mercoledì 30 gennaio 2019

pc 30 gennaio - UN UTILE INCHIESTA NEI PAESI IN CUI E' GIA' IN ATTO IL BLUFF DEL REDDITO DI CITTADINANZA - GRAN BRETAGNA - 1° puntata - da Il Manifesto/Riccardo Ciccarelli

Ne pubblichiamo stralci
Gran Bretagna, lavoratori poveri in trappola - ricorda il mondo di «Io, Daniel Blake», il film di Ken Loach. 

Contro-storia delle politiche attive del lavoro. Nel Regno Unito lo Stato sociale è diventato un Workfare. L’Italia rischia la stessa torsione con la riforma di Cinque Stelle e Lega sul cosiddetto "reddito di cittadinanza", in realtà un sussidio in cambio del lavoro obbligatorio e sgravi alle imprese... 
In questa torsione del Welfare in Workfare è emersa la morale autoritaria del capitalismo contemporaneo: il beneficiario del Work to welfare (abbreviazione di Workfare) è obbligato a dimostrare di «meritare» l’accesso ai diritti sociali che perdono il carattere universale e diventano «premi» vincolati all’esecuzione di comportamenti predefiniti in base ai quali la burocrazia del collocamento definisce il grado di «occupabilità» di un soggetto. In tutti i paesi in cui questo è già avvenuto, è stata documentata la creazione della «trappola della povertà». Sempre più persone restano imprigionate in un circolo vizioso di bisogni non soddisfatti, carenza di proposte serie di lavoro e indebitamento. I progressivi tagli ai sussidi e alle tutele impediscono anche di pagare spese per sanità, riscaldamento e affitto. E si moltiplicano gli attacchi contro un presunto atteggiamento parassitario dei beneficiari dei sussidi.

NEL NOVEMBRE 2018 il rapporteur speciale dell’Onu sulla «povertà estrema» – Philip Alston della New York University – è stato inviato nel Regno Unito dove ha visitato Londra, Oxford, Cardiff, Bristol, Edimburgo, Glasgow, Belfast e l’Essex...
il racconto è impietosamente realistico e ricorda il mondo di «Io, Daniel Blake», il film di Ken Loach. Alston sostiene che la causa dell’esplosione della povertà non è addebitabile solo ai tagli di quasi 40 miliardi di sterline ai servizi sociali, ma anche a un’«ingegneria sociale radicale» delle prestazioni sociali gestite da una burocrazia sia pubblica che privata...
ALSTON RACCONTA di casi di persone disabili che, contro le prescrizioni dei medici, sono state obbligate a tornare al lavoro dai centri per l’impiego per evitare il blocco del sussidio. È la condizione estrema a cui possono essere obbligati i poveri che lavorano (working poors) da norme che, sia pure involontariamente, li intrappolano nella scelta tra il dovere al lavoro e l’ossessione paternalistica di chi sospetta che tra i beneficiari del sussidio si nascondano gli approfittatori. Quelli che in Italia, con un linguaggio ignobile, sono stati definiti i «fannulloni che stanno sul divano». La realtà raccontata da Alston è diversa: il sistema di inserimento e riqualificazione dei poveri ha agevolato la produzione di lavori precari. La causa non è la volontà dei poveri di non lavorare, ma la pressione che subiscono, e le sanzioni che affrontano, per accelerare la scelta di un lavoro qualsiasi, nel tempo più breve possibile. Il teorema salta quando non arrivano offerte di lavoro congrue, quando il lavoro termina e non se ne trova un altro, oppure quando il beneficiario dello «universal credit» è costretto per qualsiasi ragione a non lavorare. Emerge la dipendenza di queste persone dal sistema, mentre le sanzioni previste per educarle alla gestione della loro vita in termini «produttivi» diventano un ostacolo all’effettivo godimento dei benefici teoricamente previsti. Non si contano, poi, gli errori, e le vere ingiustizie, dovute da incomprensioni sull’orario dell’appuntamento tra il «tutor» e il povero impegnato in ospedale per la nascita di un figlio; errori tecnici nell’erogazione del sussidio. Sono contestati i ritardi di 6 settimane in media (che possono arrivare a 12) tra l’inizio di un percorso di riqualificazione e l’erogazione del sussidio. Ciò impone ai beneficiari di indebitarsi per sostenere l’acquisto di una lavatrice o di beni e servizi essenziali per i figli...
Senza arrivare alle minacce evocate in Italia – dove il governo ha promesso fino a sei anni di carcere ai beneficiari del «reddito» che fanno una dichiarazione falsa sul proprio patrimonio – anche nel Regno Unito le penalità sono severe. Per Alston questo sistema non risolve il problema della povertà, al contrario riesce a «instillare nelle persone la paura e il disgusto per il sistema». Ci sono stati anche processi contro il governo. Nel 2013, ad esempio, c’è stato un procedimento in cui è stato chiesto ai giudici di definire l’obbligo al lavoro come un «lavoro forzato». La Corte suprema britannica non ha riconosciuto una simile violazione, ma ha ammesso che il workfare rischia di violare l’articolo 4 della convenzione europea sui diritti umani. L’obbligo al lavoro, previsto anche in Italia, può essere «ingiusto», «oppressivo», un «disagio da evitare», «un po’ molesto e inutilmente angosciante»...

Anche in Inghilterra, come oggi in Italia, la trasformazione del Welfare in Workfare è stato giustificato dai governi con la necessità di aumentare l’occupazione. Dopo un ventennio di esperienze questa ipotesi è stata esclusa. Tra il 2013 e il 2018 i ricercatori del Welfare Conditionality Project hanno constatato la «mancanza di un cambiamento significativo nello status di occupazione per coloro che seguono questi programmi». Solo «in rare occasioni le persone li lasciano per lavori pagati».

I LAVORATORI POVERI sono forgiati in questo laboratorio politico e sociale. Come i poveri anche le persone che hanno un lavoro, ma non arrivano a fine mese, sono occupate con i contratti a zero ore (senza un orario garantito) o in altre forme di precariato. Le politiche di attivazione le intrappolano, mentre il lavoro è diventato quello di chi cerca nuovi lavori. L’obbligo al lavoro, in cambio di un sussidio, li ha trasformati da disoccupati poveri in poveri al lavoro.

1/ segue

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