domenica 6 ottobre 2019

pc 6 ottobre - Documenti - La Trattativa imperialismo italiano/scafisti libici

In cambio dei loro servizi, hanno chiesto di colpire le ONG. 
Imperialisti italiani ed europei: ASSASSINI!

Questo è "il modello libico", il "porto sicuro" che, in particolare, i governi da Minniti-Gentiloni/Renzi, da Conte-Salvini-Lamorgese appoggiano e sostengono.
E per questo accordo che si voleva segreto che le ONG sono un ostacolo e i governi e le istituzioni intendono colpirli per allontanarli dai salvataggi in mare così da non avere testimoni. L'attacco nei loro confronti è un'operazione di vero e proprio "depistaggio".
La denuncia nell'inchiesta del quotidiano Avvenire.
In Libia la fonte di guadagno per i trafficanti non consisteva più nel far partire le persone ma nel trattenerle e torturarle fino al pagamento di un soddisfacente riscatto da parte delle famiglie.
Il programma dello Stato italiano e dei vari governi per il "contenimento" dei flussi migratori dalla Libia, oltre ai lager della morte, alla famigerata guardia costiera libica, ai "porti chiusi", alle politiche dei respingimenti, si è avvalso anche di accordi con finanziamenti e mano libere agli esponenti criminali libici nella gestione delle galere come contropartita.
Il giornale della Cei ha pubblicato le foto dell’incontro segreto che l’11 maggio 2017 si tenne all’interno del mega Cara di Mineo da cui è partita l'inchiesta, dove era presente il leader dei trafficanti di esseri umani della Libia occidentale: Bija. In qualche modo, l’aguzzino torturatore di migranti era arrivato in Italia per partecipare alla riunione da cui sarebbe poi nata la politica anti-immigrati del ministro dell’Interno Marco Minniti, del Governo di “centrosinistra” presieduto da Paolo Gentiloni.
Criminali, su cui indaga la Corte penale internazionale dell’’Aia, accolti invece dalle istituzioni italiane come fossero esponenti di governo.
Dopo l’incontro tra funzionari italiani e boss malavitosi libici dell’11 maggio 2017 si è registrata una strana e progressiva riduzione sensibile delle partenze. Nello stesso tempo le istituzioni italiane hanno iniziato la campagna ufficiale di criminalizzazione delle ONG.
Riportiamo di seguito un primo articolo-denuncia del quotidiano Avvenire. Domani pubblicheremo il secondo articolo: "Chi è Bija, il guardacoste e trafficante libico pagato da Italia ed Europa"

Libia. Caso Bija, il sottosegretario Sibilia: verificheremo.
Nello Scavo venerdì 4 ottobre 2019
Reazioni e dibattito dopo la pubblicazione su Avvenire delle foto esclusive del summit al Cara di Mineo con il boss libico trafficante di uomini e gli 007 italiani.
 
Grande risonanza sui media di tutto il mondo ha avuto l'inchiesta di Nello Scavo sulla presenza al Cara dei Mineo, l'11 maggio 2017, del trafficante di uomini libico Bija al tavolo dei negoziatori con gli 007 italiani. (QUI LA PRIMA PUNTATA DELL'INCHIESTA)

"La meritoria inchiesta giornalistica si riferisce al 2017, noi andremo certamente a fondo, per essere certi che non vi sia alcuno scambio con gli scafisti: non è certo questa la maniera di risolvere il problema. Noi ci stiamo adoperando perché siano accelerate le procedure di rimpatrio di quanti non hanno il diritto di stare nel nostro Paese".

È quanto dichiara in un'intervista ad Avvenire, che sarà pubblicata integralmente nell'edizione di sabato 5 ottobre, il sottosegretario agli Interni Carlo Sibilia. Abd al-Rahman al-Milad, il famigerato Bija, fu identificato un mese dopo dall'Onu come uno dei principali trafficanti di esseri umani sotto la veste di "guardacoste" libico.

"Abbandonata la linea della propaganda i fatti ci stanno dando ragione - dice ancra Sibilia ad Avvenire -. C'è chi ha deciso di scappare di fronte alle responsabilità e chi se le è assunte, neutralizzando l'aumento dell'Iva. Aver messo il dialogo al centro della nostra azione, invece di cercare sempre lo scontro, sta producendo grandi risultati, con gli accordi di Malta, e ora con questo decreto rimpatri. Senza indietreggiare sulla sicurezza".

La trattativa nascosta. Dalla Libia a Mineo, il negoziato tra l'Italia e il boss

Nello Scavo venerdì 4 ottobre 2019
Le foto dell’incontro nel 2017 tra il numero uno dei trafficanti di esseri umani, Bija, e delegati inviati dal governo.
L’incontro di Mineo del maggio 2017 cui prese parte il trafficante libico Bija, l'unico con il volto non pixellato, a sinistra con la barba (foto Avvenire)
Quando il minibus coi vetri oscurati entra nel Cara di Mineo, solo in pochi conoscono la composizione della misteriosa delegazione da Tripoli. È l’11 maggio 2017. L’Italia sta negoziando con le autorità libiche il blocco delle partenze di profughi e migranti. Oggi sappiamo che quel giorno, senza lasciare traccia nei registri d’ingresso, alla riunione partecipò anche Abd al-Rahman al-Milad, il famigerato Bija. (IL PROFILO)

Le numerose immagini ottenute da Avvenire attraverso una fonte ufficiale, documentano quella mattinata rimasta nel segreto. Accusato dall’Onu di essere uno dei più efferati trafficanti di uomini in
Libia, padrone della vita e della morte nei campi di prigionia, autore di sparatorie in mare, sospettato di aver fatto affogare decine di persone, ritenuto a capo di una vera cupola mafiosa ramificata in ogni settore politico ed economico dell’area di Zawyah, aveva ottenuto un lasciapassare per entrare nel nostro Paese e venire accompagnato dalle autorità italiane a studiare «il modello Mineo», da dove in questi anni sono passati oltre 30mila migranti. Accordi indicibili che proseguono anche adesso, nonostante le reiterate denunce delle Nazioni Unite.
All’incontro, partecipavano anche delegati nordafricani di alcune agenzie umanitarie internazionali, probabilmente ignari di trovarsi seduti a fianco di un signore della guerra dedito alle peggiori violazioni dei diritti umani. Non deve essere un caso se, pochi giorni dopo, le Nazioni Unite in un durissimo rapporto del Consiglio di sicurezza denunciavano: «Abd al-Rahman Milad (alias Bija) e altri membri della Guardia costiera sono direttamente coinvolti nell’affondamento di imbarcazioni migranti utilizzando armi da fuoco». Si chiede il congelamento dei beni e il divieto di viaggio di Bija al di fuori della Libia. Nel dossier quel nome viene citato per sei volte: «È il capo del ramo di Zawiyah della Guardia costiera. Ha ottenuto questa posizione grazie al supporto di Mohammad Koshlaf e Walid Koshlaf». Questi erano a capo della “Petroleum Facilities Guard”, controllavano la locale raffineria disponendo di una milizia di almeno duemila uomini.
Sembra impossibile che le autorità italiane non sapessero chi era l’uomo seduto al tavolo dello strano convegno.

Diversi mesi prima del suo arrivo in Italia, Bija era finito nel mirino di una raffica di inchieste giornalistiche e investigazioni internazionali. Il 14 febbraio 2017 The Times diffonde un video nel quale si vede un uomo in divisa mimetica picchiare selvaggiamente un gruppo di migranti su un gommone. Ripreso di spalle, il miliziano appare con una menomazione alla mano destra. Proprio come Bija, che durante i combattimenti anti Gheddafi del 2011 aveva perso alcune dita. Il 20 febbraio la giornalista italiana Nancy Porsia pubblica un approfondito reportage in inglese per Trt World, proseguendo un’inchiesta apparsa già il 6 gennaio in italiano su The Post Internazionale, nel quale spiega che «Bija lavora sotto la protezione di Al Qasseb, nom de guerre di Mohamed Khushlaf, che è a capo del dipartimento di sicurezza della raffineria di Zawiyah. Supportato da suo cugino e avvocato Walid Khushlaf, Al Qasseb esercita il controllo totale sulla raffineria e sul porto di Zawiyah. I cugini Khushlaf fanno parte della potente tribù Abu Hamyra, così come Al Bija». Poi arriveranno articoli pubblicati da Il Messaggero, Il Mattino, la Repubblica e l’Espresso. L’anno prima, siamo nel 2016, erano stati anche Panorama e Il Giornale a indicare Abdou Rahman quale uomo chiave del traffico di esseri umani. Numerose e ininterrotte da anni sono le inchieste di Francesca Mannocchi per l’Espresso e svariati altri media, di Sergio Scandura per Radio Radicale, oltre che di alcune tra le principali testate del mondo.
Nonostante la grande mole di informazioni, Bija viene accompagnato in Italia e presentato come «uno dei comandanti della Guardia costiera della Libia», racconta una fonte ufficiale presente al meeting di Mineo. Quel giorno però accade un imprevisto. Un migrante libico ospitato nel Cara finisce per errore nei pressi del prefabbricato dove erano attesi Bija, alcuni delegati del premier Serraj e del Ministero dell’Interno tripolino. Quando dal minibus di una azienda di servizi turistici della provincia di Catania sbarcano i libici (almeno sei), l’immigrato si allontana spaventato: «Mafia Libia, Mafia Libia», dice in italiano.

Le immagini che oggi pubblichiamo parzialmente per proteggere l’identità di diversi funzionari italiani presenti a vario titolo, mostrano Abdou Rahman seduto accanto a due suoi connazionali, un uomo e una donna. Ascolta senza mai proferire parola. Prende nota e ogni tanto fa cenno all’emissario del ministro dell’Interno del governo riconosciuto di intervenire. I libici fanno domande precise: «Quanto vi paga il governo italiano per ospitare ogni migrante qui? Quanto costa annualmente il Cara di Mineo». Poi, racconta la fonte di Avvenire, in modo neanche troppo diplomatico «fanno capire che in fondo il “modello Mineo” si può esportare in Libia e che l’Italia potrebbe finanziare la realizzazione di strutture per migranti in tutto il Paese, risparmiandosi denaro e problemi». Da lì a poco parte l’assedio alle Ong e vengono annunciati interventi dell’Italia e dell’Europa per aprire campi di raccolta nel Paese nordafricano.

In realtà, ha spiegato l’inviato del Tg1 Amedeo Ricucci nel corso di uno speciale mandato in onda dopo essersi recato di persona a Zawyah per intervistare proprio Bija appena dopo il viaggio in Sicilia, «è come se giocassero a guardie e ladri, ma in salsa libica: con i ruoli degli uni e degli altri che si invertono di continuo a seconda delle convenienze».

La trattativa deve essere andata a vantaggio dei trafficanti, se Bija è ancora in servizio. E anche i governi che si sono susseguiti hanno continuato a sostenere indirettamente ma consapevolmente le attività dei boss libici. Diversi testimoni in indagini penali «hanno dichiarato – si legge nei report dell’Onu – di essere stati prelevati in mare da uomini armati su una nave della Guardia costiera chiamata Tallil (usata da Bija, ndr) e portati al centro di detenzione di al-Nasr, dove secondo quanto riferito sarebbero stati detenuti in condizioni brutali e sottoposti a torture».

Queste informazioni hanno avuto un inatteso riscontro proprio nei giorni scorsi. Mentre gli investigatori di Agrigento e Palermo indagavano per arrestate i tre presunti torturatori camuffati tra i migranti dell’hotspot di Messina, alcune delle vittime hanno raccontato che a decidere chi imbarcare sui gommoni era «un uomo libico, forse di nome “Bingi” (fonetico), al quale mancavano due falangi della mano destra». Secondo un altro migrante l’uomo era soprannominato “Bengi”, e «si occupava di trasferire i migranti sulla spiaggia; era lui, che alla fine, decideva chi doveva imbarcarsi; egli era uno violento ed era armato; tutti avevamo timore di lui». Quando gli chiedono se qualche volta avesse sentito il suo vero nome, il migrante risponde con sicurezza: «Lo chiamavano Abdou Rahman». (1-Continua)

Una motovedetta del boss scafista mentre recupera un motore da un gommone in alto mare per riutilizzarlo nel traffico dei migranti

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