Che
sia il canto del cigno del capitalismo decadente!
Sotto
la sferza dell’epidemia di coronavirus, una nuova crisi produttiva
e finanziaria del sistema capitalistico internazionale è tornata a
farsi estremamente vicina e, mai termine fu più appropriato,
virulenta.
Se
a dar fuoco alle polveri nel 2007/2008 sono stati i mutui sub-prime,
oggi è il covid-19
ad aprire le danze, cioè uno shock
esogeno, anche se
tale aggettivo è corretto solo se utilizzato in senso stretto, cioè
prescindendo da tutte le devastazioni che il modo di produzione
capitalistico ha inferto all’ambiente naturale, nel senso più
ampio del termine e che, negli ultimi decenni, si sono estese e
approfondite con una progressione esponenziale.
In
ogni caso, il coronavirus ha svolto la funzione di detonatore di
contraddizioni e problemi che l’economia capitalistica porta in
grembo da tempo e che, a dispetto del suo andamento ciclico – fatto
di recessioni/crisi finanziarie e riprese successive e nonostante la
situazione diversa in cui si collocano le differenti aree – si
caratterizza per una difficoltà crescente della riproduzione
capitalistica a scala globale, che ha la sua radice nella crescente difficoltà di valorizzazione, della quale i più sofisticati artifici della finanza speculativa e l’impiego di tutte le risorse delle Banche Centrali, capaci di creare denaro – ma non valore – dal nulla non riescono a venire a capo.
capitalistica a scala globale, che ha la sua radice nella crescente difficoltà di valorizzazione, della quale i più sofisticati artifici della finanza speculativa e l’impiego di tutte le risorse delle Banche Centrali, capaci di creare denaro – ma non valore – dal nulla non riescono a venire a capo.
Il
crollo delle Borse mondiali, iniziato nelle piazze asiatiche nelle
scorse settimane ed estesosi ora a tutto il mondo occidentale, da
Wall Street ai mercati finanziari europei (Milano, “centro
epidemico”,
è addirittura sprofondata fino al record negativo di
tutti i tempi: -17% in un solo giorno, ma anche Londra, Francoforte,
Parigi e New York hanno subito perdite pesantissime), segnala con una
potenza dirompente che
una nuova edizione della crisi sistemica del capitalismo mondiale
bussa alle porte,
ridicolizzando le
letture minimaliste che appena qualche giorno fa i portavoce del
capitalismo globale si affannavano a proporre.
L’Interim
Economic Outlook dell’OCSE,
ad esempio, prevedeva un rallentamento dell’economia mondiale dal
2,9% al 2,4% e manteneva previsioni ottimistiche per il PIL mondiale
del 2021, confermando che le analisi degli organismi internazionali,
più che “prevedere” gli avvenimenti, si sforzano di
influenzarli, condizionando i comportamenti dei soggetti economici.
Ma evidentemente qualcosa non quadrava in questo affresco, se nel suo
The world economy at
risk la stessa OCSE
ipotizzava anche un possibile dimezzamento della crescita (1,5%) in
un quadro di “alta incertezza dell’economia mondiale”.
E
uno dei principali esponenti di tali organismi Kenneth Rogoff – ex
capo economista del FMI e membro del board della FED – si è spinto
a parlare di recessione mondiale, evocando lo shock petrolifero del
1973. Per quanto il parallelo col 1973 suoni beffardo, vista la
situazione opposta del prezzo del greggio allora ed oggi, il sentore
di un crash
incombente si è dunque affacciato anche in esponenti qualificati
dell’establishment.
Sta
di fatto che i fattori di crisi si sono accumulati rapidissimamente
nell’economia, richiamando scenari drammatici. Ancora una volta, è
bastato poco per mettere in moto una reazione
a catena micidiale,
di cui stiamo vedendo l’esordio e di cui nessuno conosce la reale
portata e il possibile punto di arrivo. Quello che è certo è che il
meccanismo stesso di propagazione della destabilizzazione economica
mostra un sorprendente parallelismo con la dinamica di contagio del
virus che ne ha costituito il detonatore “esterno”. Se ciò
avviene è perché nella riproduzione del capitale complessivo i
materiali infiammabili pronti ad incendiare la prateria alla prima
occasione non solo non sono stati eliminati, ma si sono ulteriormente
accumulati.
La
“grande crisi” che le classi dominanti di tutti i paesi
dichiaravano essere ormai definitivamente alle spalle è stata in
realtà superata (o tamponata) senza rimuoverne i fattori scatenanti,
anzi con il loro rafforzamento.
Dodici
anni fa, l’intervento massiccio delle Banche Centrali di tutti i
principali Stati salvò un sistema finanziario mondiale ormai
virtualmente in default,
inondando l’economia di moneta, sostituendosi alle banche
commerciali ormai paralizzate e mantenendo tassi d’interesse
estremamente bassi, quando non addirittura negativi, come nel caso
della BCE.
Questo
fatto, se ha evitato la deflagrazione del sistema economico, ne ha
però ulteriormente rafforzato la finanziarizzazione, sebbene
economisti accademici e agenti del capitale in varie vesti si siano
sforzati di dire che la causa della crisi era da ricercare nella
finanza “senza regole” non più al servizio della cosiddetta
“economia reale”.
Questo
è uno dei nodi che oggi vengono al pettine in questa nuova crisi.
L’economia
mondiale degli ultimi anni ha beneficiato appunto di tassi prossimi
allo zero e di una copiosa liquidità assicurata dalla Banche
Centrali, o direttamente (come nel caso della FED, della Banca
d’Inghilterra, della Banca Centrale giapponese) o indirettamente,
come nel caso della BCE, che ha fatto lo stesso con il quantitative
easing di Draghi,
che ha aggirato i vincoli statutari su cui è stato costruito
l’edificio dell’euro.
E’
questa politica monetaria che ha permesso a tutte le principali
imprese mondiali di indebitarsi in modo massiccio. Il
Sole 24 Ore del 10
marzo riporta un dato assai significativo: attualmente,
l’indebitamento delle sole aziende non finanziarie globali ammonta
a 74.000 miliardi di dollari, pari al 94% del PIL mondiale.
Un indebitamento di simili proporzioni, va da sé, è una mina pronta
ad esplodere non appena qualcosa vada storto, sia esso un calo dei
profitti, un innalzamento dei tassi di interesse, un qualunque
fattore di instabilità che modifichi in senso sfavorevole la
congiuntura. In tutte le grandi corporations,
anche quando si parli di imprese industriali, è
cresciuta enormemente la dimensione finanziaria e speculativa.
Esse non si limitano a gestire speculativamente le eccedenze
valutarie, cioè il capitale monetario temporaneamente inattivo, ma
spostano sul terreno finanziario quote crescenti dei profitti
generati nel processo produttivo, creando proprie divisioni ad
hoc, che non di
rado si trasformano nel vero core
business
dell’azienda. E’ un processo irreversibile, che dal superamento
della crisi del 2007/2008 ad oggi si è ulteriormente rafforzato,
utilizzando i canali bancari, il mercato obbligazionario, la
speculazione sui titoli derivati. Lo stesso processo coinvolge anche
le imprese finanziarie, gli istituti di credito, il sistema
bancario-ombra costruito attorno al mercato OTC,
gli hedge
funds,
ecc. L’epidemia in
corso ha dato il via ad un sommovimento che scuote questo enorme
castello di debiti, prospettando l’avvio di un catena paurosa di
default
a scala internazionale,
complice lo stallo del mercato obbligazionario, la vulnerabilità del
sistema bancario – nonostante i numerosi interventi, succedutisi in
questi anni, volti a puntellarne la stabilità – e l’interruzione
forzosa dell’intera catena dell’approvvigionamento di liquidità
e di finanziamento delle imprese.
Presagendo
queste scosse telluriche, la FED ha tentato di giocare d’anticipo,
tagliando i tassi fino all’1-1,25%. Wall Street ha ringraziato, ma
subito dopo ha continuato la sua corsa verso il basso, a
dimostrazione che una sforbiciata dei tassi non basta a raddrizzare
la situazione. Del resto, se l’intervento della FED ha mostrato la
sua inefficacia (Trump avrebbe voluto un taglio ancora più deciso),
una situazione peggiore attanaglia la BCE, dal momento che i tassi
d’interesse nel vecchio continente sono già negativi e quindi la
politica monetaria ha un margine d’azione praticamente nullo. E lo
si è visto chiaramente alla prima occasione in cui la Lagarde è
dovuta intervenire, con l'effetto di accentuare al massimo (il 12
marzo) la rovinosa caduta delle borse europee (tutte).
La
guerra del petrolio
L’ulteriore
elemento devastante è la guerra del petrolio scoppiata fra la Russia
e l’Arabia Saudita. Con un prezzo del barile crollato a poco più
di 30 $ (come durante la prima guerra del Golfo), sono tracollati i
titoli delle compagnie petrolifere, trascinandosi dietro gran parte
dei listini di Borsa e accelerando la corsa verso i beni-rifugio. Non
a caso, l’oro ha superato i 1700 $ l’oncia per la prima volta in
sette anni e, contemporaneamente, sono calati ai minimi i tassi
pagati dai Treasury
Bond decennali
(considerati i più sicuri) per la corsa ad accaparrarseli, che ne ha
fatto lievitare il prezzo di acquisto, deprimendone per ciò stesso i
rendimenti. I grandi operatori del mercato, gli squali delle Borse e
i gestori di fondi, compresi gli hedge
funds abituati a
lucrare sui rischi e le speculazioni, hanno iniziato a puntare
altrove, fuggendo anche dal mercato delle obbligazioni societarie,
che si è praticamente paralizzato.
I
titoli delle compagnie petrolifere legate alla produzione di shale
oil (quello
estratto con la tecnica del fracking)
hanno registrato perdite dal 40% all’80%. Ma non si tratta solo di
temporanei cali delle quotazioni azionarie, bensì di un tracollo
della redditività che ne mette in forse la stessa esistenza, e
rischia di trasmettersi piuttosto rapidamente anche alle banche che
le hanno finanziate – con evidenti effetti anche sulla politica
statunitense e la stessa rielezione di Trump. I costi di estrazione
del greggio per OPEC e Russia sono più bassi di quelli americani e
infatti la produzione autoctona statunitense ha sempre conosciuto uno
stop and go
legato ai prezzi e alla domanda internazionale. Laddove quest’ultima
può essere soddisfatta solo grazie al quantitativo immesso dai
produttori yankee, i prezzi sufficientemente alti remunerano anche le
condizioni peggiori di produttività. Ciò determina la formazione di
una rendita differenziale per i paesi dell’OPEC e, allo stesso
tempo, consente alle aziende USA, gravate da maggiori costi di
produzione, di ricavare quantomeno il profitto medio, cioè un
profitto “normale” se rapportato al capitale da loro investito.
Questo meccanismo è tanto più valido per lo shale
oil, che ha costi
di estrazione ancora più elevati e quindi abbisogna di prezzi
internazionali sufficientemente alti da renderne conveniente lo
sfruttamento.
L’attuale
guerra petrolifera (in cui, a sparare per prime sono state proprio le
compagnie USA del fracking,
che hanno sistematicamente compensato i tagli della produzione OPEC e
russa con aumenti delle proprie quote) è ricca di implicazioni
pesantissime, non solo per i listini di Borsa, ma per la stabilità
dell’economia capitalistica nel suo insieme e per
lo sconquasso che può produrre nei rapporti di potenza a livello
internazionale, nelle alleanze fra gli Stati e negli assetti di
un’area cruciale per gli equilibri mondiali come il Medioriente.
La
guerra fra Russia e Arabia Saudita sarà senza esclusione di colpi.
Le dichiarazioni di Mosca non lasciano dubbi, con il ministro Novak
che si è premurato di rilevare come il fallimento dell’intesa con
Riad metta fine, da entrambe le parti, alle restrizioni di
produzione, insomma un “liberi tutti” che suona come un chiaro
avvertimento. Ed infatti la Russia si prepara alla battaglia, pronta
a mettere in gioco le enormi riserve valutarie accumulate dal suo
fondo sovrano (le fonti ufficiali parlano di 570 miliardi di dollari)
e la volontà/possibilità di lasciar oscillare al ribasso il rublo,
dando ulteriore spazio alla competitività delle sue esportazioni di
greggio. Certo, quest’ultima arma va utilizzata con parsimonia,
perché il livello di cambio ha conseguenze su tutta l’economia,
anche sul versante interno. Un’eccessiva svalutazione del rublo,
infatti, potrebbe riaccendere l’inflazione interna, ma anche su
questo versante un conto è lo spazio di manovra della Russia,
comunque una grande potenza imperialista, un altro quello dell’Arabia
Saudita, la cui moneta è dipendente dal dollaro (come la sua
sicurezza dal Pentagono) e rispecchia il limitato margine di manovra
di uno Stato costruito attorno all’oligarchia finanziaria dei Saud
e allo sfruttamento dell’enorme rendita petrolifera (la cui entità
è ben misurata dal dato circolato in questi giorni, che dice di una
perdita, agli attuali prezzi del greggio, di circa 2
miliardi di dollari al
giorno per
l’insieme dei paesi OPEC).
L’esaurimento
della “spinta propulsiva” cinese
Per
quanto sommario, il quadro dei fattori di crisi che convergono verso
un nuovo crash
del sistema capitalistico mondiale non sarebbe completo se non
rilevassimo un altro elemento di grande importanza, vale a dire il
rallentamento dell’economia cinese, aggravato violentemente
dall’attuale epidemia, ma iniziato ben prima degli ultimi
avvenimenti.
Non
a caso, il sito Chuangcn.org,
a cui rimandiamo per la lettura integrale del testo, in un articolo
del 2016, riportava da fonti ufficiali del PCC la profonda
preoccupazione dell’establishment di Pechino per una crescita
sostenuta dal debito e dagli stimoli finanziari, avvertendo che tali
metodi avrebbero potuto condurre il paese verso la catastrofe
(compresa la distruzione dei “risparmi popolari”), che la
lievitazione e la successiva esplosione di bolle speculative avrebbe
prodotto una crisi sistemica, che il problema che si andava ponendo
era la riduzione della sovracapacità
produttiva
attraverso il necessario fallimento delle aziende “decotte”,
anche a costo di un periodo di stasi della crescita economica. Ironia
della storia, l’estremo pessimismo nelle alte sfere di Pechino si
contrappone all’ottimismo economico di molte analisi qui in
Occidente, riprese anche da ambienti militanti, in cui l’economia
cinese era/è presentata come un’inesauribile sostegno al processo
mondiale dell’accumulazione capitalistica.
La
guerra dei dazi avviata da Trump, con le sue conseguenze sul
commercio mondiale e sull’inversione del lungo ciclo fondato
sull’assoluta liberalizzazione dei movimenti dei capitali, si è
inserita dunque come un
fattore aggravante di problemi strutturali già presenti
nell’economia cinese,
problemi che denunciano l’inconsistenza delle interpretazioni
fondate sulla pretesa diversità del gigante asiatico e sulla sua
funzione di rivitalizzazione delle economie mature. Al contrario, la
Cina ha raggiunto con estrema rapidità i problemi dei vecchi paesi
imperialisti, mostrando che il carattere storicamente superato del
modo di produzione capitalistico non è una caratteristica che si può
“spacchettare” paese per paese, come se ciascuno potesse
ripercorrere, in un quadro di pretesa autonomia
nazionale,
la lunga marcia dalla manifattura ottocentesca al capitalismo
finanziario dei nostri anni,
ma riguarda il sistema capitalistico mondiale nel suo complesso.
Quando una nazione come la Cina si affaccia nel novero dei paesi più
industrializzati dominanti sul mercato mondiale, pur con le
contraddizioni che tuttora la attanagliano, ne eredita velocemente
anche tutti i mali che definiscono lo stadio imperialistico come
ultima fase del capitalismo, quello in cui il sistema
economico-sociale di cui la classe dei capitalisti è portatrice, non
svolge più alcun ruolo progressivo ma è solo una zavorra
reazionaria per l’intera società.
L’epidemia
di coronavirus ha amplificato le difficoltà di Pechino, bruciando i
tempi del processo. Né poteva essere diversamente. Wuhan e la
provincia dell’Hubei sono fra le più industrializzate della Cina.
Là sono concentrate molte industrie elettroniche, là si trova il
più grande polo automobilistico del paese. Lo stop delle attività
ha inferto un duro colpo alla produzione cinese. Ma già a febbraio i
dati ufficiali parlavano di un Indice composito dell’attività
manifatturiera calato ad un valore oscillante, a seconda delle stime,
fra 35,7 e 27,8 punti, più basso del livello raggiunto nel 2008 in
piena crisi finanziaria mondiale. Analogo calo nel settore dei
servizi. Sono indici che tengono conto di numerosi fattori: ordini,
produzione e consegna delle merci, consistenza delle scorte, ecc. e,
per valori inferiori a 50, denunciano una contrazione economica. Una
situazione che già si ripercuote, a ancor più lo farà nel prossimo
futuro, sulle catene
di approvvigionamento che dipendono dalle forniture cinesi,
in misura tanto maggiore quanto più il capitalismo just
in time prevede il
tendenziale azzeramento delle scorte per risparmiare sui costi di
magazzino.
A
completare il quadro, va ricordato che la Cina è il maggiore
acquirente mondiale di materie prime e energetiche. Nel 2018 ne ha
importate per un valore di circa 500 miliardi di dollari, con un
significativo calo, nel 2019, a 300 mld $. Tuttavia, nonostante il
calo delle importazioni di materie prime – che avrà un impatto
negativo soprattutto per Australia, Brasile e Russia paesi per i
quali la Cina rappresenta il “cliente” principale – le
esportazioni di Pechino sono calate ben di più, determinando, per la
prima volta, un disavanzo
commerciale di
oltre 7 miliardi di dollari. Analoghi dati si riscontrano nel
diminuito consumo di carbone, anch’esso a segnalare una contrazione
dell’attività produttiva.
Nel
sottolineare questa dinamica, questa linea di tendenza, e quindi
nell'escludere che la Cina possa fungere di nuovo da ammortizzare
della crisi globale, come avvenne in parte negli anni dopo il 2008,
non escludiamo affatto che, paradossalmente, l'impatto più duro
della nuova crisi possa verificarsi sull'Europa (già se ne vedono i
segnali) e sugli stessi Stati Uniti. E se questo dovesse avvenire per
davvero, ci siano alla Casa Bianca i repubblicani o i democratici, le
tensioni commerciali e tecnologiche tra Cina e Stati Uniti
diventeranno ancor più tese di oggi, con gli Stati Uniti costretti,
per le logiche proprie del capitalismo imperialista, a colpire
ovunque, avversari e alleati, più duramente di oggi. Solo con mezzi
economici e diplomatici? Il grande rilancio della spesa bellica e
dell'industria militare negli Stati Uniti e dovunque lascia la
questione aperta, molto aperta.
L’acuirsi
dello scontro fra le grandi potenze
L’epidemia
di coronavirus ha dunque accelerato e fatto esplodere una nuova crisi
economico-finanziaria del sistema capitalistico. Con una dinamica a
cui ci siamo rapidamente abituati, lo sconquasso della produzione di
beni e di servizi (dal turismo ai trasporti, dalla ristorazione agli
spettacoli) e della finanza investirà tutto il mondo, perché tale è
ormai (non solo tendenzialmente, ma immediatamente)
l’arena su cui il modo di produzione capitalistico gioca le sue
carte. Non esistono Stati, aree, aggregazioni che possono sottrarsi
al dominio pervasivo, e per ora incontrastato, dei rapporti
capitalistici di produzione, dei meccanismi del profitto e della
valorizzazione del capitale globale.
Rispetto
alla crisi del 2007-2008, lo scenario dei rapporti
interimperialistici e interstatali è però ulteriormente mutato. Il
declino relativo della potenza USA
non permette più l’imposizione di un ordine americano sul mondo.
Le vicende delle guerre neocoloniali in Iraq e Afghanistan stanno lì
a sanzionarlo con evidenza: gli USA sono stati in grado di “riportare
quei paesi all’età della pietra”, non sono stati in grado, però,
di dar vita ad un
equilibrio stabile,
per quanto basato sullo sfruttamento e il saccheggio delle loro
risorse. Ma se questa capacità di dominio globale è ormai svanita,
così non è per la supremazia del colosso yankee, che
l’Amministrazione Trump ha deciso di rilanciare, attizzando i
conflitti sia con gli Stati nemici che con gli alleati/concorrenti.
Il “sovranismo” trumpiano, che non è la causa del modus
operandi di
Washington, ma è conseguenza di tali profondi mutamenti, si muove
così col chiaro intento di smantellare tutti i fattori che negli
anni si sono accumulati ad arginarne azione e ruolo sul mercato
mondiale e nello scacchiere internazionale. Se il nemico strategico
resta la Cina, e la guerra dei dazi ha solo costituito l’antipasto
di ciò che riserva il futuro, non meno esposta, nell’immediato, è
l’UE e il suo progetto – sempre più contraddittorio e
problematico – di costruzione di un polo imperialistico capace, in
prospettiva, di contendere agli USA la leadership del capitalismo
mondiale. In questa direzione va, ad esempio, il lavorìo pro-Brexit,
espressione, ad un tempo, della volontà di infliggere un colpo al
vecchio continente e dell’incapacità di mantenere Londra come
pedina capace di frenare i disegni europeistici, una strategia che
ha preferito l’uovo della separazione della Gran Bretagna dall'UE,
oggi, alla gallina, domani, del condizionamento di Bruxelles da parte
di Londra.
Ma
il ventaglio dei conflitti aperti dalla accresciuta aggressività
degli USA include molti altri fronti aperti, dalla Russia, all’Iran,
alla stessa Arabia Saudita – non più intoccabile come un tempo –
mentre rinsalda al
massimo l’identificazione con Israele e la sua volontà di
annichilimento totale del popolo palestinese.
Lo Stato sionista, infatti, non rappresenta solo un alleato di ferro
per Washington, ma si potrebbe dire una vera e propria talea
imperialistica piantata nel cuore del mondo arabo, un avamposto
qualitativamente differente da tutti gli altri per tenere sotto
controllo l’intero Medio Oriente.
Ed
è proprio sul controllo di quest’area cruciale per la stabilità
del sistema che le vicende della crisi economica in gestazione
andranno ad interferire, crediamo, in modo dirompente. La guerra del
petrolio iniziata fra Riad e Mosca, ad esempio, non tradisce solo la
volontà di quest’ultima di assestare un colpo alle compagnie
yankee dello shale
oil, che insidiano
mercati energetici nell’orbita russa, ma
la volontà di rinsaldare il quadro delle alleanze nell’area,
puntellando l’opera di rafforzamento dello status di super-potenza
intrapreso da Putin già da tempo. E si può star certi che, se
perdurasse l’attuale livello delle quotazioni di greggio, la
diminuzione delle entrate da rendita petrolifera sarebbe devastante
per molte compagini statali e per
la loro capacità di fronteggiare gli amplissimi movimenti di massa
che ne contestano apertamente il potere ormai da più di un anno.
Non a caso, all’indomani della rottura del vertice OPEC Plus a
Vienna, il ministro algerino dell’energia ha lanciato un accorato
appello ai contendenti a trovare un accordo sulla questione
controversa dei tagli alla produzione.
Ancora una volta, la crisi
economica capitalistica e la sua dimensione sistemica si intrecciano
profondamente con la crisi dell’ordine di Yalta, ormai da tempo
dissoltosi, ma anche con la fine di quella lunga parentesi tenuta a
battesimo dalla prima guerra del Golfo e che sembrava rilanciare il
predominio assoluto nordamericano. Si va con tutta evidenza, benché
in modo molto caotico, verso la formazione di due
schieramenti capitalistici contrapposti,
l'uno facente perno sugli Stati Uniti, l'altro sull'asse (sempre più
obbligato) Cina-Russia, sempre più apertamente in contesa, con armi
e metodi differenti, in ogni angolo dell'economia mondiale.
Contrapposti, ma entrambi ugualmente interessati allo schiacciamento
delle masse, a garantire con ogni mezzo la stabilità del sistema e
la continuità dello sfruttamento del proletariato. Sicché per il
proletariato cosciente di sé non c'è alcun “meno peggio” da
preferire.
Le
prospettive dello scontro di classe
Con
tutta probabilità, la recessione alle porte sarà una pandemia
economica
che investirà come uno tsunami l’ordine capitalistico mondiale.
Come abbiamo già detto, è questa la scala a cui si muovono ormai le
trasformazioni del modo di produzione capitalistico e gli
sconvolgimenti del suo ordine, un ordine puntellato da
una dose crescente di militarismo verso le periferie del sistema e di
repressione e disciplinamento sociale nelle metropoli
dell’imperialismo ultrasviluppato (l'uso che si sta facendo della
crisi da Covid-19 è un vero e proprio campo di sperimentazione in
questa direzione).
Per
quanto le classi dominanti di tutti i paesi si muovano
pragmaticamente, senza un “piano scientificamente preordinato”,
ma rispondendo agli input trasmessi dalle contraddizioni del sistema
capitalistico, ciò non significa che esse siano in balìa degli
eventi. Al loro interno, maturano comunque quelle linee d’azione
che – pur scaturendo dagli interessi contrastanti delle varie
frazioni borghesi – riescono però, l’esperienza insegna, a
trovare sintesi provvisorie, capaci
di centralizzare gli interessi di tutti gli strati di sfruttatori,
finalizzate allo schiacciamento del proletariato, alla sua
sottomissione sociale e politica, alla contrapposizione delle sue
componenti interne per annichilirlo come classe indipendente.
Tuttavia,
anche se non siamo certo in una fase di conflittualità
generalizzata, in particolare in Italia dove la conflittualità
immediata è a livelli molto bassi, gli attuali avvenimenti non
potranno che accentuare
la polarizzazione sociale,
una polarizzazione che è già esplosa nelle periferie del sistema
(“periferie” sterminate, però, che vanno dall'America Latina al
Maghreb al Medio Oriente) anche se ancora fatica a manifestarsi qui
da noi, nel cuore della bestia.
Per
la classe capitalistica, la polarizzazione dello scontro sociale
rappresenta un rischio di cui i più avvertiti fra i suoi
rappresentanti sono coscienti e che si sforzano di prevenire e
neutralizzare. Ai rivoluzionari spetta il compito di organizzarsi e
muoversi almeno
con lo stesso livello di consapevolezza dei nostri nemici di classe,
cominciando a serrare le fila al nostro interno e a prospettare alle
avanguardie di lotta della nostra classe una strategia che si muova
alla stessa scala di
quella del sistema che vogliamo rovesciare.
Alla crisi mondiale dell’ordine capitalistico è giocoforza
rispondere con una strategia che abbia lo stesso respiro e che sia
internazionalista nei suoi fondamenti teorici e di principio ma
anche, inseparabilmente, nel
suo piano di battaglia politica concreta.
Se
qualcosa emerge con chiarezza dagli avvenimenti attuali è che ogni
prospettiva che si pretende di classe e anticapitalistica, ma
continua a muoversi sul terreno del localismo, del piccolo
cabotaggio, cullandosi nell’illusione che sia possibile contrastare
il rullo compressore dell’offensiva borghese strappando qua e là
brandelli di “autonomia”, non può che avere un effetto
disarmante sul movimento delle lotte, contribuendo alla loro
sconfitta.
La
dimensione mondiale della crisi ci dice con chiarezza che non
esistono percorsi di liberazione chiusi dentro confini nazionali, e
men che meno locali e localistici, per il proletariato. La classe
capitalistica di ogni paese si muove nel quadro di un sistema di
relazioni globali, e da queste è strettamente condizionata. Il
proletariato, e i rivoluzionari per primi, ne devono prendere
coscienza, rompendo con ogni prospettiva angustamente nazionale o
“sovranista”, che ipotizzi la possibilità di avanzare sul
terreno dell’emancipazione di classe appoggiando questa o quella
“soluzione della crisi” che faccia perno su una pretesa
convergenza transitoria di interessi con gli sfruttatori di casa
nostra. Questo vale per chi, ad esempio, parla di uscire
dall’euro e riconquistare la “nostra” sovranità monetaria
quale precondizione per meglio difendersi e così facendo capitola di
fronte al nazionalismo, che è precisamente il terreno su cui le
classi dominanti concentrano la loro iniziativa per serrare le fila e
imporre una subordinazione ancora più dispotica agli interessi dei
padroni e del loro Stato.
E’
evidente che, a dispetto delle differenze retoriche e di facciata fra
“progressisti” e “populisti”, in Italia tra governo Conte-bis
(Pd-Cinquestelle) e opposizione di destra, entrambi gli schieramenti
marciano a ranghi compatti per martellare nelle coscienze dei
proletari che non esiste possibilità alcuna di sopravvivenza se non
rilanciando l’unione sacra fra classe capitalistica e proletariato,
che la nazione
deve compattarsi, oggi, per difendersi dall’epidemia in corso, e
domani per reggere lo scontro economico, e in prospettiva militare,
con “i nostri nemici”. Anche la lotta fra questi due
schieramenti, entrambi integralmente reazionari, sarà decisa non
nel cortile di casa nostra,
ma in rapporto allo scontro più generale che va maturando nello
scenario mondiale e verificando quale delle differenti politiche di
asservimento del proletariato sia in grado di offrire più chances
di successo alla borghesia. Se il “sovranismo di sinistra” esce
sconfitto e ridicolizzato dagli attuali avvenimenti, ciò non
significa affatto che il sovranismo tout-court
- quello
iper-capitalistico
delle destre cosiddette “populiste” – abbia bruciato tutte le
sue carte. Su questo terreno, l’evoluzione della crisi e la
riaccensione della lotte degli sfruttati potrebbe anche imporre alle
classi dominanti misure straordinarie, capaci anche di colpire
qualche limitato privilegio delle classi possidenti con l’obiettivo
di consolidare la
stabilità complessiva del sistema capitalistico.
Le destre apertamente reazionarie, quelle che per esperienza storica
sanno miscelare demagogia popolare, critica alla rapacità della
finanza e richiami all’ordine, ma anche una sinistra
socialdemocratica un po' meno inginocchiata ai piedi delle grandi
banche di quella italiana di oggi, giocheranno proprio questa
partita.
E
quindi l’unica risposta possibile ai disastri di ogni tipo prodotti
dal sistema capitalistico, l'unica risposta possibile all’offensiva
che gli sfruttatori e le forze politiche al loro servizio stanno
preparando per scaricare sui lavoratori e sulle lavoratrici le
conseguenze di questi disastri, è che le classi lavoratrici scendano
in campo in massa, si difendano accanitamente dall'aggressione alle
loro condizioni di vita e di lavoro, e alla fine presentino loro il
conto storico
e definitivo
a questo sistema sociale in putrefazione.
Su
questo percorso di lotta e di uscita dall'attuale stato di nullità
politica, a cominciare dai compiti di lotta più immediati per salire
a quelli di prospettiva, abbiamo detto qualcosa nel documento sulla
crisi del coronavirus. Non ci ripetiamo. Quanto ai professionisti del
disfattismo anti-rivoluzionario a cui piace irridere la nostra
incrollabile certezza nella riscossa del proletariato, si becchino
per il momento la sberla della forte agitazione operaia scoppiata in
questi giorni in tante fabbriche contro l'imposizione padronale di
lavorare sempre e comunque a rischio della salute e della vita. Il
resto verrà, per loro e soprattutto per i loro soprastanti – e
verrà non con una dinamica di accumulazione delle forze lentissima e
“secolare”, ma con una progressione esponenziale simile a quella
con cui ci è piombata addosso questa nuova crisi.
La
sola cosa che qui ci preme ripetere, e che non ci stancheremo di
ripetere per la sua importanza decisiva, è che davanti ad una crisi
che si preannuncia ancora più globale di quella del 2008, la
sola forza su cui il proletariato italiano, autoctono e immigrato,
potrà contare è quella degli sfruttati e delle sfruttate di tutti
gli altri paesi del mondo.
Ed è una forza che, se organizzata e cosciente, se autonoma da
entrambi gli schieramenti capitalisti-imperialisti in formazione, è
in grado di travolgere qualunque ostacolo. Gettate un occhio sulle
grandi manifestazioni dell'8 marzo in Cile, in Messico, in Algeria,
fate mente locale sul ritorno in campo delle sollevazioni delle masse
arabe nel 2018-2019, sul seguito di forti lotte proletarie e popolari
in Francia, e ne avrete degli assaggi in tempi in cui le temperature
sociali non sono ancora bollenti...
13
Marzo Il
Cuneo rosso – Gcr – Pagine marxiste Tendenza
internazionalista rivoluzionaria Laboratorio
politico Iskra
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