Premessa:
chi scrive frequenta quasi abitualmente la curva, nelle zone centrali
(quelle dove o si canta, o si canta), e si è ritrovato in varie
occasioni a cantare contro squadre e tifoserie avversarie intonando
versi ostili, di quelli che prefigurano elementi come la scomparsa
(in senso lato), la puzza, la merda, stati del tutto arbitrari di
inferiorità e oscenità varie.
Non
ho mai fatto cori sui morti, né altri tifosi e nemmeno calciatori o
allenatori o presidenti, ma solo per una questione tutta personale:
non mi piacciono, probabilmente temo tanto la morte da rispettare chi
l’ha conosciuta, o forse finisco per immedesimarmi nei familiari
delle vittime. Anche se poi non è
del tutto vero: auguro spesso una certa fine a un ministro pieno di felpe e divise, non me ne vergogno e spero possa accadere presto. A lui come a tutti quelli che seminano odio, che abusano del proprio potere e della propria condizione per alimentare divisioni basate su questioni di etnia, di religione, di razza.
del tutto vero: auguro spesso una certa fine a un ministro pieno di felpe e divise, non me ne vergogno e spero possa accadere presto. A lui come a tutti quelli che seminano odio, che abusano del proprio potere e della propria condizione per alimentare divisioni basate su questioni di etnia, di religione, di razza.
I
razzisti, appunto. Sono partito da qua, stamattina, quando ho pensato
di buttare già qualche riga. Due, in ordine di tempo, gli input più
urgenti: il video (dal movente pure apprezzabile) dell’Inter, che
sui suoi profili social ha trasformato il “Buu” razzista in un
messaggio di «unità», ossia “Brothers Universally United”; e
poi un filmato postato dal delatorio ed inutile account @romafaschifo
(e visto solo perché qualcuno l’aveva retwittato) in cui si
ascoltavano nitidamente alcuni “tifosi della Lazio” sillabare
ignobili cazzate su Anna Frank e scimmiottare il passo dell’oca
delle marce militari naziste.
Per
amore della chiarezza, sarò di nuovo netto: io i seguaci del
nazifascismo li vorrei morti. È inutile girarci attorno. Potremmo
iniziare ora una discussione sul comunismo, le dittature di
“sinistra” e tutte quelle altre cazzate che deve sorbirsi una
persona quando posta una foto di Mussolini appeso, o ha l’ardire di
celebrare il 25 aprile e la lotta partigiana impegnata ad estirpare
dalla terra la radice nera della storia. Non ho però tutte le
competenze richieste, o semplicemente non mi interessa. Schifo il
dio-patria-famiglia, schifo il manganello del padrone, schifo chi
colonizza, schifo l’idea della razza.
Torniamo
sempre lì, ai razzisti. Ultimamente nel mondo del calcio se ne sta
parlando più del solito. Episodi ce ne sono stati tantissimi
nell’ultimo ventennio (non vado troppo indietro per non creare
confusione, restiamo al pallone compresso tra pay-tv, giornali in
crisi diventati spesso siti sportivi di merda e social network),
dalle tanti reazioni di Balotelli al famoso tentativo di Marco Andrè
Zoro che provò ad interrompere un Messina-Inter del novembre 2005
per gli ululati della curva avversaria.
La
scena si è ripetuta di recente allo stadio Meazza di Milano, con
protagonisti nuovamente degli spettatori interisti, anche se in
questo caso è stato il cartellino rosso ricevuto in partita dalla
vittima degli insulti, Kalidou Koulibaly del Napoli, a scatenare le
polemiche, in un cortocircuito di cause ed effetti dove la sempre
colpevole narrazione sportiva mainstream ha avuto vita facile nel
mischiare il razzismo con l’espulsione con il risultato della
partita con i cori anti-napoletani della curva e con gli scontri poco
lontano da San Siro in cui ha perso la vita l’ultrà varesino D.
Belardinelli, peraltro capo di un gruppo (Blood and Honour) legato a
una corrente sovranazionale di aperto stampo neonazista.
E
ripartiamo allora sempre dallo stesso punto, come l’auto che
arranca in salita. “Gli stadi sono culle di ideali dell’estrema
destra”, “tra gli ultras è pieno di fascisti e di razzisti”.
Wow! Non sarà che forse è la nostra società ad essere piena di
merda? Sto recitando un cumulo di ovvietà, eppure non le percepisco
come tali. Un caro amico, una delle persone più influenti nella mia
formazione in curva, tanto tempo fa mi aprì gli occhi su quanto un
certo tipo di mondo nostro, che definirei “antifascista” se mi
concedete di non usare il vago termine “sinistra”, avesse
compiuto il colpevole errore tattico di abbandonare i settori
popolari degli stadi; anzi, di abbandonare proprio gli stadi, di
giudicare quello stile di vita una parentesi per giovani teppisti e
di ritenere il calcio in sé un contenitore ormai svuotato dal
business. Come se non fosse stato sempre così; come se, al di là di
ovvie differenze dettate dai tempi, non fossero stati gli affari il
fulcro dello sviluppo globale inarrestabile del circo pallonaro.
Provo
a mettere un punto, dunque, se non vi siete ancora arresi a questo
sproloquio disorganizzato. O meglio, metto dei punti di domanda.
Ci
sono putridi fan del nazifascismo nelle curve di Inter e
Lazio? Certamente
sì.
Sono
la maggioranza? Probabilmente
(sarebbe più giusto aspettare un censimento, ma vabbè…)
Vale
lo stesso per altre squadre italiane? Affermativo
(molte curve sbandierano ancora il vetusto “ultras no politica”,
ma sembra più una rivisitazione del grillino “oltre la destra e la
sinistra”).
La
curva è un terreno fruttuoso per le associazioni di estrema
destra? Ovviamente,
come ogni forma ricreativa o gruppo associativo dietro cui veicolare
altri messaggi (o vogliamo dimenticarci quanta fascisteria accettata
si nasconde dietro presunte sigle animaliste o fantomatiche cause
solidali…)
Esistono
tifoserie più razziste di altre? Forse
sì, ma è proprio il focus su questa o quella tifoseria che storpia
il dibattito e lo riduce a una ridicola di lista di buoni e cattivi
(con solo cattivi). Abbiamo razzisti conclamati nella cosiddetta
classe dirigente, il senatore leghista Calderoli è stato appena
condannato per aver definito «orango» l’avversaria politica
Kyenge e non a un solo giornalista è mica passato per il cervello di
definire la Lega un partito razzista da chiudere prima possibile (se
Calderoli fosse stato beccato a dire quella cosa in uno stadio, il
daspo non gliel’avrebbero tolto nessuno).
Gli
stadi sono una zona franca? Neanche
per il cazzo, perdonate il francesismo. Al contrario, sono i luoghi
in cui ai gesti vengono applicate (e spesso testate per la prima
volta) unità di misura originali e singolari rispetto alla realtà
quotidiana.
Si
cantano cori schifosi negli stadi? Evidentemente
sì, fanno parte di una certa cultura dello sfottò da tifo e della
rappresentazione della rivalità che nel frattempo si è connotata di
nuove sfumature (non sta a me dire se peggiori o migliori di quelle
passate) esaltate dal fatto che, mentre prima un coro goliardico
restava nel suo recinto di brutale violenza verbale figlia del
contesto, adesso trova i media subito pronti a dargli quella eco da
indignazione che annebbia la vista e gli regala fascino inatteso.
Volete
un esempio pratico? Detto
fatto: prendete il «Serve una pulizia di massa» pronunciato da
Matteo Salvini il 18 febbraio 2017, stampatelo su uno striscione di
qualsiasi curva di Serie A e quella curva due ore dopo si ritrova
chiusa. Prima dagli editoriali delle nostre grandi penne che dalle
decisioni del giudice sportivo.
Perché
il problema vero non sono i cori da stadio, appunto. Il problema è
chi sposa o solletica il fasciorazzismo. Koulibaly o quasi altro
giocatore di pelle nera, olivastra, gialla o altra che sia ha tutto
il diritto di incazzarsi, fare suo il pallone e abbandonare il campo
se si è rotto di correre in mezzo ad ululati e becerume vario, e
così i suoi compagni di team. Meno mi convince la riduzione
dell’antirazzismo alla difesa di una certa squadra o alla chiusura
degli stadi, altrimenti avremmo trovato la cura agli agguati razzisti
nelle nostre strade, alla legittimazione delle offese e degli auguri
di morte ai migranti che lasciare in mezzo al mare perché qualche
punto percentuale di consenso. E perché in politica, si sa,
l’antirazzismo è tema di scarso appeal per l’apparato mediatico
ed opinionistico.
Questa
è una difesa cieca e a spada tratta degli ultrà? No,
perché in un mondo adulto ognuno prende la responsabilità di ciò
che fa. È soltanto il tentativo di scandagliare col mestolo nella
minestra che stanno cucinando tv, radio, giornali e siti, per evitare
che tutto si attacchi in unica sbobba in cui urlare «Lavali col
fuoco» e «Milano in fiamme» è ritenuto più grave che vietare lo
stendardo con il volto di un ragazzo ucciso dalla polizia (ciao
Federico); per evidenziare che una rissa che sfocia in uccisione è
un crimine odioso sia che lo si commetta nei pressi di uno stadio e
sia nei pressi di una campagna abbandonata e occupata da gente in
cerca di fortuna; per riaffermare che la violenza è nella società,
nelle dinamiche e nei rapporti di forza quotidiani, e riempire una
curva con dei bambini per una domenica non vi assolverà da alcun
peccato, visto che quei bambini cresceranno e diventeranno
esattamente ciò che questo paese è capace di mostrare ora; per
ricordarsi che non esistono il fascismo e il razzismo da stadio,
esistono i fascisti e i razzisti da combattere ogni giorno.
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