martedì 14 aprile 2020

pc 14 aprile - "Detenuti picchiati in carcere da 300 agenti a volto coperto". Rompere il silenzio sui massacri al carcere di Santa Maria Capua Vetere, arrestare e processare i responsabili! A cura del SRP


Alla Procura di Santa Maria Capua Vetere è arrivata ben più di una segnalazione. Oltre alla relazione del garante regionale per i detenuti Samuele Ciambriello (che chiede verifiche sui racconti dei pestaggi) e la segnalazione di Antigone, ci sono le denunce di sorelle, madri, mogli dei prigionieri che sono riuscite a mettersi in contatto con i propri familiari, facendo emergere dal silenzio quella che è stata, e per alcuni sembra che continui, una vera e propria mattanza in risposta ad una protesta pacifica - la battitura - e pienamente legittima, date anche le condizioni igieniche e sanitarie di quel carcere, con un sovraffollamento del 18%, senza acqua potabile e senza dotazioni di sicurezza anti contagio (ad oggi sono 4 i positivi, 2 ricoverati al Cotugno e 2 in isolamento).

Che la protesta dei detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere fosse pacifica lo conferma lo stesso sindacato di polizia penitenziaria. Ciò che nega, e che la direttrice del carcere ha dovuto ammettere di fronte alle proteste delle familiari dei reclusi, è la risposta delle guardie, feroce e spietata. “Ci picchiano a turno: una volta a uno, una volta un altro … Vengono e dicono che tanto dobbiamo morire tutti prima o poi…” è la drammatica testimonianza di chi sta dentro. Quasi 300 agenti coinvolti, 150 del
reparto G.O.M. in supporto agli agenti di servizio nella struttura. Barbe e capelli tagliati, denti che saltano, contusi e feriti, video-chiamate e colloqui con i parenti sospesi per nascondere e tacere i pestaggi.

Di seguito stralci dell'articolo su Il Dubbio:

La prima denuncia presentata alla stazione dei carabinieri è stata fatta proprio dalla donna che non ha potuto più sentire telefonicamente suo marito. Alla querela ha allegato tre file audio WhatsApp dove diversi familiari denunciano le violenze subite dai detenuti ad opera del personale penitenziario del carcere. Quasi trecento poliziotti a volto coperto e in tenuta antisommossa avrebbero fatto irruzione nel padiglione Nilo, sarebbero entrati nelle celle e avrebbero cominciato i pestaggi. Avrebbero picchiato chiunque, anche chi non ha preso parte alle agitazioni del fine settimana. Tra di loro anche un detenuto che dopo pochi giorni ha finito di scontare la pena.
A raccogliere subito la sua testimonianza è Pietro Ioia, il garante delle persone private della libertà del comune di Napoli. Per corroborare la sua testimonianza ha reso pubbliche le sue foto che mostrano ecchimosi su tutto il corpo, addirittura alla sua schiena sembra che ci sia il segno di uno scarpone. L’uomo ha prima fatto denuncia alla stazione dei carabinieri, ma tramite l’avvocato oggi presenterà un esposto direttamente in Procura. L’ex detenuto che è uscito dal carcere venerdì scorso, raggiunto da Il Dubbio, ammette che hanno inscenato delle proteste per i contagi da coronavirus, ma poi sembrava che tutto fosse stato chiarito. Infatti dopo le proteste è giunto il magistrato di sorveglianza che ha parlato con tutti loro. Hanno potuto raccontare i fatti, smentendo le ricostruzioni trapelate da alcuni sindacati di polizia che parlavano di una violenta rivolta. Ma sarebbe stata la quiete dopo la tempesta.
«Nel pomeriggio circa 300 agenti in tenuta antisommossa hanno fatto irruzione nelle celle – racconta a Il Dubbio l’ex detenuto -, costringendoci ad uscire, dopo di che ci hanno denudati e colpiti a calci e manganellate». Ma non solo. «Per dimostrare la loro superiorità e durezza – racconta sempre l’ex detenuto – dopo le mazzate hanno preso i nostri rasoi dagli armadietti e ci hanno rasato la barba». L’uomo ha anche confermato che dopo i presunti pestaggi, erano state proibite di fare le videochiamate. Come se non bastasse – prosegue sempre l’ex detenuto – «gli agenti facevano la conta obbligandoci tutti a stare in piedi davanti alle brande e con le mani all’indietro, come se fossimo in una caserma».

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