Migranti. In carcere per aver soccorso un barcone, parlano i pescatori tunisini: “Italia razzista, aiutare chi è in pericolo”
Ci ricevono nella loro sede tapezzata di fotografie sulla pesca e su piccoli progetti di cooperazione. Ad attenderci il loro leader storico Chamseddine Bourassine. Gli altri – Salem Lhiba, Lotfi Lhib, a Ammar Zemzemi, Farhat Tarhouni, Bechir Dib – che sono stati arrestati con lui in Italia, il nuovo presidente Salahdinne Mcharek, la segretaria Imen Bouzoumita. Sono cortesi e contenti di ricevere un gruppo di italiani, ma ci fanno anche notare che siamo stati preceduti da giornalisti francesi e tedeschi e Chamseddine non ci nasconde l’impressione che l’Italia in questo momento sia il paese più “razzista”, che ostacola i soccorsi. Non si aspettavano certo di essere arrestati, il 30 agosto, dopo aver
accompagnato fino alle acque italiane un barchino rimasto in panne con 14 adolescenti a bordo. Né tantomeno di passare 24 giorni nel carcere di Agrigento, e di essere privati , ancora mentre scriviamo, del loro unico mezzo di sostentamento, il loro peschereccio.
E così il discorso si sposta alle volte in cui, per non perdere troppo tempo nei salvataggi, hanno tirato su le reti con ancora i naufraghi a bordo, e poi al valore della barca ancora sotto sequestro della magistratura italiana. Più dei giorni in carcere, pesa l’interruzione per gli ormai oltre due mesi di stop al lavoro. La carcerazione è stata interrotta grazie al gran lavoro degli avvocati Salvatore Cusumano e Giacomo Larussa che hanno convinto il Tribunale del Riesame di Palermo a rovesciare quasi completamente l’impostazione della Procura e del Gip e a scarcerarli. Ora non ci sono più “gravi e univoci indizi di colpevolezza” e i sei pescatori tunisini – attualmente espulsi dall’Italia – potrebbero vedersi archiviati o prosciolti. (Ma per riprendere il peschereccio, di cui dovrebbe essere imminente il dissequestro, devono mandare in Italia un delegato, dato che sono espulsi.)
A Zarzis ci sono altri grandi testimoni ed attori nel dramma dei viaggi proibiti e pericolosi dei migranti. Chemsedine Marzouk, ormai ex pescatore, sta girando la Tunisia e i paesi europei alla ricerca di fondi per il suo “cimitero degli sconosciuti”, un pezzo di spiaggia in cui dice di aver sepolto personalmente 400 cadaveri. Nel quartieri nord della città un altro personaggio ormai noto, Mohsen Lihidheb ci mostra il suo “museo dei relitti e degli oggetti restituiti dal mare”. Nato da una ispirazione ecologica e poetica si sta sempre più caratterizzando sui segni dei naufragi, con scarpe, abiti, oggetti. Moshen è un artista e un poeta, parla dell’empatia irresistibile che lo spinge a inscenare piccole cerimonie con gli abiti delle vittime del mare. Ma ha una mentalità pragmatica: “L’ Europa ha troppa paura di questi giovani, che invece attraversano il mare con delle ambizioni pacifiche semplici. Da una parte bisogna aiutarli a costruire possibilità nel nostro Paese e in quelli africani. Dall’altro alleggerire la politica dei visti, lasciare che vadano a cercare occasioni.”
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