Sempre sulla scuola e la controriforma in corso del governo Renzi che in parte segue gli aspetti più reazionari dei precedenti governi, e soprattutto su come contrastare "colpo su colpo" questi attacchi, pubblichiamo "Alcune riflessioni
sull'università" scritte da uno studente compagno della Federico II di Napoli.
L'UNIVERSITA' NEGATIVA
Se è vero che costantemente
affermiamo che è nell'università che vengono elaborate, affilate e
affinate le armi ideologiche, culturali, retoriche attraverso le
quali la borghesia afferma, teorizza e naturalizza la condizione di
sfruttamento è necessario evidenziare come uno dei compiti più
importanti per chi fa attività politica nell'università sia quello
di contrastare colpo su colpo, mettere i bastoni tra le ruote a
queste elaborazioni creandone e costituendone di proprie. Espropriare
gli espropriatori degli strumenti intellettuali e culturali.
Ma, come da anni facciamo
già, per cogliere a pieno questo ruolo dell'università e
contrastarlo è necessario “aprire” l'università alle
contraddizioni della società, a tutte quelle esperienze che
sfondando le porte della “torre d'avorio” portino le
contraddizioni che investono il mondo dentro le aule universitarie.
Ma come evitare che tali
iniziative siano viste solo come un momento in cui la gente prende
coscienza delle brutture che comunque restano fuori e lontane
dal mondo della formazione? Come cercare non solo di far sì che ci
si accorga che c'è “tutto un mondo fuori” (già presa di
coscienza non da poco nel deserto culturale di questi anni) ma che è
l'università stessa pienamente inserita in queste contraddizioni e
rispetto alle quali ha un ruolo attivo, decisivo e centrale,
politico.
Il rischio è far sì che la
gente si scandalizzi di ciò che succede nel mondo e lo faccia
dall'alto della sua aula universitaria, che pensi che il problema sia
proprio che il mondo non sia “bello e libero”, “meritocratico e
culturalmente evoluto” come il suo luogo di formazione nel quale si
sente a casa.
Il rischio è proprio quello
di non cogliere il ruolo stesso dell'università in tutto questo.
Come giustamente
sottolineavano alcuni compagni, lo spauracchio dei privati
all'interno dell'università ha perso la sua aurea di evento da
scongiurare a tutti i costi dal momento che il problema che vivono
gli studenti è proprio quello di una scarsa integrazione tra
università e mondo del lavoro. La paura è quella di non trovare
lavoro, proprio di non trovare privati, di non aver avuto una
formazione adeguata alla ricerca di un lavoro o, al contrario, di non
ritrovarsi, finita l'università, in un tessuto produttivo “degno”
del percorso di studi fatto.
Ecco, questo tipo di retorica
e ideologia rende difficile il contrasto al ruolo stesso
dell'università attraverso il semplice slogan “contro
un'università al servizio dei privati”.
Come trovare la maniera di
contrastare, anche teoricamente, la decantata sinergia tra mondo del
lavoro e mondo della formazione?
Cercando di evidenziare la
sinergia che c'è tra luoghi di sfruttamento e luoghi di formazione,
creando la sinergia tra lotte dei lavoratori e lotte della
formazione.
In questo senso va
approfondito il ragionamento su “i lavoratori vanno in cattedra”
al di là del fatto che come collettivo universitario questa è stata
una pratica che sempre ci ha contraddistinto ma cercando di cogliere
ancora di più tutte le potenzialità che questa pratica ci può
dare.
Come?
A livello organizzativo è
necessario far sì, o anche semplicemente dare la percezione che il
nucleo di coscienza e di elaborazione antagonista che è il
collettivo universitario metta in piedi una vera e propria
“università negativa”. Questo non solo nel senso di estendere il
lavoro teorico e politico del collettivo a una dimensione più ampia,
anche solo nelle intenzioni, ma il tentativo di, oltre ad essere un
collettivo dentro l'università, di essere il nucleo propulsore per
spaccare l'università in due, sdoppiarla, dividerla, a tutti i
livelli. Tra gli studenti, tra i professori, tra i ricercatori,
cercare di costruire un luogo di contro-università che agisca però
allo stesso modo come raccoglitore di forze per cambiare l'università
stessa in stretta connessione con le lotte generali che attraversano
la società tutta e il pianeta intero.
In termini pratici, (anche
per riuscire a portare il nostro lavoro politico anche in università
e facoltà dove siamo poco presenti, nelle facoltà scientifiche,
ecc...) penso sia necessario continuare ad approfondire la dinamica
in cui salgono in cattedra i lavoratori e le loro lotte.
E' necessario che attraverso
queste iniziative, attraverso l'autorevolezza delle lotte si
contrastino i difetti di cui sopra del mondo universitario, sottili
versioni della logica meritocratica e di un capitalismo culturalmente
evoluto e buono. Che le lotte dei lavoratori “curino” le lotte
universitarie dai loro difetti e dalle loro speranze di maggiore
integrazione con il capitale!
Tutto questo lavoro però,
perché sia efficace, è necessario portarlo a un livello più alto,
“più scientifico” riprendendo il concetto di “filiera” anche
se in termini solo esemplificativi.
Sarebbe interessante, di ogni
iniziativa, non solo portare i lavoratori e le lotte in cattedra ma,
porsi il problema di cogliere, anche in ogni singola lotta, quale può
essere il ruolo dell'università, del sistema della formazione e
della conoscenza nel generare e teorizzare le situazioni in
questione. Cercando di fare questo per temi dove siamo anche meno
allenati ad evidenziare queste connessioni rispetto ad altri, tipo la
Palestina. In questo senso, ribattere colpo su colpo alle
teorizzazioni che avvengono nell'università ricostruendo la
“filiera” tra , da un lato, i lavoratori che praticamente le
subiscono e le combattono e, dall'altro, i luoghi dove teoricamente
si elaborano (e magari si contrastano).
In questo senso ad esempio
coinvolgere studenti e ricercatori ed eventualmente professori di
ingegneria quando si parla di guerra o logistica o no tav. Riuscire a
individuare in queste battaglie il mondo del sapere che ruolo gioca e
ha giocato.
Se queste teorizzazioni
vivono nel mondo universitario, che si contrastino nell'università,
portando in cattedra esperienze che ce ne dimostrino le conseguenze
di sfruttamento. Ci sarà qualcuno che studia il contratto di
apprendistato, il Tmc2 o l'Ergo-uas, la geografia dei flussi di merci
nella logistica, la crisi economica, e dall'altro lato c'è qualcuno
che tutte queste cose le subisce sui posti di lavoro.
Aprire l'università alle
contraddizioni della società ma così facendo mettendo in luce le
sue stesse contraddizioni. Connettere il mondo del lavoro e mondo del
sapere. Cioè, in sintesi, cercare di far vivere praticamente e in
maniera più approfondita la frase “il sapere non è neutro”,
cercando di mostrarlo a ogni iniziativa e su tematiche che
coinvolgano anche facoltà dove di solito il nostro lavoro politico
non arriva.
In questo senso tentare di
costruire una “università negativa” che insegni, che respinga il
ruolo assegnato al mondo della formazione dal capitale ma che anzi,
si ponga l'obbiettivo di essere utile a tutto ciò che contrasta
questo modello di società.
Insegni agli studenti cosa
succede all'esterno, nella società, nei territori di popoli in lotta
e nei luoghi di sfruttamento ma sopratutto come l'università e il
sapere che si costruisce là dentro abbia un ruolo attivo in tali
contesti.
Ma che fare poi, nel caso le
cose andassero bene di tutto questo? Cosa ricavarne? Come continuare?
Da un lato iniziative del
genere ti permetterebbero di coinvolgere parecchia gente che non
incrociamo nella quotidianeità e di facoltà dove l'intervento
politico è scarso, di riuscire a fare iniziative davvero formative,
e tutto questo è già tanto. Inoltre, una impostazione del genere ci
permetterebbe, se da un lato di fare anche meno iniziative ma magari
più pensate, di stare comunque “sul pezzo” cogliendo spunti e
feedback che provengono tanto dalla società in generale, quanto
dalle aule universitarie stesse e dalle cazzate che si dovranno
sorbire, ad esempio, gli studenti di storia dell'Ucraina, politiche
migratorie o ingegneria aereospaziale.
Ma dall'altro lato è
necessario fare un passo avanti che ha come presupposto il recupero
di pratiche che pur essendo rimaste sempre nel nostro dna è
necessario recuperare. Da un lato la forte conoscenza e
specializzazione sull'università in generale e sulle nostre
università in particolare. Riprendere lo studio certosino di cosa
sia l'università ma anche quotidianamente di cosa fa l'università,
riprendere l'abitudine di leggersi i verbali accademici, di studiarsi
il funzionamento generale della nostra università e specializzarsi
in questo nostro terreno d'intervento. Dall'altro lato, e
strettamente collegato a questo primo aspetto, riprendere nella
nostra testa la possibilità di incidere e modificare l'università,
riprendere la volontà e l'impegno di tentare strade per incidere e
cambiare alcuni aspetti del luogo dove facciamo politica, intervenire
e incidere in un luogo sovrastrutturale, certo, ma che senz'altro ci
garantisce margini di iniziativa di intervento anche se non
strettamente collegati alle strutturali lotte sul lavoro
(permettetemi la forzatura della frase).
La forza accumulata su
tematiche specifiche e concentrata alle iniziative, anche perché li
riguardano più o meno direttamente (guerra e ingegneria; riforme sul
lavoro e giurisprudenza, medicina ed Ilva, ecc...) deve essere poi
utilizzata non solo nella formazione di nuovi quadri e quindi
nell'approfondimento generale di tali tematiche ma nel tentativo di
incidere concretamente nell'università.
Su questo gli esempi che più
mi balzano agli occhi sono quelli, ovviamente delle “convenzioni”
e un lavoro politico per chiederne la rescissioni, o l'intervento sui
criteri e le agevolazioni per gli studenti lavoratori (cosa che
sarebbe molto interessante come segnale, ma che è solo una
intuizione campata in aria), o altro; su questo sarebbe necessario
scervellarsi. E c'è anche la questione dei tirocini, sarebbe
divertente una campagna che tirocini dove si inizia con una critica
ai tirocini che coinvolga dagli studenti che hanno il tirocinio
obbligatorio ai lavoratori che subiscono l'invasione dei tirocinanti
e il conseguente peggioramento delle condizioni di lavoro.
Magari partire con una sorta
di campagna che in maniera embrionale abbia già in testa i vari
passaggi, dalla preparazione di una iniziativa, alla successiva
rivendicazione, toglierebbe di astrattezza sto ragionamento che
comunque è poco più che uno spunto di riflessione.
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