenenti all’Arma a
condurre le indagini sul caso.
7)
“Se vai a 3 sul motorino senza casco e assicurazione sei colpevole quanto il carabiniere”.
Sembra assurdo, ma va ricordato a tutti i paladini della giustizia che
le mancate osservanze del codice della strada prevedono una sanzione
amministrativa che, per quanto cruenta, non ha ancora raggiunto la pena
di morte. La Corte di Cassazione, inoltre, ha in passato definito
l’infrazione di un posto di blocco non un reato penale. L’omicidio in
Italia prevede una pena non inferiore ai 21 anni di reclusione.
8 )
“Il carabiniere era sotto pressione, succede quando si fa servizio in quartieri difficili”
Falso! Se il carabiniere subisce cosi tanto la pressione può scegliere
tranquillamente un altro mestiere: viviamo tutti i giorni di stenti e
lavori precari e non per questo ammazziamo la gente. Ripetiamo, inoltre e
fuor di retorica, che nei quartieri difficili le forze dell’ordine
hanno dei rapporti di convivenza, politici ed economici, con la
criminalità organizzata che permette loro di stare tranquilli. La
maggior parte delle caserme o dei commissariati della periferia sorgono
nei pressi di piazze di spaccio (vedi Secondigliano, Scampia, o lo
stesso Rione Traiano) e non ci sembra che vengano assaltate
quotidianamente.
9 )“
I cortei sono gestiti dalla camorra, come durante l’emergenza rifiuti”
Niente di più falso! Basterebbe farsi un giro e non fermarsi alle
apparenze, per capire che i primi a non volere troppa visibilità e caos
nelle strade sono gli stessi appartenenti alle organizzazioni criminali.
La stessa magistratura ha poi confermato negli anni che l’interesse dei
clan è sempre stato rivolto al ciclo dei rifiuti, legale e illegale, e
che esistevano delle connessioni tra i capitali che provenivano dai clan
e la costruzione delle discariche e degli inceneritori. Ne deriva che
la Camorra e lo Stato si sono alleate contro i cittadini perché il ciclo
dei rifiuti fosse quello progettato dalle istituzioni. (Ancora oggi un
nuovo ciclo virtuoso dei rifiuti in Campania non si vede. Impianti di
riciclaggio e compostaggio non vengono costruiti!)
10)
“Il carabiniere non aveva altra scelta, era una situazione difficile e doveva impugnare la pistola per sicurezza”
Quello che è imperdonabile all’infame che ha ucciso Davide Bifolco è
proprio questo: sorvolando sull’inusuale accanimento con il quale di
principio si è appassionato all’inseguimento di questi pericolosi
criminali, la gazzella dei carabinieri aveva già speronato e fatto
cadere i tre ragazzi, i carabinieri avevano ormai il motorino e
sarebbero potuti risalire al proprietario; avevano inoltre tratto in
arresto già uno dei tre. Esistevano insomma tutti gli elementi per
risalire agli altri due presenti sul mezzo (non vi raccontiamo quali
strumenti vengono quotidianamente utilizzati nelle caserme napoletane
per portare a buon fine gli interrogatori!): non c’era nessun motivo per
sparare, non c’era nessun motivo per togliere gli anni migliori a un
ragazzino innocente.
ì 08 Settembre 2014 17:27
Traiano non è Ferguson
Nel
raccontare e analizzare i fatti di Traiano, alcuni "illustri"
commentatori (Saviano in testa, seguito da altri giornalisti mainstream)
si sono lanciati in facili analogie con Ferguson, che ci sembrano però
alquanto forzate. Ci potranno sicuramente essere analogie sulla gestione
della marginalità e della povertà, analogie sul come agisce la polizia
in certi quartieri.
Quartieri che vedono militari che si sentono
di agire in uno stato di guerra e che vengono sistematicamente
addestrati per muoversi in questo modo. Non è un caso che molti di
questi "ragazzini in divisa" mandati in nei quartieri popolari sono
reduci da missioni di guerra. Militari sottoposti ad una formazione
razzista e sterotipata che fanno del disprezzo della povertà un punto
fermo, per cui la vita di un ragazzino di quartiere non ha nessun
valore.
Ma del resto che quartieri costruiti per ospitare la
povertà e la marginalità conoscano il controllo poliziesco come unica
faccia del potere statale non ci sembra assolutamente una novità. E
anche qui, le differenze rispetto a Ferguson, non sono poche: in quei
quartieri parliamo di una polizia militarizzata e di un controllo che
possiamo definire "scientifico", quindi qualcosa di sicuramente diverso
rispetto a quanto vediamo a Traiano e nel resto della periferia
napoletana. Crediamo, però, sia molto più interessante guardare ed
analizzare le analogie che assolutamente non ci sono, e, ahinoi, a non
esserci, è sicuramente la rivolta.
Esplosione che abbiamo sperato,
ma che purtroppo non si è data. Molte delle risposte del perchè questa
rabbia non sia esplosa non sono difficili da individuare. Se l'unica
faccia del potere statale in quei territorio è la polizia, c'è un altro
potere ben più invasivo e radicato che condiziona le dinamiche sociali
di questi luoghi.
Ed è il potere economico e militare del
"sistema". Perchè è questo il volto reale dello sfruttamento capitalista
su questi territori.Soccavo è una delle principali piazze di spaccio, e
si sa, neanche questa è una novità, alle piazze di spaccio il casino e l'esposizione mediatica non piacciano assolutamente. "La camorra ci
protegge, lo Stato ci uccide". Una frase che i pennivendoli si sono
affrettati a sbattere in prima pagina nel tentativo di buttare
discredito sulla morte di Davide e su un intero quartiere.
Non
dubitiamo che possa essere stata detta, e del resto quando l'unico volto
statale che conosci è la divisa, non è difficile illudersi che questa
infame menzogna sia vera. Ma la verità è che il "sistema" non ha figli
da proteggere. Al "sistema" non interessa la dignità di un quartiere e
di una città, non interessa la morte di un bambino. L'unica cosa che
interessa sono i profitti. Quindi the show must go on. Le basi devono
tornare a lavorare a pieno regime e nel più breve tempo possibile.
Ed
è così che Stato e Camorra tornano ad essere un solo volto. Il volto di
un potere pervasivo, violento e parassitario, che non esita a
proteggersi a vicenda, tornando ad essere un solo esercito. Del resto il
"sistema", con il suo carattero parissatario, anche da tragedie come
queste può trarre benefici: "qua non si muove nulla, nessuna rivolta, ma
per un po' noi facciamo i cazzi nostri senza sbirri tra i piedi." E la
vita di un ragazzino finisce ad essere svenduta per i profitti del
"sistema".
E allora va bene il corteo, perchè questi ragazzini che
si sono visti ammazzare un coetaneo, un amico, un ragazzo del
quartiere, dovranno pur sfogarsi in qualche modo, l'importante è che
duri poco e resti perimetrato dentro certi paletti. E così che quanti
alla fine del corteo, non troppi a dire la verità, provano ad alzare
qualche barricata, se non indietreggiano davanti ai lacrimogeni della
polizia, sono costretti a indietreggiare davanti all'ordine del
"sistema".
Ma bisogna dirsi la verità fino in fondo. Se non fosse
stato per la capacità delle realtà di base del quartiere e di quelle
cittadine nel trovare le giuste connessioni e i giusti modi,
probabilmente non avremmo assistito nemmeno a quel corteo, a
quell'unico, timido, momento di rabbia. Del resto è quello che si poteva
percepire fin dalle prime ore. Ma noi per primi, siamo finiti vittime
delle nostre stesse enfatizzazioni e speranze. Perchè la verità è che
quelle auto della polizia distrutte e il quartiere in rivolta subito
dopo l'uccisione di Davide, quando la mano del "sistema" ancora non
aveva tirato il freno, non sono altro che una enfatizzazione
giornalistica e di chi come noi ha creduto e sperato in una possibile
esplosione di rabbia.
Certo, quella che ha attraversato e animato
il corteo è stata una composizione estremamente giovanile, ma che
probabilmente prima ancora di essere trascinata dalla rabbia, vive una
situazione di confusione e smarrimento. Quello con cui bisogna fare i
conti è che si tratta di una generazione stretta tra l'incudine e il
martello; tra il nulla di quartieri ghetto, fatti di palazzoni disposti
in file regolari e attraversati da enormi vialoni che rendono ancora più
difficile la socialità, che vedono nell'asfissiante militarizzazione
una costante, e l'ancor più pervasivo potere e controllo del "sistema".
Insomma,
una rabbia e una rivolta ancora lontane dall'esplodere, ma sicuramente
tante contraddizioni con cui fare i conti ed agire. Una di queste è
sicuramente quella per cui al "sistema" la vita e la giustizia per chi
vive i quartieri non interessa assolutamente.