Dopo la rivolta i familiari vivono in una black out totale. Al comitato arrivano testimonianze di parenti i cui figli e mariti hanno chiamato lamentandosi di avere ancora addosso la roba di una settimana fa. «Il carcere di Foggia non vuole darci nulla e noi familiari non possiamo spedirli», denuncia la portavoce del comitato. Alla richiesta di avere indietro la roba, secondo quanto testimoniano i familiari, è che avrebbe provveduto il carcere a spedirla.
«Ma è passata una settimana, i nostri cari sono stati trasferiti lontano e non hanno ancora indumenti», denuncia il comitato dei familiari dei detenuti di Foggia. «Di alcuni di loro non si hanno ancora notizie, non ci danno notizie, qualcuno ha preparato e spedito pacchi con la roba ma a quanto pare per l’emergenza coronavirus il pacco è fermo e non può essere consegnato», testimoniano ancora i familiari.
Sono preoccupati, non hanno notizie. «Noi non possiamo stare zitti – tuonano i componenti del comitato -, vogliamo dei chiarimenti. Non giustifichiamo l’accaduto, hanno sbagliato ma hanno reagito per paura perché quel carcere è da anni che versa in condizioni critiche». Denunciano che la polizia penitenziaria di Foggia, il giorno della rivolta, non indossava mascherine perché il carcere non le avrebbe fornite. Poi il comitato sottolinea un evento che potrebbe far capire il motivo scatenante della rivolta. «Molti nostri compagni lamentavano di detenuti con febbre. È normale aver paura – spiegano i familiari -, noi vogliamo chiarimenti».
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