questa la mattanza all'ospedale San Paolo
questa la rabbia dei compagni
questa la denuncia
questo il saluto
e dopo in corteo contro la guerra
la cronaca
Davide “Dax” Cesare,
giovane militante dell’O.R.So (Officina di Resistenza Sociale)
viene uscciso da un agguato fascista.
Nella
notte tra il 16 e 17 marzo 2003, verso le 23,00 in via Brioschi, a
Milano, zona Navigli, tre ragazzi escono da un pub, il “Tipota“,
uno dei tanti locali frequentati dai giovani che popolano la
quotidianità di questa fetta di metropoli; ad aspettarli fuori un
gruppetto di neofascisti, il padre e i due figli, armati di coltelli,
sono Federico, Mattia e Giorgio Morbi (28, 17 e 54
anni all’epoca del fatto), elementi già conosciuti dai compagni
del quartiere. L’aggressione si rivela violenta e veloce, ma
soprattutto premeditata, nel tipico stile mafioso con cui sono soliti
rispondere a quelle che ritengono “offese all’onore”: quelle di
chi da sempre lavora contro razzismo e ignoranza,
quelle di chi si oppone in prima persona al ritorno di ideologie che
su questi sentimenti pongono le loro basi.
Alla
fine Davide Cesare, “Dax”,
rimane a terra, riceve dieci coltellate: colpito
alla gola, alla schiena e in altri punti vitali, cade al suolo. Anche
una volta a terra, continuano ad infierire su di lui. Vicino a Dax,
c’è Alex, che viene accoltellato otto volte alla schiena. Anche
lui rimane a terra. Un terzo ragazzo, Fabio, è ferito. Tutto si
svolge in pochi secondi e dopo aver colpito vigliaccamente, i tre
aggressori si dileguano.
Partono
le chiamate e dopo poco arrivano anche polizia e
carabinieri, che bloccano le strette stradine di via Broschi con le
auto di pattuglia, (come testimoniato dai video reperibili facilmente
in rete) contribuendo così al ritardo delle ambulanze, bloccate nel
traffico, mentre i ragazzi feriti restano a terra. Segue la
corsa all’ospedale San Paolo. Sulla prima ambulanza viene
caricato Dax, dopo qualche minuto anche Alex viene trasportato al
Policlinico. Operato d’urgenza ai polmoni, si salva per miracolo,
Dax non ce la farà, morirà dissanguato prima di arrivare
in ospedale.
Nel
frattempo tra i compagni partono le telefonate per raggiungere i loro
amici in ospedale, già presidiato dalle forze dell’ordine in
tenuta antisommossa. Una ventina di ragazzi si raduna all’interno
del pronto soccorso aspettando notizie. Poi l’annuncio: Dax
non ce l’ha fatta. La rabbia, il dolore, l’amarezza per
quanto accaduto si fa palpabile. Nel frattempo si moltiplica, dentro
e fuori al pronto soccorso, la presenza delle forze dell’ordine. La
tensione è altissima.
Le
forze dell’ordine, che fino ad allora avevano presidiato
l’ospedale, fanno partire una violenta carica, il questore di
allora Vincenzo Boncoraglio cercherà di
giustificare il pestaggio affermando che la carica fu fatta “per
riportare la calma tra i giovani che sia pur in un momento di dolore
hanno occupato il pronto soccorso”. Come riportano le testimonianze
dei presenti “sono lunghi minuti di pura violenza poliziesca,
durante i quali gli agenti, con manganelli, calci, pugni e mazze da
baseball, si accaniscono sui ragazzi, spaccando teste, nasi, denti,
braccia. Pestaggi, ragazzi immobilizzati a terra, ammanettati,
sanguinanti“ trascinati nelle auto dei carabinieri.
I
medici e gli infermieri si mobilitano per soccorrere i feriti,
increduli e attoniti di fronte a questa ferocia. A farne le spese
oltre ai ragazzi anche i cittadini che si trovavano al momento
all’interno dell’edificio. Il professor Marco De Monti,
chirurgo vascolare, era di guardia al Pronto Soccorso. Con lui,
l’infermiere professionale Alfredo Cavasin: «Io
ero qui dentro, impegnato nel disperato tentativo di vedere se ci
fosse ancora qualcosa da fare per quel giovane, che l’équipe
dell’auto medica aveva intubato sul luogo del ferimento. Ma
purtroppo era già morto quando è arrivato. Presentava una profonda
ferita sulla destra del collo, appena sotto la nuca, un altro colpo
di arma da taglio al torace, e numerose coltellate alla schiena.
Non ho visto cosa succedeva fuori. Posso soltanto dire che ho sentito
urla e rumori che provenivano dal viale d’accesso al Pronto
Soccorso, poi altre urla più vicine, e i rumori di un grosso
tafferuglio». Dopo aver tentato inutilmente di rianimare Davide
Cesare, hanno curato il ferito portato in ambulanza («Una coltellata
a livello del rene destro, ma l’ecografia ci ha dimostrato che era
superficiale, e abbiamo potuto dimetterlo»). Poi è iniziato
l’incredibile. Raccontano: «Invocando aiuto, hanno cominciato ad
entrare dall’atrio persone insanguinate. Era sangue fresco, botte
appena prese. Abbiamo medicato sette giovani, e un vigilante dell’
ospedale. C’erano due giovani con il naso rotto. Uno è stato
ricoverato, per essere operato in chirurgia maxillo-facciale».
Gli
abitanti delle vicine case di via San Vigilio sono abituati
alle sirene delle ambulanze e delle forze dell’ordine. «Ma questa
volta erano tante, troppe. Ci siamo affacciati e abbiamo contato non
meno di una trentina di automezzi, tra polizia e carabinieri. C’era
un fuggi-fuggi, con una settantina di persone che scappavano e agenti
che le inseguivano». L’obiettivo è chiaro: reprimere
preventivamente le possibili risposte collettive all’omicidio
fascista. «È stata una mattanza», racconta qualcuno. Perché i
giovani sarebbero stati manganellati con i calci dei fucili, gettati
in terra, malmenati. La verità avrebbero potuto dirla le telecamere
a circuito chiuso, ma non erano in funzione. E c’erano gli altri
pazienti (tra cui una ragazzina), spaventatissimi. Con grande
professionalità, medici e infermieri li hanno rassicurati,
spostandoli nell’area pediatrica. Al 118 è stato segnalato che il
Pronto Soccorso veniva chiuso per tutta la notte. Ma molte altre sono
le testimonianze, come il comunicato dell’USI SANITA del 17 marzo
2003 sui tragici fatti della notte del 16 marzo e sui pestaggi
effettuati dalle forze dell’ordine all’interno del pronto
soccorso dell’ospedale San Paolo.
I
giorni successivi si mette in moto la macchina della disinformazione.
Questura e giornalisti tentano di ridurre i fatti a una banale ‘rissa
tra balordi’,
nascondendo la matrice politica dell’accaduto. Per legittimare le
brutalità poliziesche avvenute dentro al pronto soccorso,
sempre il questore Boncoraglio dichiara che gli
agenti erano stati costretti a intervenire per impedire “che i
giovani portassero via la salma dell’amico”. Fin da subito è
stato necessario per i compagni di Dax difendere e
riaffermare la verità di fronte a un’infamante opera di
disinformazione: lui un balordo e i suoi compagni dei pazzi
trafugatori di salme.
Oltre
al danno, la beffa. Nonostante la presenza di prove evidenti, come
filmati amatoriali che hanno ripreso i pestaggi indiscriminati e
le tante testimonianze rilasciate dal personale medico
sanitario, il processo per i fatti del San Paolo si
concluderà nel 2009, imputati un carabiniere e due
poliziotti accusati di porto d’arma impropria (una
mazza da baseball tra le altre cose) e abuso d’ufficio,
piena assoluzione, invece condanne a un anno e otto mesi per due dei
compagni di Dax, accusati di violenza e resistenza a pubblico
ufficiale. Alla condanna penale si sommerà una multa per un
totale di 130.000 euro, tra spese processuali e
risarcimenti, un vero e proprio ergastolo pecuniario. Nel 2011
comincerà il pignoramento di un quinto dello stipendio, tutt’ora
in corso, ai danni di uno dei condannati e di conseguenza a carico
anche dei suoi figli.
Per
quanto riguarda gli assassini di Dax, nella loro casa, che
si trova nella zona della tragedia, «è stato sequestrato materiale
importante», come spiegò la polizia, per risalire alle loro
simpatie di estrema destra, oltre a indumenti sporchi di sangue
gettati nella vasca da bagno.
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