Alessandro Bonetti per “il Fatto Quotidiano”
Anche nella nuova stretta alla quarantena varata ieri, il governo ha deciso di non intervenire ulteriormente sulle fabbriche, anche contro l’ avviso di molte Regioni, Lombardia in testa, che chiedevano la serrata di tutte le aziende non essenziali. Il protocollo siglato il 14 marzo da governo, Confindustria e sindacati si limita a prevedere misure di sicurezza che le imprese devono adottare per tutelare la salute dei lavoratori.
In questi giorni, però, mentre la curva dei contagi non accenna ad appiattirsi, da più parti si chiede di adottare il modello cinese: chiudere tutto e farlo subito. Forse un motivo è nelle cartine pubblicate in questa pagina: se si confronta la concentrazione dei contagi con quella delle industrie italiane di media dimensione si nota una certa correlazione. I contagi sono più diffusi proprio nelle aree della Penisola dove ci sono più stabilimenti produttivi. Certo, correlazione non significa rapporto di causa-effetto. Ma qualche dubbio sorge.
L’ epidemiologo dell’ Istituto Superiore di Sanità, Giovanni Rezza sostiene che “se il virus si diffonde dal Nord è chiaro che si riscontra una correlazione spuria fra diffusione delle fabbriche e
della malattia. Il Nord è l’ area più esposta alla globalizzazione e quindi è logico che il virus si sia diffuso maggiormente lì”.
Tra i fattori che rendono più facile il contagio nelle zone più industrializzate ci sono infatti la maggiore internazionalizzazione e i più intensi collegamenti con le altre aree del Paese. Collegamenti lungo i quali il virus ha viaggiato.
La pensa così anche il dottor Pier Luigi Lopalco , epidemiologo all’ università di Pisa, secondo il quale sono proprio i legami fra le imprese del Nord e la Cina ad aver favorito la diffusione dell’ epidemia in quelle zone industrializzate. Per Rezza, però, non si può chiudere tutto: “Non si può fare una serrata, ma si deve lavorare in condizioni di estrema sicurezza per minimizzare il rischio. Sicurezza sia per raggiungere il posto di lavoro sia nel posto di lavoro stesso”.
Fabbriche e cantieri possono essere infatti un micidiale centro di propagazione della malattia, come ogni luogo di aggregazione. Per non parlare dei trasporti pubblici usati da molti pendolari. Secondo Lopalco, invece, “la serrata in Cina ha funzionato e senza quel livello di chiusura l’ epidemia durerà di più in Italia. Più chiudi, più breve sarà la circolazione”. Ma il legame fra densità delle fabbriche e diffusione del coronavirus resta di per sé solo “un’ ipotesi”.
Un’ ipotesi che, seppur tutta da indagare, ha già convinto più di qualcuno. Se consideriamo la Lombardia, sono le province più industrializzate quelle in cui il coronavirus si è diffuso maggiormente. A Bergamo ancora a fine febbraio la Confindustria locale diffondeva un video con l’ hashtag “Bergamoisrunning”, per rassicurare i “partner internazionali”: proprio per pressioni di questo tipo non fu chiusa la zona di Alzano Lombardo e Nembro, epicentro del virus nella Bergamasca.
Emilio Del Bono, sindaco di Brescia, altra città molto colpita dal coronavirus, se l’è presa con “i padroni delle industrie”, dicendo che il loro peso si è fatto sentire sulla decisione di non chiudere le fabbriche. Un peso che ha schiacciato le deboli pressioni dei sindacati. Solo giovedì Cgil, Cisl e Uil lombarde hanno chiesto “la sospensione di tutte le attività non essenziali e indispensabili alla sopravvivenza”. Basti pensare che, secondo stime della Camera del lavoro milanese, i lavoratori occupati in settori non essenziali che devono ancora andare al lavoro sono circa 300mila nella sola area di Milano: centinaia di migliaia di persone che ogni giorno si muovono e attraversano la città, affollando metro, bus e treni.
C’ è anche un altro dato che mostra la correlazione fra concentrazione industriale e diffusione del coronavirus. Le cinque regioni con maggior numero di contagi (Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Piemonte e Marche) sono anche le prime cinque regioni per numero relativo di lavoratori impiegati nell’industria: in tutte queste regioni infatti i lavoratori dell’ industria sono almeno 13 ogni mille abitanti, contro una media nazionale di 10.
Tornando alle mappe (quella dei contagi e quella delle industrie) si nota che sono quasi perfettamente sovrapponibili, anche se una differenza va almeno sottolineata: la Toscana ha molti insediamenti industriali, specialmente nella zona appenninica, ma un’incidenza dei casi sulla popolazione più bassa rispetto alle regioni più colpite. Insomma, il rapporto fra luoghi di lavoro e diffusione del contagio andrà indagato più approfonditamente in futuro, come molti aspetti di questa pandemia.
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