non lo contrasta realmente e ne diventa oggettivo complice.
Il decreto Salvini e il reato di blocco stradale
Nota dell'avvocato Novaro
Il
5 ottobre scorso, il giorno successivo alla pubblicazione sulla
Gazzetta ufficiale, è entrato in vigore il decreto legge 113/2018, il
cosiddetto decreto Salvini sulla sicurezza, che, in particolare sul tema
dell’immigrazione, rappresenta una ulteriore pesante regressione
rispetto ai diritti dei migranti e ai principi fondamentali sanciti
dalla nostra Costituzione.
Nonostante
la pluralità e la eterogeneità delle norme contenute nel decreto, è
possibile appezzare una sua coerenza interna, del tutto in sintonia con
la scelta governativa di orientare e direzionare il disagio sociale,
indotto dalla crisi e dai tagli alla spesa sociale, verso specifiche
categorie di soggetti, i migranti, gli occupanti di case, chi protesta
per le strade.
Nelle pieghe del
decreto, infatti, recuperando lo spirito di un paio di proposte di legge
presentate da alcuni parlamentari del centro-destra nella scorsa
legislatura, vi sono anche delle norme che si occupano del blocco della
circolazione su strade e autostrade.
Viene
reintrodotto il reato di blocco stradale (che era stato depenalizzato
nel 1999), sanzionato, se il
fatto è commesso da più persone, con la pena della reclusione da 2 a 12 anni.
fatto è commesso da più persone, con la pena della reclusione da 2 a 12 anni.
Si
stanno celebrando in queste settimane alcuni processi per i blocchi
effettuati sull’autostrada Torino – Bardonecchia nel febbraio-marzo
2012, dopo la caduta di Luca Abbà da un traliccio dell’alta tensione, e
nell’agosto 2013.
Si è trattato di
vicende a cui hanno partecipato centinaia di persone, nell’ambito di
manifestazioni che esprimevano, le une, la rabbia per quanto accaduto a
Luca e per la militarizzazione crescente della Val di Susa, le altre, la
volontà di impedire l’arrivo di alcuni componenti della talpa che
doveva effettuare i lavori nel tunnel geognostico di Chiomonte.
Bene,
se quelle manifestazioni venissero fatte oggi, i partecipanti
rischierebbero pene elevatissime e, con ogni probabilità, l’applicazione
di misure cautelari, visto i criteri guida utilizzati negli ultimi anni
dagli uffici giudiziari torinesi. Tutto ciò in perfetta armonia con le
roboanti dichiarazioni, ahimè quasi giornaliere, del ministro
dell’interno, che sembra avere in odio qualsiasi forma di protesta o di
conflitto sociale.
Non è il caso di gridare allo scandalo.
Soprattutto
se si confronta tale riforma con le ripetute prese di posizione di un
governo che spara ad alzo zero sulle occupazioni di case, che si
contrappone con ferocia all’esodo dei migranti, che trasforma in crimine
umanitario il salvataggio di disperati in fuga dalle proprie case, che
ogni giorno ci permette di constatare come l’umanità, il senso di
solidarietà e di giustizia continuino pericolosamente ad arretrare nella
coscienza degli italiani.
Siamo di
fronte all’ennesimo giro di vite che produrrà un po’ di carcere in più
per gli appartenenti ai movimenti sociali, che dovranno fare i conti con
una repressione resa più intensa ed efficace da norme come questa.
Ciò
nonostante, vale la pena di segnalare come siano evidenti i profili di
incostituzionalità della nuova disposizione legislativa, non solo perché
fanno difetto i requisiti di necessità urgenza connaturati
all’emanazione di un decreto legge, non tanto per lo scarso nesso
funzionale tra la norma in questione e i contenuti e le finalità dello
stesso decreto, quanto, soprattutto, per l’adozione di minimi e di
massimi edittali assolutamente spropositati, in rapporto alla finalità
rieducativa della pena, prevista dal terzo comma dell’art. 27 della
Carta costituzionale.
In diverse
pronunce la Corte Costituzionale si è espressa in passato nel senso che
tale finalità costituisca “una delle qualità essenziali e generali che
caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da
quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in
concreto si estingue”, il che richiede una costante proporzione tra
quantità e qualità della sanzione e offesa del bene giuridico tutelato.
In
particolare, secondo La Corte “la palese sproporzione del sacrificio
della libertà personale” provocata dalla previsione di una sanzione
penale manifestamente eccessiva rispetto al disvalore
dell’illecito “produce … una vanificazione del fine rieducativo della
pena prescritto dall’art. 27, comma 3°, Cost., che di quella libertà
costituisce una garanzia istituzionale in relazione allo stato di
detenzione”.
Nel caso del nuovo di
reato di blocco stradale è prevista la possibilità di irrogare delle
pene detentive, come detto da 2 a 12 anni, ben più alte di quelle
previste per reati che, secondo la coscienza collettiva, appaiono
sicuramente più gravi.
Basti
pensare, saltando di fiore in fiore, che per i partecipanti ad
un’associazione per delinquere il nostro codice penale prevede sanzioni
da 1 a 5 anni di reclusione, per i capi e promotori da 3 a 7, per un
attentato ad impianti di pubblica utilità da 1 a 4, per l’adulterazione
di cose in danno della pubblica salute da 1 a 5.
Il
massimo edittale di 12 anni, indicato nel nuovo reato di blocco
stradale è uguale a quello di chi recluta o induce alla prostituzione
dei minorenni o di chi commette violenza sessuale contro un minore di 14
anni o di chi compie violenza sessuale di gruppo. E’ più alto di quello
del reato di sequestro di persona, della rapina semplice, della
violenza sessuale su un adulto.
Inoltre,
per il reato di blocco stradale non sarà possibile far ricorso a quegli
istituti, non facilissimi da collocare sul piano sistematico ma di
sicura natura deflattiva e spesso assai vantaggiosi sul piano difensivo,
quali la messa alla prova e l’esclusione della punibilità per
particolare tenuità del fatto.
Ciò a
causa dei limiti edittali, particolarmente elevati, previsti nella
nuova fattispecie, con il paradosso che, ad esempio, per reati come la
resistenza aggravata contro le forze dell’ordine (come il lancio di
sassi nel corso di una manifestazione) il secondo istituto sarebbe
astrattamente applicabile, pur essendo il fatto, in tutta evidenza, più
grave di un semplice blocco stradale.
Il
conformismo, lo scarso coraggio interpretativo che allignano di questi
tempi nella magistratura italiana non consentono di sperare che si
giunga in tempi brevi ad una dichiarazione di incostituzionalità della
norma.
Inutile dire, poi, che, con
ogni probabilità, la lettura che di essa daranno le Questure, prima, e
le Procure, successivamente, potrebbe estendere ulteriormente il suo
ambito di applicazione, soprattutto in relazione alle manifestazioni che
si tengo nei centri urbani.
Non
resta che sperare in un sussulto di dignità di quei parlamentari che
dovranno votare nei prossimi mesi per la conversione del decreto in
legge.
Ma anche questa, visti i maneggi, le retromarce, i compromessi governativi di questi giorni, appare una pia illusione.
Sui siti No Tav si è detto in più occasioni che non esistono governi amici.
Un
governo che approva norme di questo tipo, che coltiva con pervicacia
una prospettiva di incremento della repressione verso i movimenti appare
un governo che, nei fatti, si muove in una logica di ostilità nei
confronti delle lotte e del conflitto sociale. Con buona pace di tutti
coloro che, approdati in sedi istituzionali, continuano a sostenerlo,
pur avendo condiviso e/o apprezzato in questi anni le ragioni delle
mobilitazioni No Tav.
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