Dal compagno-lavoratore dello Slai cobas sc dell'Istituto Tumori
Stanno
facendo sparire qualsiasi forma di informazione e controinformazione:
(anche le direttive da TU sull’uso corretto dei presidi,
mascherine, occhiali, visiere, tute, calzari per covid-19, ma anche
quelli come mascherine chirurgiche, soluzioni alcoliche per pulizia
delle mani sia per i lavoratori, che per pazienti, parenti. Mentre
campeggiano poster enormi con le regole da seguire e cosa utilizzare,
per cercare da un lato di colpevolizzare lavoratori, pazienti,
parenti, che non li usano e dall’altro lato cercare di nascondere
che questi ausili non arrivano.
Le
uniche comunicazioni sono un misto di comunicazione centralizzata
dalla direzione che viaggia solo via mail, a cui segue un tam tam di
comunicazioni non ufficiali veicolati dai coordinatori di reparto,
che dicono e non dicono, di direttive assunte e messe in opera dalla
direzione esempi: finalmente si sa che il nostro ospedale dovrà
farsi carico dei malati oncologici che gli altri ospedali covid-19
non possono curare; che verranno fatte saltare le ferie e che si può
essere chiamati da casa per coprire i turni scoperti. Il tutto col
fatto che ancora non sono state esposte queste direttive e che il
sistema telematico è obsoleto e che da tempo va in tilt.
Come
reagiscono i lavoratori? I lavoratori sono: impauriti perché
consapevoli che non sono tutelati; sono arrabbiati perché non
vengono informati chiaramente; sono in lotta tra loro per
comportamenti sbagliati che mettono in pericolo la tutela solidale e
collettiva; sono fatalisti per riminiscenze ataviche, non si sentono
eroi ma accettano che l’imprevisto possa succedere; alcuni si
considerano gratificati, principalmente medici e infermieri, di
sentirsi dare dell’”eroe”; ed è l’arma utilizzata dalla
direzione, e quindi delle politiche del governo e regioni, per far
accettare di essere agnelli sacrificali-sacrificabili. Sono alla
ricerca di trovare forme e organizzazione alternative, sempre più
consapevoli che i tempi che ci dicono sono falsi e che la storia è
più lunga senza l’ombra della luce in fondo al tunnel.
Dai medici milanesi che lanciano l'allarme: "Una marea di casi sommersi,
il numero vero di contagi non lo sappiamo".
Esistono
pazienti affetti da Covid-19 “sconosciuti”? Secondo due medici di
base, con studio in zona San Siro e Lambrate, intervistati dal
Corriere
della Sera, sì. E quanti saranno? Risposta del primo medico di
base: “Una marea. Stanno male nelle loro case. Con le loro
famiglie, che stanno infettando. Il numero vero non lo sapremo mai”.
Un secondo medico aggiunge: “Se i pazienti non arrivano a una
crisi respiratoria grave, non entrano ospedale. E così non saranno mai registrati. Ma hanno il coronavirus, questo è certo”.
crisi respiratoria grave, non entrano ospedale. E così non saranno mai registrati. Ma hanno il coronavirus, questo è certo”.
Entrambi
sostengono: “Sono certezze che vengono dall’esperienza. Là
fuori, in città, esiste un numero enorme di malati di coronavirus
che se la “sfangheranno” da soli. Noi li sentiamo al telefono,
sono tanti”.
Eccoli,
i “malati sommersi” di Milano. Non si tratta di pazienti
“asintomatici”: i sintomi ci sono, ma il servizio sanitario è
saturo, quindi, secondo le linee guida diffuse ai medici di famiglia,
con una decisione dettata dalla necessità, si sta scegliendo di
tenere il più possibile i malati a casa.
I
«sommersi» esistono perché il servizio sanitario, già stremato,
non potrebbe occuparsene. Spiega una dottoressa: “Le indicazioni
dell’Ats sono chiare. Se avete pazienti con sintomi da Covid-19,
trattateli come tali, considerateli “positivi”, monitorateli,
stiano isolati come da legge. Ma segnalateli solo se hanno avuto con
certezza contatti con un contagiato. Ma molte persone non lo sanno
neppure se hanno avuto un contatto “a rischio”, e dunque stanno
passando giorni e giorni in casa con la febbre a 39, con il terrore
di peggiorare. Questo sento nella loro voce, quando li chiamo ogni
mattina, il terrore”.
I
malati entrano in ospedale soltanto quando sono in condizioni gravi,
“in alcuni casi vicini al punto di non ritorno — riflette un
altro medico di zona Ripamonti —. A quel punto il sistema si attiva
col massimo sforzo, ma ormai può essere troppo tardi”. Un’altra
dottoressa intervistata dal Corriere della Sera, con studio in
centro, ha avuto anche la controprova che molti malati “sommersi”
siano casi di coronavirus che il sistema non intercetterà mai.
“Ho
una dozzina di pazienti con sintomi identici, febbre alta e tosse.
Cinque di loro prima del decreto di chiusura sono andati in Engadina
e lì sono rimasti. Hanno chiesto di fare il tampone, in Svizzera
pagando è possibile. Per tutti e cinque, l’esito è stato quel che
per me era già scontato: “positivi””.
I
casi che emergono, dunque, sono solo la punta dell’iceberg. La
pensa così anche Irven Mussi, altro medico di base, con studio in
via Palmanova.
“Il
tampone ora si fa praticamente solo a chi va in ospedale perché già
grave. Ma noi medici di base sentiamo tanti pazienti con sintomi più
sfumati, che potrebbero essere malati di Covid-19. I numeri dei
malati quindi non sono reali. Senza contare i portatori sani. Già a
gennaio avevamo notato uno strano aumento di polmoniti interstiziali,
anche a Milano. Noi medici stiamo ancora aspettando una nuova
fornitura mascherine e guanti. Mi ha appena chiamato un collega, che
ha la polmonite e dovrà stare a casa”.
Anche
il professor Massimo Galli, responsabile Malattie infettive del
Sacco, si è espresso a proposito del problema dei sommersi.
“Difficile
dire quanti sono i positivi al virus non conteggiati. Se si tiene
come riferimento il numero di morti in Lombardia e lo si confronta
con quello di altri posti dove sono stati fatti tamponi a tappeto, ci
immaginiamo che ci siano tante persone con infezione che non abbiamo
registrato e che stanno contribuendo a diffondere il virus. Magari
sono già stati malati e guariti. Il punto sarebbe poter ricostruire
i contatti degli infetti almeno nelle zone ancora non sconvolte
dall’epidemia, per cercare di circoscrivere il contagio. Penso alle
altre Regioni, ma anche a Milano, per poter vincere la battaglia in
città. Aprire più laboratori e fare più tamponi? Per Milano è un
problema che va preso in considerazione”.
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