Tutti assolti perché “il fatto non sussiste” i poliziotti e
dirigenti della questura accusati di sequestro di persona e omicidio
colposo per la morte di Alina Bonar Diachuk, morta suicida a 32 anni il
16 aprile 2012 nel commissariato di Opicina. Il 14 aprile era stata
prelevata da una volante al carcere del Coroneo dove aveva finito di
scontare una pena per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ed
era stata portata a quello che fu subito definito il “commissariato
degli orrori”.
Alina Bonar Diachuk era in
attesa d’espulsione ma non in stato di fermo, non c’era alcun motivo
legale per portarla al commissariato e trattenerla lì. Aveva già tentato
il suicidio, dopo due giorni si è impiccata con il cordino della felpa
davanti alle telecamere di sorveglianza. La sua agonia è durata 40
minuti, nessuno si è accorto di niente né tantomeno è intervenuto.
Le
indagini hanno permesso di scoprire che Alina non era stata l’unica ad
aver subito un sequestro di persona in commissariato: era una prassi
abituale. Nel corso delle perquisizioni si è scoperto che il funzionario
dirigente Carlo Baffi aveva cambiato il cartello dell’ufficio
immigrazione con la scritta “ufficio epurazione” che teneva in bella
mostra vicino a un busto di Mussolini. All’epoca, Baffi era anche membro
della Commissione territoriale di Gorizia che esaminava le domande
d’asilo presentate in Friuli Venezia Giulia: Baffi ha continuato a
partecipare alle riunioni della Commissione anche dopo il suicidio di
Alina. L’allora questore Padulano disse che i poliziotti coinvolti
avevano fatto il loro “dovere”.
A febbraio 2018
il pm De Bortoli aveva chiesto pene per 20 anni e 9 mesi per i
poliziotti coinvolti. Ora, a sei anni dalla morte di Alina, è giunta
l’assoluzione per tutti in primo grado. Il giudice Nicoli ha ritenuto
che i poliziotti avessero messo in atto direttive della Questura,
conosciute e condivise ai massimi livelli istituzionali, anche dalla
Pretura, secondo quanto riportato dalla stampa. In breve, i poliziotti
hanno fatto il loro dovere e hanno obbedito agli ordini. Tuttavia,
nonostante l'omertà istituzionale, noi sappiamo che il sequestro di
persona non è legale in Italia e la detenzione di Alina e delle altre
centinaia di persone a Opicina era abusiva.
È
la banalità del male: nessuno è responsabile dell’annientamento della
vita di una giovane donna, tutti svolgevano il proprio lavoro.
Siamo
in attesa di leggere le motivazioni della sentenza ma già possiamo dire
che non ci stiamo: Alina, donna e migrante, è stata per la seconda
volta uccisa da questa sentenza che non condanna nessuno per la sua
morte.
Verità e giustizia per Alina. Le vite delle donne contano tutte, NON UNA DI MENO!
Non Una di Meno Trieste
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