all'inizio le misure attuate sono state di fatto la chiusura
dei confini a cominciare dalle persone provenienti dalla Cina e poi
estese ad altri, e i controlli alle persone che tornavano dall’estero,
con un bassissimo numero di test effettuati sulla popolazione, 15 mila a
venerdì.
Come ha riportato in una inchiesta del 24 febbraio sempre il
“FT”: «il contagio del coronavirus ha messo a nudo la dipendenza
dall’India dalla Cina rispetto a qualsiasi cosa dall’importazione dei
prodotti elettronici alle macchine utensili e ai componenti chimici
organici», in particolare l’industria farmaceutica indiana si è scoperta
vulnerabile per la carenza di componenti provenienti in particolare da
Hubei e da Henan.
Circa il 70% di alcuni componenti fondamentali per produrre farmaci provengono dalla Cina, cifra che sale al 100% rispetto agli antibiotici e agli antipiretici. Questo ha fatto alzare i prezzi e ridotto alquanto le scorte delle industrie farmaceutiche, in particolare le più piccole.
Un grosso deficit quindi, che mina la “supposta” autonomia dello sviluppo del gigante asiatico in questo settore strategico in questa fase.
La gestione della pandemia è un test maggiore per l’attuale governo già bersaglio di numerose proteste per la sua politica discriminatoria nei confronti dei cittadini mussulmani, l’occupazione del Kashmir della scorsa estate, e al centro delle recriminazioni di un forte movimento operaio organizzato e di una agguerrita compagine di organizzazioni comuniste, (i primis i maoisti che sviluppano la guerra popolare in diverse regioni del paese - nota aggiunta di proletari comunisti)
Il sistema sanitario indiano ha delle carenze strutturali che lo collocano ai livelli più bassi dei Paesi Emergenti che potrebbe non reggere allo stress test pandemico.
L’India ha un sistema sanitario stratificato con le classi abbienti che posso rivolgersi a dei centri d’eccellenza privati della “white economy” come Apolio Hospitals, Max India o Fortis Healthcare.
Ha un sistema pubblico-privato con una scarsa qualità del primo (solo il 3% dei 18.000 ospedali pubblici è d’eccellenza ed è certificato) ed un secondo che ha speculato sulla salute degli indiani e che viste le mancanze strutturali del pubblico ha fatto sì che «nelle zone dell’India rurale, a volte gli ospedali privati di dimensioni ridotte siano i primi centri di cura», riporta Priyanka Vora in un inchiesta del “FT” sulla sanità del novembre scorso.
L’India ha un medico del settore pubblico su 10,189 abitanti, ed una mancanza stimata di personale di 18,8 milioni di unità nelle sue strutture sanitarie pubbliche, con una mancanza cronica di specializzazioni in particolare di cardiologi, oncologi e chirurghi.
Il 70% delle cure è a spese dei cittadini indiani, con 63 milioni di persone spinte ogni anno verso la povertà a causa delle spese mediche.
Nonostante questo la spesa pro-capite è una delle più basse al mondo, e le persone spesso non finiscono i trattamenti che sarebbero necessari perché terminano le risorse economiche.
Alla base vi è una mancanza diagnostica nei confronti della maggioranza della popolazione e di cura delle malattie minori, che ha conseguenze nefaste sullo stato di salute dei cittadini e si ripercuote sull’aspettativa di vita che è tra le più basse tra i Paesi emergenti.
Prima della nuova riforma sanitaria attuata da Modi, nel 2008 era stato attuato un sistema di copertura assicurativo – l’acronimo è RSBY – che è riuscito a coprire 36 milioni di persone, ma che per la disinformazione promossa dagli operatori privati e la “complicità” del governo non ha reso edotta la popolazione delle cure e delle cliniche di cui poteva godere grazie alla copertura, facendo si che i cittadini si sono ritrovati a dovere poi pagare di tasca propria i trattamenti ricevuti.
Il “Medicare” varato a fine 2018 da Modi – “Ayushman Bharat” – è un sistema di assistenza privata completamente finanziata dallo Stato che provvede alla copertura di cure mediche per circa 7.000 dollari a più di 100 milioni di famiglie povere, circa mezzo miliardo di persone, con l’estensione a tutta la popolazione prevista del 2030.
Una riforma che ha ricevuto una certa attenzione dai big della sanità privata a livello mondiale.
Nel corso degli anni le malattie contagiose hanno drasticamente diminuito il loro impatto come causa della morte degli indiani, era il 60,9% nel 1990 e più di un quarto di secolo dopo nel 2016 era il 32,7%, mentre il tasso di morte per le non contagiose è passato dal 30% al 55,4%.
Per il modello di sviluppo indiano, minato da queste criticità e per il Primo Ministro, la prova pandemica sarà una sfida “epocale” che muterà il destino del gigante asiatico.
Circa il 70% di alcuni componenti fondamentali per produrre farmaci provengono dalla Cina, cifra che sale al 100% rispetto agli antibiotici e agli antipiretici. Questo ha fatto alzare i prezzi e ridotto alquanto le scorte delle industrie farmaceutiche, in particolare le più piccole.
Un grosso deficit quindi, che mina la “supposta” autonomia dello sviluppo del gigante asiatico in questo settore strategico in questa fase.
La gestione della pandemia è un test maggiore per l’attuale governo già bersaglio di numerose proteste per la sua politica discriminatoria nei confronti dei cittadini mussulmani, l’occupazione del Kashmir della scorsa estate, e al centro delle recriminazioni di un forte movimento operaio organizzato e di una agguerrita compagine di organizzazioni comuniste, (i primis i maoisti che sviluppano la guerra popolare in diverse regioni del paese - nota aggiunta di proletari comunisti)
Il sistema sanitario indiano ha delle carenze strutturali che lo collocano ai livelli più bassi dei Paesi Emergenti che potrebbe non reggere allo stress test pandemico.
L’India ha un sistema sanitario stratificato con le classi abbienti che posso rivolgersi a dei centri d’eccellenza privati della “white economy” come Apolio Hospitals, Max India o Fortis Healthcare.
Ha un sistema pubblico-privato con una scarsa qualità del primo (solo il 3% dei 18.000 ospedali pubblici è d’eccellenza ed è certificato) ed un secondo che ha speculato sulla salute degli indiani e che viste le mancanze strutturali del pubblico ha fatto sì che «nelle zone dell’India rurale, a volte gli ospedali privati di dimensioni ridotte siano i primi centri di cura», riporta Priyanka Vora in un inchiesta del “FT” sulla sanità del novembre scorso.
L’India ha un medico del settore pubblico su 10,189 abitanti, ed una mancanza stimata di personale di 18,8 milioni di unità nelle sue strutture sanitarie pubbliche, con una mancanza cronica di specializzazioni in particolare di cardiologi, oncologi e chirurghi.
Il 70% delle cure è a spese dei cittadini indiani, con 63 milioni di persone spinte ogni anno verso la povertà a causa delle spese mediche.
Nonostante questo la spesa pro-capite è una delle più basse al mondo, e le persone spesso non finiscono i trattamenti che sarebbero necessari perché terminano le risorse economiche.
Alla base vi è una mancanza diagnostica nei confronti della maggioranza della popolazione e di cura delle malattie minori, che ha conseguenze nefaste sullo stato di salute dei cittadini e si ripercuote sull’aspettativa di vita che è tra le più basse tra i Paesi emergenti.
Prima della nuova riforma sanitaria attuata da Modi, nel 2008 era stato attuato un sistema di copertura assicurativo – l’acronimo è RSBY – che è riuscito a coprire 36 milioni di persone, ma che per la disinformazione promossa dagli operatori privati e la “complicità” del governo non ha reso edotta la popolazione delle cure e delle cliniche di cui poteva godere grazie alla copertura, facendo si che i cittadini si sono ritrovati a dovere poi pagare di tasca propria i trattamenti ricevuti.
Il “Medicare” varato a fine 2018 da Modi – “Ayushman Bharat” – è un sistema di assistenza privata completamente finanziata dallo Stato che provvede alla copertura di cure mediche per circa 7.000 dollari a più di 100 milioni di famiglie povere, circa mezzo miliardo di persone, con l’estensione a tutta la popolazione prevista del 2030.
Una riforma che ha ricevuto una certa attenzione dai big della sanità privata a livello mondiale.
Nel corso degli anni le malattie contagiose hanno drasticamente diminuito il loro impatto come causa della morte degli indiani, era il 60,9% nel 1990 e più di un quarto di secolo dopo nel 2016 era il 32,7%, mentre il tasso di morte per le non contagiose è passato dal 30% al 55,4%.
Per il modello di sviluppo indiano, minato da queste criticità e per il Primo Ministro, la prova pandemica sarà una sfida “epocale” che muterà il destino del gigante asiatico.
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