“Il nostro arresto, il carcere in Italia sono stati un brutto colpo. Adesso molti pescatori hanno paura a salvare i naufraghi, ma continueremo a farlo. Se vai per mare, se sei un essere umano, non puoi girare la testa dal’altra parte”. Zarzis, sud della Tunisia, città di mare. Patria di pescatori tenaci, noti per le loro associazioni, per le loro battaglie per fare vivere la pesca artigianale nei confronti di quella industriale. Abituati a litigare o a collaborare, da decenni, con i loro omologhi italiani, maltesi, libici. Ma noti anche per una lunga storia di salvataggi di migranti in pericolo in mare, e anche di ripescaggi di cadaveri.
Ci ricevono nella loro sede tapezzata di fotografie sulla pesca e su piccoli progetti di cooperazione. Ad attenderci il loro leader storico Chamseddine Bourassine. Gli altri – Salem Lhiba, Lotfi Lhib, a Ammar Zemzemi, Farhat Tarhouni, Bechir Dib – che sono stati arrestati con lui in Italia, il nuovo presidente Salahdinne Mcharek, la segretaria Imen Bouzoumita. Sono cortesi e contenti di ricevere un gruppo di italiani, ma ci fanno anche notare che siamo stati preceduti da giornalisti francesi e tedeschi e Chamseddine non ci nasconde l’impressione che l’Italia in questo momento sia il paese più “razzista”, che ostacola i soccorsi. Non si aspettavano certo di essere arrestati, il 30 agosto, dopo aver
accompagnato fino alle acque italiane un barchino rimasto in panne con 14 adolescenti a bordo. Né tantomeno di passare 24 giorni nel carcere di Agrigento, e di essere privati , ancora mentre scriviamo, del loro unico mezzo di sostentamento, il loro peschereccio.
I pescatori di Zarzis in generale e Chamseddine Bourassine in particolare hanno una storia in proposito, di cui forse Procura e Gip avrebbero potuto tener conto prima dell’arresto, prima di accusarli di essere scafisti. Il documentario Strange Fish dedicato dall’italiana Giulia Bertoluzzi proprio a loro, stava già uscendo,e vari articoli, in varie lingue erano già stati dedicati alla complessa situazione umanitaria dei pescatori di Zarzis. Complessa perché presa spesso in mezzo tra i naufraghi – o comunque i passeggeri a forte rischio – delle partenze dalla vicina Libia, quelli delle partenze dalla Tunisia, e le esigenze pressanti del loro lavoro. Chamseddine usa talvolta un linguaggio militante, parla di razzisti e fascisti che combattono i migranti, ma è innanzitutto un piccolo imprenditore della pesca che si sente responsabile del lavoro, cioè della vita delle famiglie, del suo equipaggio.
E così il discorso si sposta alle volte in cui, per non perdere troppo tempo nei salvataggi, hanno tirato su le reti con ancora i naufraghi a bordo, e poi al valore della barca ancora sotto sequestro della magistratura italiana. Più dei giorni in carcere, pesa l’interruzione per gli ormai oltre due mesi di stop al lavoro. La carcerazione è stata interrotta grazie al gran lavoro degli avvocati  Salvatore Cusumano e Giacomo Larussa che hanno convinto il Tribunale del Riesame di Palermo a rovesciare quasi completamente l’impostazione della Procura e del Gip e a scarcerarli. Ora non ci sono più “gravi  e univoci indizi di colpevolezza” e i sei pescatori tunisini – attualmente espulsi dall’Italia – potrebbero vedersi archiviati o prosciolti. (Ma per riprendere il peschereccio, di cui dovrebbe essere imminente il dissequestro, devono mandare in Italia un delegato, dato che sono espulsi.)
E i 14 ragazzi che hanno salvato? Sono anche loro tunisini della regione di Zarzis. Chi è stato rimpatriato dall’ Italia è ripartito di nuovo, pare siano in Francia. Secondo i sei pescatori hanno tra i 14 e i 18 anni, il tribunale dice che solo tre sono minori. “Siamo contrari a questo tipo di emigrazione, e a questi viaggi pericolosissimi su barchini e Zodiac. Da anni siamo impegnati in progetti per cercare di dare nuove occasioni di lavoro ai giovani a Zarzis. Ma la Guardia Costiera fa più fatica a impedire le partenze proprio perché sono piccoli gruppi, piccole barche. Se vedi dieci ragazzi su un gommone li puoi bloccare perché pensi che stanno andando in Italia? Non è cosi facile. E in ogni caso se hanno un’avaria in alto mare li devi salvare. Il problema è che adesso a salvarli ci siamo solo noi, non ci sono più le navi europee”.
A Zarzis ci sono altri grandi testimoni ed attori nel dramma dei viaggi proibiti e pericolosi dei migranti. Chemsedine Marzouk, ormai ex pescatore, sta girando la Tunisia e i paesi europei alla ricerca di fondi per il suo “cimitero degli sconosciuti”, un pezzo di spiaggia in cui dice di aver sepolto personalmente 400 cadaveri. Nel quartieri nord della città un altro personaggio ormai noto, Mohsen Lihidheb  ci mostra il suo “museo dei relitti e degli oggetti restituiti dal mare”. Nato da una ispirazione ecologica e poetica si sta sempre più caratterizzando sui segni dei naufragi, con scarpe, abiti, oggetti. Moshen è un artista e un poeta, parla dell’empatia irresistibile che lo spinge a inscenare piccole cerimonie con gli abiti delle vittime del mare. Ma ha una mentalità pragmatica: “L’ Europa ha troppa paura di questi giovani, che invece attraversano il mare con delle ambizioni pacifiche semplici. Da una parte bisogna aiutarli a costruire possibilità nel nostro Paese e in quelli africani. Dall’altro alleggerire la politica dei visti, lasciare che vadano a cercare occasioni.”