«Addì
8 settembre 1887, si strinsero nella lega battellieri i mille
lavoratori del mare insorti primi in Sardegna contro iniquo
sfruttamento. Il popolo li seguì, affrontando miseria carceri, sacrifizi
immensi, vittoriosamente». Questa lapide venne posta a Carloforte, in
Sardegna (ce lo ricorda Vincenzo Bavaro sulla Rivista Giuridica del Lavoro)
l’8 settembre del 1907 dall’associazione generale degli operai a
ricordo della nascita delle prime associazioni in difesa dei diritti dei
lavoratori. Tutto nacque lì. Fu la lega dei minatori di Buggeru, nel
comune di Carloforte a indire lo sciopero del 4 settembre 1904 per
protestare contro le schiavistiche condizioni dell’orario di lavoro. I
carabinieri spararono sugli operai uccidendone tre. L’eccidio di
Buggerru provocò la proclamazione del primo sciopero generale europeo da
parte della Camera del lavoro di Milano. Era il 15 settembre 1904. Per
la prima volta in Europa tutti i lavoratori si fermavano
contemporaneamente, non uno sciopero di un settore o di una
corporazione, ma un moto collettivo in cui tutti difendevano
solidalmente i diritti di tutti.
L’essenza dello sciopero generale, la
storia del movimento operaio che ne conseguì, erano già tutte
previste in quella lapide, in quell’insurrezione contro «l’iniquo sfruttamento», nel resto del «popolo che li seguì» e nella violenta reazione padronale che portò «miseria, carceri e sacrifizi immensi». Non ci sono parole più attuali e commuoventi per spiegare cos’è uno sciopero generale. Oggi come allora, in uno sciopero generale il popolo si unisce al fianco di un gruppo più ristretto di lavoratori proclamando che lo sfruttamento di alcuni è un problema di tutti, che la compressione dei diritti non va mai a denominatore perché non si fraziona, rimane un problema collettivo, una lotta di popolo. Il modo migliore per assolvere agli «inderogabili doveri di solidarietà politica economica e sociale» imposti dalla Costituzione Repubblicana.
previste in quella lapide, in quell’insurrezione contro «l’iniquo sfruttamento», nel resto del «popolo che li seguì» e nella violenta reazione padronale che portò «miseria, carceri e sacrifizi immensi». Non ci sono parole più attuali e commuoventi per spiegare cos’è uno sciopero generale. Oggi come allora, in uno sciopero generale il popolo si unisce al fianco di un gruppo più ristretto di lavoratori proclamando che lo sfruttamento di alcuni è un problema di tutti, che la compressione dei diritti non va mai a denominatore perché non si fraziona, rimane un problema collettivo, una lotta di popolo. Il modo migliore per assolvere agli «inderogabili doveri di solidarietà politica economica e sociale» imposti dalla Costituzione Repubblicana.
Perché ricordare oggi Buggeru e il primo
sciopero generale? L’epidemia si espande soprattutto nelle fabbriche e
si ferma adottando anzitutto misure di prevenzione e sicurezza,
dispositivi di protezione, distanze minime. È accaduto che in molti,
troppi luoghi di lavoro si è continuato a lavorare senza nessuna
protezione, senza l’adozione delle più elementari misure di prevenzione,
in totale spregio a ogni regola. Soprattutto nella logistica. Capannoni
con quattromila dipendenti, fianco a fianco, senza mascherine, senza
guanti, in un frazionamento della catena dei subappalti in cui nessuno
sa più per chi lavora e cosa trasporta. E poi i dispositivi costano e
rallentano la produzione. Nei giorni in cui si rischiava il linciaggio
per una passeggiata solitaria sotto casa, l’ipocrisia nazionale si
voltava dall’altra parte di fronte a queste vere e proprie fucine del
contagio.
L’inutilità delle denunce e degli
ultimatum ha costretto a uno sciopero generale. Lo ha indetto USB per il
25 marzo, ma con la responsabilità che si conviene in questi tempi di
emergenza per cui nei servizi essenziali, di assistenza e cura della
persona, nella sanità, trasporti, igiene pubblica, lo sciopero è stato
simbolico, di un solo minuto. Un riflettore puntato sul sonno civile di
un popolo chiuso dentro la propria paura. Ora la Commissione di garanzia
ritiene che quello sciopero abbia messo a repentaglio la sicurezza
nazionale. In un durissimo attacco a chi ha indetto lo sciopero e a chi
vi ha partecipato, avviando la procedura che prevede sanzioni anche
molto pesanti, la Commissione scrive che quello sciopero ha «contribuito
a generare un diffuso senso di insicurezza e a produrre incalcolabili
danni alla collettività, determinando un non accettabile danno alle
istituzioni e/o aziende coinvolte nelle attività di prevenzione e
diffusione della pandemia» rischiando di «vanificare la azioni di
contenimento della stessa».
La sproporzione tra uno sciopero di un
minuto e la catastrofe che si sostiene ne sia derivata rende evidente
che la posta in gioco è ben altra. Siamo ancora una volta alla storia
riscritta da chi ha vinto. Non sono le imprese che fanno a pezzi le
norme governative, che si fanno beffa dei sistemi di protezione, che
chiedono in decine di migliaia ai prefetti le deroghe sullo stop alla
produzione certificando l’essenzialità della propria attività anche
quando è il bricolage, non è chi deride la vita umana privilegiando il
profitto a mettere a repentaglio la salute della collettività, a recare
danno alle istituzioni sanitarie e democratiche, a vanificare il
sacrificio di milioni di italiani, ma chi indice uno sciopero di un
minuto per denunciare quelle vergognose e impunite violazioni.
L’emergenza dunque porta il suo attacco a
uno dei diritti fondamentali dei lavoratori. La retorica bellica impone
di stringersi intorno a chi comanda, quindi anche intorno al padrone, e
poco importa se questi acconsente a pratiche di morte: ogni guerra ha i
suoi caduti e le patrie fonderie in tempi di guerra hanno bisogno anche
dei gioielli di famiglia.
Occorre dunque prendere la parola.
Ristabilire la verità, ridefinire le cause e gli effetti, ricordare che
sul fronte dei diritti sociali è stata operata una sistematica
macelleria liberista che ha proliferato nella retorica dell’etichettare
come “ottocentesco” e come anacronistico ogni diritto, ivi compreso
quello di sciopero, un intoppo al magnifico progresso. Se è vero quanto
scritto su questo sito (Pepino: https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2020/03/23/saremo-domani-quel-che-siamo-oggi-riflessioni-per-il-dopo-coronavirus/, Montanari: https://volerelaluna.it/commenti/2020/04/08/coronavirus-ci-stiamo-giocando-la-democrazia/),
che «saremo dopo quello che siamo ora», è ora che dobbiamo opporci alla
compressione dei diritti del lavoro, avere il coraggio di rompere il
coro del “rimanere uniti” che rischia di trasformarsi in un “rimanere
sotto”, dicendo che lo stato di emergenza e quello che ne seguirà
impongono che ci siano più tutele e diritti e non un’ulteriore
deregolamentazione.
C’è un’ultima parola in quella lapide.
Nel commentarla viene spesso dimenticata come se fosse meno importante,
sta dopo «i sacrifizi immensi», rileggetela con la punteggiatura: è «,
vittoriosamente». Centosedici anni dopo: virgola vittoriosamente.
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