stralci La mobilitazione
del 28 gennaio
di Daniele
Cofani
(operaio
Alitalia)
Nel 2018 i ricavi passeggero per kilometro
sono aumentati del 6,2% rispetto all’anno precedente e nel 2019 l’1% del Pil
mondiale (900 miliardi di dollari) sarà speso per i viaggi aerei, a dichiararlo
è Alexandre de Juniac direttore generale e Ceo di Iata (associazione
internazionale del trasporto aereo) durante il “Global media day” di Ginevra. A
novembre 2018, rispetto al periodo precedente, c’è stato un aumento medio della
domanda internazionale di passeggeri del 6,6%, trainata principalmente dai
vettori europei: in Europa l’aumento della domanda è stato del 9% seguita dagli
Usa al 6.1%, Asia-Pacifica 6%, America Latina 5.8% e Medio Oriente 2,8%, in
Italia la domanda passeggeri è cresciuta del 5,7% rispetto al periodo
precedente. Assolutamente un settore in salute in cui, anno dopo anno, si
continuano a stimare e prevedere tassi di crescita sia per quanto riguarda i
passeggeri e le merci che i relativi ricavi. Un settore trainante per il turismo
e l’economia di numerosi Stati in cui, però, la liberalizzazione del mercato, in
assoluto tra le più spietate, e la privatizzazione di aeroporti e compagnie di
bandiera, ha di fatto reso un servizio pubblico, con finalità di salvaguardia e
rispetto delle esigenze e necessità di intere comunità e Paesi, in uno
strumento di profitto in mano a speculatori privati senza scrupoli che, con il
supporto dei governi e delle organizzazioni sindacali compiacenti, ha basato le
proprie “fortune” su un sistema impostato sullo sfruttamento dei lavoratori e
dei territori.
Lo sfruttamento
selvaggio dei lavoratori: Fiumicino, Linate e Malpensa
Ormai la concorrenza tra le varie compagnie
si misura ben poco con i servizi offerti, quasi
tutti a pagamento, ma si basa principalmente sul costo del lavoro che viene abbattuto attraverso salari da fame, produttività alle stelle e precarietà diffusa, ma anche mediante terziarizzazioni di attività dove si arriva a utilizzare perfino false cooperative in cui si misura il massimo livello di sfruttamento attraverso ricatti salariali ed occupazionali, dove a farne le spese sono fette di popolazione più povera e lavoratori immigrati.
tutti a pagamento, ma si basa principalmente sul costo del lavoro che viene abbattuto attraverso salari da fame, produttività alle stelle e precarietà diffusa, ma anche mediante terziarizzazioni di attività dove si arriva a utilizzare perfino false cooperative in cui si misura il massimo livello di sfruttamento attraverso ricatti salariali ed occupazionali, dove a farne le spese sono fette di popolazione più povera e lavoratori immigrati.
Tra gli esempi più lampanti possiamo citare
senza dubbio lo scalo di Fiumicino, le cui attività sono state delegate alla
famiglia Benetton attraverso l’acquisizione e il controllo della società di
gestione Aeroporti di Roma, oggi di proprietà del gruppo Atlantia, azienda di
famiglia. Ci troviamo, di fatto, di fronte ad un servizio pubblico in
concessione ai privati che, finanziandosi con le tasse e tariffe aeroportuali
(soldi pubblici), ne ricavano poi profitti personali, né più né meno di come
funziona per le autostrade.
Non molto differente la situazione negli
scali milanesi di Linate e Malpensa dove la storica società di gestione SEA,
dalla quale nel 2014 sono state scorporate (terziarizzate) le attività di
Handling verso la società Airport Handling, è di proprietà al 55% del comune di
Milano e per il resto della società privata F2i, quest’ultima società
infrastrutturale in questi giorni ha anche acquisito il 55% dello scalo
triestino.
Il caso Alitalia
All’interno di questa centrifuga del trasporto aereo internazionale, si trova anche Alitalia che dal 2008 ad oggi è di fatto fallita 3 volte ed è in procinto di cambiare di nuovo la propria ragione sociale, (appunto per la terza volta in 10 anni) e tutto ciò non è accaduto perché Alitalia è stata estranea al “gioco” del dumping sociale con la rincorsa al ribasso dei salari e dei diritti o perché in Italia il mercato del trasporto aereo non sia fiorente, anzi tutt’altro: Alitalia in Europa è tra le compagnie, anche paragonata con le Low Cost, con il costo del lavoro più basso e nel nostro Paese viaggiano circa 180 milioni di passeggeri all’anno con previsioni di crescita. Alitalia è stata scientificamente ridimensionata a favore di un progetto ben preciso!
All’interno di questa centrifuga del trasporto aereo internazionale, si trova anche Alitalia che dal 2008 ad oggi è di fatto fallita 3 volte ed è in procinto di cambiare di nuovo la propria ragione sociale, (appunto per la terza volta in 10 anni) e tutto ciò non è accaduto perché Alitalia è stata estranea al “gioco” del dumping sociale con la rincorsa al ribasso dei salari e dei diritti o perché in Italia il mercato del trasporto aereo non sia fiorente, anzi tutt’altro: Alitalia in Europa è tra le compagnie, anche paragonata con le Low Cost, con il costo del lavoro più basso e nel nostro Paese viaggiano circa 180 milioni di passeggeri all’anno con previsioni di crescita. Alitalia è stata scientificamente ridimensionata a favore di un progetto ben preciso!
Nel 2000 Loyola De Palacio, commissario
europeo per i trasporti, dichiarò che in Europa dovevano rimanere solo 3 grandi
compagnie di bandiera a svolgere traffico aereo globale (intercontinentale) e
dovevano appartenere ai 3 Stati più industrializzati della EU, Francia
(AirFrance), Germania (Lufthansa) e Gran Bretagna (British Airways), tutte le
altre dovevano gestire solamente il traffico ancillare. A distanza di 18 anni le
dichiarazioni dell’ex commissario sono divenute più che realtà: proprio
AirFrance, Lufthansa e British sono le 3 compagnie europee che hanno avuto la
maggiore espansione del traffico intercontinentale, avendo un ruolo di primo
piano all’interno delle alleanze internazionali insieme alle altre big mondiali
dei cieli. Un processo avvenuto molto rapidamente anche grazie alla
liberalizzazione del mercato del settore aereo, iniziato nei primi anni 2000
facilitando il proliferare delle compagnie Low Cost, fattore che ha messo in
crisi le compagnie aeree tradizionali soprattutto degli Stati minori della EU,
che, sotto i colpi di un’efferata concorrenza, in alcuni casi anche sleale, sono
andate a perdere pian piano il controllo di ampie fette di mercato, non solo
nazionale ma anche internazionale e globale.
Di questo scenario hanno approfittato le grandi compagnie al fine di conquistare e ampliare il controllo del traffico globale attraverso acquisizioni azionarie o totali delle compagnie in crisi o in fallimento. Alitalia è uno dei più evidenti esempi: fallita nel 2008 ne fu, falsamente, salvata “l’italianità” (con 10 mila licenziamenti) dal governo Berlusconi in contrapposizione al piano di vendita ai franco-olandesi del precedente governo Prodi. Falsamente perché nella nuova NewCo il primo azionista fu proprio AirFrance-KLM che, detenendo il 25% delle azioni, gestì gran parte della politica industriale della nuova Alitalia-Cai attraverso una presenza predatoria che di fatto bloccò e ridusse lo sviluppo del lungo raggio da e per l’Italia a favore di Parigi ed Amsterdam e assoggettò le attività di manutenzione della Divisione Manutenzione di Fiumicino portando in terra d’oltralpe numerose rilavorazioni.
Il risultato fu fallimentare tantoché nel 2014 Alitalia si ritrovò sull’orlo di un nuovo fallimento, e l’allora governo Letta/Renzi, invece di nazionalizzare la ex compagnia di bandiera, decise di cederne la cloche al cavaliere bianco emiratino di Etihad che chiese il sacrificio di ulteriori 2000 licenziamenti per dare il via libera all’acquisizione del 49%. Chiaramente anche questa esperienza basò le sue fondamenta su un piano predatorio da parte degli emiratini, i quali spostarono il baricentro del traffico intercontinentale di Alitalia da Fiumicino verso Abu Dhabi e si impossessarono del controllo dei passeggeri AZ acquisendo il programma di fidelizzazione (MilleMiglia). Fu un totale disastro che terminò con la richiesta di ulteriori sacrifici per i lavoratori Alitalia i quali, finalmente, memori dei precedenti “salvataggi”, risposero con determinazione e forza rispedendo a casa tutti gli speculatori privati presenti ancora nella compagine azionaria: gli scioperi del 2017 e il referendum d’aprile, guidati dalle attiviste ed attivisti della Cub Trasporti ed AirCrew Committee, furono un’onda d’urto che mise in crisi tutte le grandi organizzazioni sindacali e la politica tutta, aprendo un non più rinviabile dibattito sul fallimento delle privatizzazioni e sull’importanza della gestione pubblica di asset strategici per il Paese.
Di questo scenario hanno approfittato le grandi compagnie al fine di conquistare e ampliare il controllo del traffico globale attraverso acquisizioni azionarie o totali delle compagnie in crisi o in fallimento. Alitalia è uno dei più evidenti esempi: fallita nel 2008 ne fu, falsamente, salvata “l’italianità” (con 10 mila licenziamenti) dal governo Berlusconi in contrapposizione al piano di vendita ai franco-olandesi del precedente governo Prodi. Falsamente perché nella nuova NewCo il primo azionista fu proprio AirFrance-KLM che, detenendo il 25% delle azioni, gestì gran parte della politica industriale della nuova Alitalia-Cai attraverso una presenza predatoria che di fatto bloccò e ridusse lo sviluppo del lungo raggio da e per l’Italia a favore di Parigi ed Amsterdam e assoggettò le attività di manutenzione della Divisione Manutenzione di Fiumicino portando in terra d’oltralpe numerose rilavorazioni.
Il risultato fu fallimentare tantoché nel 2014 Alitalia si ritrovò sull’orlo di un nuovo fallimento, e l’allora governo Letta/Renzi, invece di nazionalizzare la ex compagnia di bandiera, decise di cederne la cloche al cavaliere bianco emiratino di Etihad che chiese il sacrificio di ulteriori 2000 licenziamenti per dare il via libera all’acquisizione del 49%. Chiaramente anche questa esperienza basò le sue fondamenta su un piano predatorio da parte degli emiratini, i quali spostarono il baricentro del traffico intercontinentale di Alitalia da Fiumicino verso Abu Dhabi e si impossessarono del controllo dei passeggeri AZ acquisendo il programma di fidelizzazione (MilleMiglia). Fu un totale disastro che terminò con la richiesta di ulteriori sacrifici per i lavoratori Alitalia i quali, finalmente, memori dei precedenti “salvataggi”, risposero con determinazione e forza rispedendo a casa tutti gli speculatori privati presenti ancora nella compagine azionaria: gli scioperi del 2017 e il referendum d’aprile, guidati dalle attiviste ed attivisti della Cub Trasporti ed AirCrew Committee, furono un’onda d’urto che mise in crisi tutte le grandi organizzazioni sindacali e la politica tutta, aprendo un non più rinviabile dibattito sul fallimento delle privatizzazioni e sull’importanza della gestione pubblica di asset strategici per il Paese.
Il governo giallo-verde e le nuove minacce di
licenziamenti
Alitalia fu posta in amministrazione
straordinaria dall’ex ministro dello sviluppo economico Calenda ed ora, dopo
roboranti promesse elettorali, con parole d’ordine come zero esuberi e
nazionalizzazione, ci sembra di essere tornati indietro come nel gioca dell’oca,
indietro al 2008 rispetto la situazione commissariale, al 2014 rispetto le
prospettive di un’ennesima vendita ad uno o più diretti concorrenti, ma rispetto
anche al referendum del 2017 vista la pretesa di un ulteriore ridimensionamento
con licenziamenti e tagli in cambio di investimenti. Con l’avvento del nuovo
governo giallo-verde il dossier Alitalia, dopo un breve e sciagurato passaggio
al ministero dei trasporti, è passato sotto la gestione del Mise nella veste del
ministro Di Maio il quale, dopo aver attaccato per tutta la campagna elettorale
la terna commissariale nominata dal predecessore Calenda, lascia Gubitosi e Co.
alle redini della compagnia con evidenti risultati nefasti: mentre i media
mainstream ci raccontano di misere migliorie di risultati riguardo i ricavi da
passeggeri, si “dimenticano” di evidenziare le perdite di gestione che ad oggi
ammontano a 1,5 milioni al giorno che con il passare del tempo stanno
velocemente erodendo la cassa composta solamente da ciò che rimane dei 900
milioni del prestito ponte. Unico passaggio fin ora effettuato dal governo a
novembre’18, è stato l’entrata in partita delle Ferrovie dello Stato attraverso
una proposta di acquisizione di Alitalia condizionata e condizionante attraverso
dei vincoli, tra cui la partecipazione cospicua nella NewCo di un partner
internazionale del settore, quindi un concorrente, e la possibilità di fare
arrivare l’alta velocità direttamente all’interno degli aeroporti con garanzie
di un ridimensionamento della rete nazionale di Alitalia sovrapposta a quella
ferroviaria. Passaggio avvenuto parallelamente all’addio di Luigi Gubitosi
(commissario guida di Alitalia), che lascia spontaneamente il timone della
compagnia per andare a svolgere il ruolo di A.D. presso TIM: non solo non è
stato destituito dal governo, ma è stato addirittura premiato…
FS, nella veste del suo A.D. Battisti, preso l’impegno di presentare un piano industriale entro il 31 gennaio’19, rinviato poi a febbraio, ha iniziato delle serrate trattative con i 2 principali concorrenti che hanno attestato interesse al bando di vendita, il duetto franco-americano Delta Air Lines/AirFrance-KLM e la tedesca Lufthansa. Entrambe le proposte prevedono un ridimensionamento con licenziamenti e tagli: i tedeschi pretendono una dura ristrutturazione con la “messa a terra” di circa 40 dei 118 aerei operativi in AZ con relativi 6 mila esuberi, compresi i lavoratori dell’Handling che sarebbero totalmente esclusi dalla procedura, inoltre esigono la maggioranza azionaria e la governance su attività e tratte. I franco-americani propongono un piano più “soft” in cui sarebbero solo 8 gli aerei esclusi dall’attuale flotta e gli esuberi si attesterebbero a quota 2/3 mila con una percentuale azionaria pari al 40% ma con l’opzione del totale controllo della guida operativa e delle rotte intercontinentali, le più remunerative, anche attraverso la connotazione della nuova Alitalia nella prossina joint venture transatlantica e nell’alleanza SkyTeam in cui la compagnia italiana avrebbe, in ogni caso, un ruolo marginale.
FS, nella veste del suo A.D. Battisti, preso l’impegno di presentare un piano industriale entro il 31 gennaio’19, rinviato poi a febbraio, ha iniziato delle serrate trattative con i 2 principali concorrenti che hanno attestato interesse al bando di vendita, il duetto franco-americano Delta Air Lines/AirFrance-KLM e la tedesca Lufthansa. Entrambe le proposte prevedono un ridimensionamento con licenziamenti e tagli: i tedeschi pretendono una dura ristrutturazione con la “messa a terra” di circa 40 dei 118 aerei operativi in AZ con relativi 6 mila esuberi, compresi i lavoratori dell’Handling che sarebbero totalmente esclusi dalla procedura, inoltre esigono la maggioranza azionaria e la governance su attività e tratte. I franco-americani propongono un piano più “soft” in cui sarebbero solo 8 gli aerei esclusi dall’attuale flotta e gli esuberi si attesterebbero a quota 2/3 mila con una percentuale azionaria pari al 40% ma con l’opzione del totale controllo della guida operativa e delle rotte intercontinentali, le più remunerative, anche attraverso la connotazione della nuova Alitalia nella prossina joint venture transatlantica e nell’alleanza SkyTeam in cui la compagnia italiana avrebbe, in ogni caso, un ruolo marginale.
Centrodestra,
centrosinistra, gialloverdi: tutti le stesse politiche
padronali
Il dato è uno ed inequivocabile: il governo
si appresta a vendere e privatizzare per la terza volta in 10 anni la ex
compagnia di bandiera italiana attraverso un ulteriore ridimensionamento, con
altre migliaia di licenziamenti, in nome di un rilancio che mai potrà essere
garantito da nessuno dei diretti concorrenti, i quali sarebbero interessati solo
a impossessarsi del controllo del ricco mercato del trasporto aereo della
penisola attraverso, appunto, l’acquisizione della rete dei collegamenti in capo
ad Alitalia. Sarebbe il più grande tradimento dell’inconfutabile mandato dei
lavoratori Alitalia rappresentato da mesi di dura lotta e dal risultato
referendario, mandato che mai accetterebbe l’ennesimo ridimensionamento con
conseguenti licenziamenti e tagli, e soprattutto non accetterebbe, dopo i
governi di centrodestra e centrosinistra, un ulteriore diniego anche da parte
del governo del “cambiamento” a rendere di nuovo pubblica quella che dovrebbe
essere la compagnia di bandiera italiana. Anche un’eventuale partecipazione
pubblica al 51% non assicurerebbe l’autonomia del controllo operativo della
compagnia e di conseguenza del trasporto aereo nazionale, ma sarebbe funzionale
solo come garanzia per i papabili acquirenti e alleati che, non a caso,
pretendono da subito la governance sulle tratte. Abbiamo l’esempio portoghese
dove, il governo del “bloqueio à esquerda”, sceneggiando una
ri-nazionalizzazione della compagnia di bandiera Tap, ha solamente versato soldi
pubblici a garanzia dei privati, i quali continuano ad avere la totale
governance senza favorire nessuno sviluppo e senza nessun beneficio per i
lavoratori: continuano a rimanere esternalizzate tutte le attività di Handling e
i lavoratori Tap, insieme ai colleghi Iberia ed Alitalia, hanno i salari più
bassi d’Europa a confronto, oltre che con le compagnie di riferimento, anche con
alcune Low Cost.
L’assurdo si evidenzia ancora di più se andiamo a consultare i dati del traffico aereo in Italia: Assoaeroporti ci informa che nel 2018 negli aeroporti italiani sono “atterrati” 185 milioni di passeggeri con un aumento di circa il 6% rispetto al 2017 dove, a farla da padrone, sono stati l’aeroporto di Roma-Fiumicino (42 milioni) e Milano-Malpensa (25 milioni) i due Hub intercontinentali. In tutto ciò Alitalia trasporta non più di 25 milioni di passeggeri l’anno e rinunciare, per l’ennesima volta, ad un suo sviluppo, significherebbe lasciare campo aperto ai big dei cieli e alle Low Cost, proprio in un anno in cui, alcune di loro, mostrano una determinata sofferenza, in parte dettata dalle mobilitazioni dei piloti e assistenti di volo che con forza hanno rivendicato migliori condizioni, in parte dovute dalla questione Brexit che vede coinvolte le compagnie Low Cost britanniche Ryanair ed EasyJet ma anche il gruppo IAG di cui fanno parte la British Airways, le spagnole Iberia e Vueling, l’irlandese AirLingus e la Norwegian, le quali, nel dopo Brexit, in previsione degli accordi, potranno viaggiare liberamente all’interno dell’Europa solamente se la loro quota azionaria sia al 51% in possesso di una o più società EU, al contrario gli sarebbero concesse solo tratte dirette da/per Regno Unito ed EU.
L’assurdo si evidenzia ancora di più se andiamo a consultare i dati del traffico aereo in Italia: Assoaeroporti ci informa che nel 2018 negli aeroporti italiani sono “atterrati” 185 milioni di passeggeri con un aumento di circa il 6% rispetto al 2017 dove, a farla da padrone, sono stati l’aeroporto di Roma-Fiumicino (42 milioni) e Milano-Malpensa (25 milioni) i due Hub intercontinentali. In tutto ciò Alitalia trasporta non più di 25 milioni di passeggeri l’anno e rinunciare, per l’ennesima volta, ad un suo sviluppo, significherebbe lasciare campo aperto ai big dei cieli e alle Low Cost, proprio in un anno in cui, alcune di loro, mostrano una determinata sofferenza, in parte dettata dalle mobilitazioni dei piloti e assistenti di volo che con forza hanno rivendicato migliori condizioni, in parte dovute dalla questione Brexit che vede coinvolte le compagnie Low Cost britanniche Ryanair ed EasyJet ma anche il gruppo IAG di cui fanno parte la British Airways, le spagnole Iberia e Vueling, l’irlandese AirLingus e la Norwegian, le quali, nel dopo Brexit, in previsione degli accordi, potranno viaggiare liberamente all’interno dell’Europa solamente se la loro quota azionaria sia al 51% in possesso di una o più società EU, al contrario gli sarebbero concesse solo tratte dirette da/per Regno Unito ed EU.
L'"imperialismo dei cieli" e la necessità di una lotta
internazionaleCome appare evidente dai fatti e dall’analisi
fin qui evidenziati, il settore aereo, di sua natura, vive in un sistema
internazionale in cui la fanno da padrone i grandi capitali provenienti dagli
Stati più potenti del globo, una sorta di "imperialismo dei cieli" in cui Paesi
come Usa, Cina, Emirati Arabi, Francia, Germania, Gran Bretagna, controllano la
gran parte dei flussi e dei ricavi anche attraverso la guida delle più
importanti alleanze del settore (SkyTeam, OneWold, StarAlliance), in cui le
compagnie minori, con una dimensione cosiddetta regionale, svolgono solo un
servizio ancillare.
È chiaro che per opporsi a tutto ciò non potranno essere sufficienti, anche se importanti, le lotte intraprese singolarmente nei vari territori o aziende/compagnie, ma la strada da percorrere sarebbe tentare di unificare le rivendicazioni e le iniziative a partire da una base nazionale per poi estenderla a livello internazionale.......
È chiaro che per opporsi a tutto ciò non potranno essere sufficienti, anche se importanti, le lotte intraprese singolarmente nei vari territori o aziende/compagnie, ma la strada da percorrere sarebbe tentare di unificare le rivendicazioni e le iniziative a partire da una base nazionale per poi estenderla a livello internazionale.......
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