Di seguito pubblichiamo un'importante intervista a Caterina Calia, tratta da Contropiano:
Non
ci voleva uno stratega per prevedere che, a fronte della legittima
paura per la preoccupazione di contagiarsi e considerando il cronico
sovraffollamento delle carceri italiane, con i relativi problemi di
vivibilità, si sarebbero prodotte tensioni e proteste da parte della
popolazione detenuta. Che giudizio dai dell’operato – in materia
di previsione e di predisposizione di serie misure a tutela della
salute – del Ministero di Grazia e Giustizia?
Il
giudizio non può che essere negativo. Il pericolo legato alla
diffusione del virus si è innestato su condizioni di fatiscenza,
sovraffollamento, carenza di presìdi sanitari degli istituti
penitenziari. Condizioni note anche a chi il carcere lo conosce
attraverso i comuni mezzi di informazione e che quindi non potevano
cogliere di sorpresa chi istituzionalmente è chiamato ad occuparsi
della loro gestione.
Il
ministro Bonafede conosce bene le condizioni da terzo mondo in cui
versano le patrie galere, ma fin dal suo insediamento ha gareggiato
con l’ex ministro dell’interno Salvini nel mostrare il volto più
retrivo dello Stato, facendosi addirittura fotografare con sorrisi a
trentadue denti con la preda di turno.
Atteggiamenti
che rappresentano appieno il suo pensiero e la considerazione che ha
dei poveri cristi che abitano le galere, nient’altro che animali da
esibire come trofei di un safari perverso, corpi privi di diritti che
devono marcire in galera, nient’altro che oggetti al pari delle
suppellettili (letti, materassi e armadietti) che risalgono ai tempi
della riforma penitenziaria del 1975 e che i detenuti, spinti da
paura e disperazione per il timore del contagio, hanno distrutto nel
vano tentativo di far sentire la loro voce.
Il
suo pensiero e le sue certezze circa la necessità di utilizzare il
pugno di ferro non sono state scosse nemmeno dal coronavirus che anzi
potrebbe rivelarsi un comodo alleato per liberare posti per i futuri
ingressi che, a causa del generale peggioramento delle condizioni
economico sociali, sono destinati ad aumentare esponenzialmente.
In
questo quadro la risposta alla tua domanda è presto data: pur
prevedendo un esito che potrebbe essere addirittura catastrofico in
termini di perdita di vite il Ministero della giustizia non ha fatto
assolutamente nulla per tutelare la salute dei prigionieri.
Le
misure di isolamento imposte alla popolazione: dall’isolamento in
casa, alla distanza sociale, al divieto di qualsiasi “assembramento”,
al blocco di qualsiasi attività collettiva, di lavoro, di studio,
ecc., diventano nel caso della popolazione detenuta, una dimensione
ironica e surreale, se non fosse invece drammaticamente tragica.
Le
uniche misure adottate dal Dipartimento dell’amministrazione
penitenziaria hanno il sapore della beffa: blocco dei colloqui con i
familiari, blocco di tutte le attività trattamentali, dove esistenti
(scuola, incontri con educatori e volontari autorizzati, sportelli
giuridici gestiti da associazioni esterne come Antigone, Arci ecc.,
blocco dei colloqui anche con gli avvocati, garantiti solo per casi
di effettiva urgenza e sostituiti con colloqui telefonici e solo in
pochi istituti, con videochiamate).
In
pratica una vera e propria segregazione rispetto al mondo esterno e
al contempo una promiscuità spaventosa all’interno delle celle, in
sei o anche otto persone in pochi metri quadrati con un unico cesso
alla turca, in fila in cinquanta e più per una doccia e in un numero
ancora maggiore negli angusti cortili per l’aria, laddove questa
viene almeno in parte garantita.
Finora,
a quasi due mesi dall’inizio dell’emergenza sanitaria non c’è
stata alcuna distribuzione, adeguata alle necessità e al numero dei
ristretti, né di mascherine né di disinfettanti e a dire il vero
non vengono garantite nemmeno le forniture ordinarie di saponi e
altri materiali per l’igiene personale ed ambientale che, in
tantissimi, non possono provvedere ad acquistare con le risorse
personali. In concreto le condizioni che i detenuti sono costretti a
subire somigliano sempre più a quelle del bestiame rinchiuso negli
allevamenti intensivi con un totale e sprezzante azzeramento dei
diritti.
La
tardiva ed apparente misura deflattiva che il governo ha posto in
campo a fronte di un sovraffollamento di oltre il 125%, non ha
determinato alcun alleggerimento della grave situazione esistente. La
detenzione domiciliare prevista dall’art. 123 del decreto n.
18/2020, cosiddetto “cura italia”, non è che un doppione di una
legge già esistente dal 2010, la cosiddetta 199.
In
entrambi i casi è prevista la possibilità di espiare gli
ultimi 18 mesi
nella propria abitazione, ma solo per alcune tipologie di reati (vale
a dire che restano esclusi da entrambe le previsioni i reati di cui
all’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, ossia i cosiddetti
reati “ostativi”, sia di prima che di seconda fascia, quindi non
solo i reati più gravi come l’associazione mafiosa, il sequestro
di persona a scopo di estorsione, le associazioni per finalità di
terrorismo o finalizzate allo spaccio di sostanze stupefacenti, ma
anche tantissime altre tipologie di reato come la rapina aggravata,
l’estorsione, l’associazione a delinquere semplice e addirittura
il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, per citarne solo
alcune).
La
misura prevista dall’art. 123, al pari di quella prevista dalla
Legge 199/2010 non è automatica: è il detenuto a dover presentare
la richiesta e ciò mal si concilia con la necessità di fronteggiare
la grave emergenza sanitaria in tempi rapidi e contingentati; la
decisione – sempre al pari della 199 – è demandata ai magistrati
di sorveglianza territorialmente competenti, che non hanno un termine
per pronunciarsi e, soprattutto, decidono sulla base dei loro
convincimenti ideologico-culturali; quindi situazioni simili vengono
spesso decise in modi totalmente difformi.
L’unica
misura, asseritamente deflattiva, adottata dal decreto n. 18,
peraltro emessa con colpevole ritardo solo il 17 marzo, è
subordinata – per le pene da espiare superiori ai sei mesi –
all’applicazione dei braccialetti elettronici, la cui carenza
impedisce nei fatti l’uscita dal carcere in tempi rapidi. Perciò
l’unico provvedimento dettato per l’emergenza sanitaria non
allarga le maglie della 199, ma le
restringe ulteriormente,
rivelandosi per quello che è: un guscio vuoto, un provvedimento del
tutto apparente.
La
sbandierata uscita di alcune migliaia di detenuti non è stata
determinata dalla misura adottata nel DPCM, ma dalla concessione, sui
istanza degli avvocati, di arresti domiciliari a ristretti in attesa
di giudizio per lo più in relazione a imputazioni di lieve entità
(i detenuti in attesa di giudizio erano a marzo oltre 20 mila con una
media di circa il 34% a fronte di una media europea di circa il 22%)
e dai provvedimenti assunti dalla magistratura di sorveglianza
attraverso l’utilizzo della 199, dell’affidamento provvisorio e
in misura ridottissima del differimento della pena – sempre nella
forma della detenzione domiciliare – per detenuti affetti da
gravissime patologie.
Nel
conto delle scarcerazioni sono stati inseriti anche i detenuti già
ammessi al regime di semilibertà, che con il successivo art. 124 del
decreto sono stati autorizzati a permanere la notte nelle proprie
abitazioni (fino a giugno), anziché rientrare la sera in carcere. Le
centinaia di detenuti ammessi da tempo ai permessi premio e al lavoro
all’esterno rimangono invece rinchiusi in carcere, anche se la
logica ed il buon senso avrebbe dovuto indurre all’adozione di un
analogo provvedimento di provvisoria detenzione domiciliare.
In
ogni caso l’uscita di poche migliaia di detenuti, anche se
importante per ogni singola persona, non incide in alcun modo nella
condizione di vita di chi rimane recluso.
Per
alleggerire concretamente le condizioni di vivibilità in carcere e
per affrontare in parziale sicurezza la pandemia in atto dovrebbero
uscire dal carcere almeno 30 mila persone, così da ridurre in modo
importante la presenza dei detenuti dentro le celle e consentire, se
non un vero distanziamento sociale, una minore promiscuità che possa
attenuare i rischi di contagio.
Di
fronte alla sprezzante indifferenza mostrata dal Ministero della
Giustizia e dal governo le proteste nelle carceri sono destinate a
montare, non perché ci sia dietro una regia occulta ed esterna
legata ad organizzazioni criminose o a gruppi di estremisti, come
anche è stato detto, ma perché ci sono condizioni di assoluta
invivibilità e cresce ogni giorno di più il terrore di morire come
topi in trappola per l’aumento quotidiano del numero dei
contagiati, sia tra i prigionieri che tra il personale di polizia
penitenziaria, mentre si contano i primi morti.
In
assenza di provvedimenti urgenti e reali quello che è successo e sta
succedendo nelle RSA è purtroppo drammaticamente destinato a
ripetersi ed amplificarsi nelle carceri.
E’
evidente che la risposta dello Stato a tali proteste è stata dura e
senza nessuna possibile forma di ascolto e mediazione sociale. A
distanza di settimane è ancora impreciso il numero dei detenuti
morti (in gran parte cittadini extracomunitari) e centinaia sono
stati i feriti prodotti dall’intervento delle forze dell’ordine
per “ristabilire l’ordine”. Inoltre esistono denunce
circostanziate di numerosi pestaggi collettivi avvenuti in quasi
tutte le carceri, con il solito corollario di trasferimenti punitivi,
i quali, tranne rari casi, si sono consumati senza che i Giudici di
Sorveglianza, le Procure o i vari Garanti dei Detenuti potessero
impedirli o sanzionare i responsabili. Ritieni che gli Avvocati
avrebbero potuto fare di più per impedire questo ennesimo sfregio ai
diritti sociali?
La
risposta del guardasigilli Bonafede e del DAP alle legittime paure,
proteste e rivolte nelle carceri è stata di una violenza inaudita
che rimanda a concezioni ed ideologie proprie del ‘giustizialismo’
di marca fascista.
Il
numero dei morti nel corso della protesta dovrebbe essere di 14, se
non addirittura di 15 prigionieri (ancora, a distanza di 40 giorni
non si conosce nemmeno il numero esatto): 5 nel carcere di Modena e 4
negli istituti dove sono stati trasferiti nottetempo (Verona, Parma,
Alessandria, Ascoli Piceno), tre nel carcere di Rieti e uno il giorno
dopo in ospedale, dove in sette erano stati ricoverati in gravi
condizioni e di cui nient’altro si è saputo; uno nel carcere di
Bologna e un altro il giorno dopo in ospedale.
Queste
morti sono state etichettate come avvenute per overdose da farmaci:
metadone a Modena e Rieti, cocktail da farmaci a Bologna,
asseritamente presi e consumati dai detenuti nelle infermerie.
Una
versione che lascia aperti molti dubbi e interrogativi anche perché
fornita a poche ore dalle rivolte, prima che venisse effettuata una
sola autopsia. I detenuti morti avrebbero dovuto essere tutti tossici
(e sembra che in molti non lo fossero!) e talmente disperati ed
ignari delle conseguenze dell’assunzione di farmaci e metadone.
Per
non parlare dell’inverosimiglianza che in un numero così elevato
anziché pensare ad evadere o mettersi in salvo abbiano deciso di
suicidarsi allo stesso modo. Finora non si è parlato di una sola
immagine ripresa dalle telecamere che sono ovunque all’interno dei
reparti.
E’
comunque criminale il fatto che 4 dei detenuti siano stati
trasportati in gravissime condizioni e siano morti nel corso dei
trasferimenti punitivi verso altri carceri, invece che verso centri
di Pronto Soccorso o punti di assistenza sanitaria.
Naturalmente
agli esami autoptici non hanno partecipato consulenti di parte, e del
resto non poteva essere altrimenti visto che la gran parte dei
prigionieri deceduti erano extracomunitari senza nessun familiare o
ufficio diplomatico che abbia potuto interessarsi alla loro sorte.
Il
Garante Nazionale, parecchi giorni dopo i fatti, ha annunciato di
essersi costituito come persona offesa nei procedimenti aperti
d’ufficio dalle Procure e di aver nominato un proprio consulente
per la verifica degli esiti
autoptici,
di fatto confermando che nessun consulente esterno ha partecipato
direttamente alle autopsie.
Ci
sono testimonianze dirette di estesi e feroci pestaggi dei detenuti,
sia nelle carceri dove si è svolta la protesta, sia nelle carceri
dove sono stati trasferiti per punizione. Stiamo aspettando che le
Procure, gli uffici di sorveglianza e gli uffici dei garanti avviino
e portino a termine le loro inchieste in merito, prima o poi qualcosa
dovranno fare o almeno dire… forse.
Le
misure di limitazione ai colloqui dei detenuti, sia con le famiglie
che con i legali (ridotte, se non annullate, dalle misure disposte
dal DAP o dalle direzioni), hanno reso difficile il loro intervento.
Per 15-20 giorni né i familiari né gli avvocati sono riusciti a
sapere dove moltissimi detenuti erano stati trasferiti. E’ un
quadro che solo a pezzi si comincia ora a ricostruire.
Sia
l’Unione delle camere penali che il Consiglio nazionale forense
hanno denunciato le illegalità perpetrate, ma dovranno essere
portate avanti forme di protesta adeguate ed efficaci per far
emergere quanto di infame ed illegale stanno facendo i funzionari ed
i dirigenti del DAP, sotto la responsabilità del ministro (nonché,
purtroppo, avvocato) Bonafede!
In
particolare penso che vada fortemente sollecitata la costituzione di
una Commissione d’Inchiesta in merito alle morti dei detenuti e a
quanto avvenuto immediatamente dopo le rivolte e nei giorni
successivi.
Penso
infine che gli avvocati dovranno assumersi maggiori responsabilità
costruendo una rete che consenta di acquisire dettagliate
informazioni sulla situazione di tutti i detenuti; una organizzazione
con un minimo di struttura e di coordinamento tra le varie regioni e
città, così da poter garantire, anche attraverso un sistema di
collaborazione e di deleghe, la propria funzione di garanti dei
diritti inalienabili dettati dalla Costituzione.
Sarebbe
auspicabile anche una presenza e una vigilanza nei presidi che
sporadicamente gruppi di familiari e di solidali cercano di
organizzare sotto le carceri, “violando” le misure governative!
Nel
corso delle proteste dei detenuti è stata avanzata la parola
d’ordine dell’Amnistia/Indulto come strumento concreto di
depenalizzazione e di decarcerizzazione attiva nei confronti di una
amministrazione della giustizia sempre più imperniata sulla
generalizzazione di leggi speciali e di decreti securitari.
Un
obiettivo difficile da affermare considerato il pesante clima sociale
in auge nella società dove la tendenza prevalente nell’agenda
politica ufficiale vira decisamente verso forme dispotiche ed
autoritarie della governance. Cosa occorrerebbe fare per costruire le
condizioni culturali e politiche per far crescere questo obiettivo di
Libertà e Giustizia nell’opinione pubblica?
Il
pesante clima sociale che tu richiami si compone sostanzialmente di
una tendenza governativa nella gestione delle carceri (ormai
pluridecennale) orientata ad una politica di sicurezza interna che ha
tra i suoi capisaldi il trattamento differenziato, il binomio
premio-punizione e il 41bis come apice di un sistema trattamentale
punitivo. Una gestione portata avanti dai governi degli ultimi
vent’anni e che annovera in personaggi come Salvini e Bonafede i
più entusiasti ideologi e gestori.
La
politica dell’esclusione sociale di intere fasce di popolazione,
che tutti i governi hanno portato avanti in questi ultimi anni, ha
avuto al centro la fake
new
dell’“allarme sociale”, il cui unico obiettivo in realtà è
quello di distrarre l’attenzione dalla catastrofe economica e
sociale che la crisi ha scatenato anche nei settori di classe,
piccoli imprenditori e ceti semi-parassitari, che tali giustizialisti
intendono rappresentare.
Ora
che questa emergenza fa giustizia della più bieca propaganda degli
ultimi anni, mettendo in luce le gravi responsabilità di questo
sistema di potere, dallo stato in cui è stata ridotta la sanità
alle carceri usate come discariche sociali, dobbiamo avanzare con
forza richieste di decarcerizzazione per fronteggiare adeguatamente
la immediata emergenza sanitaria all’interno delle carceri.
Molti
Stati europei hanno adottato importanti misure per decongestionare le
carceri, ma anche stati come Iran e Turchia hanno liberato
immediatamente decine e decine di migliaia di detenuti, come misura
immediata per alleggerire e gestire la situazione sanitaria e quella
sociale.
Solo
l’Italia, il paese dove la pandemia ha provocato il più alto
numero di vittime rispetto al numero degli abitanti, non ha adottato
alcun concreto provvedimento per salvare le vite delle persone che
custodisce, barricandosi dietro le solite politiche securitarie.
In
assenza di provvedimenti realmente incisivi le carceri rischiano di
trasformarsi in lazzaretti-focolai di infezione tra i detenuti, i
loro familiari – quando saranno consentiti i colloqui – ed il
personale carcerario. Ogni momento perso nell’apertura e sviluppo
di questa discussione non può far altro che aggravare
quotidianamente la situazione e le sue pericolose conseguenze.
Il
numero complessivo dei detenuti è pari a quello di una città di
medie dimensioni, ad oggi di circa 58 mila: 9.500 detenuti in
custodia cautelare sono ancora in attesa della sentenza di primo
grado; 17.000 hanno condanne residue sotto i 24 mesi; 2.700 sono
donne; 20.000 sono provenienti da altri paesi e sono detenuti in gran
parte per reati di spaccio di sostanze stupefacenti o altri piccoli
reati legati alle necessità di sopravvivenza.
La
parola d’ordine dell’indulto\amnistia è l’unica che per la sua
velocità ed immediatezza potrebbe costituire una risposta adeguata
dal punto di vista della Costituzione e della decenza umana e sarebbe
l’unica misura immediatamente efficace dal punto di vista
dell’emergenza.
Tuttavia,
concordando sul fatto che questa strada non sarà priva di ostacoli,
visto il quadro politico generale, andrebbero di pari passo avanzate
altre richieste come l’applicazione della detenzione domiciliare
per tutti quelli che devono espiare pene inferiori a tre anni senza
esclusioni legate alla tipologia di reati. Ossia per tutti i detenuti
affetti da gravi patologie o di età superiore ai 70 anni; per tutti
quelli che sono in carcere da oltre 30 anni, perché una detenzione
di tale portata – oltre ad essere indegna in un paese “civile”
– ha sicuramente inciso sulle condizioni generali di vita dei
prigionieri; per tutti quelli che hanno già scontato 2/3 della pena
inflitta.
Andrebbero
infine individuate soluzioni alternative per i tanti che pur potendo
accedere ai benefici già esistenti rimangono in carcere perché
troppo poveri per avere una casa.
Negli
anni settanta, ed anche dopo, l’universo/carcere è stato
analizzato ed inchiestato da parte del movimento di classe e dalle
organizzazioni del conflitto politico e sociale. Tale lavoro
contribuì – assieme allo sviluppo generale del conflitto sociale
nella società – a far affermare nuovi diritti e forme di
alternativa alla detenzione. Con l’affermarsi del liberismo a larga
scala e di una conseguente “cultura manettara” le carceri sono
tornate ad essere un buco nero e poco osservato.
Tu
che, per motivi professionali, frequenti questo universo/carcere puoi
dirci come è cambiata la composizione sociale di chi è ristretto in
simili luoghi e se – naturalmente in valori statistici – riflette
i moderni processi di ristrutturazione economica e sociale in atto
nei territori e nel complesso della società?
I
processi di liberalizzazione totale dell’organizzazione e del
mercato del lavoro hanno determinato una parcellizzazione del
processo produttivo, una frammentazione della forza-lavoro, una
precarizzazione estrema delle condizioni di lavoro e di vita di tutti
i lavoratori, ma in massima parte della forza-lavoro giovanile. Dalle
nuove fabbriche informatizzate, ai grandi centri della distribuzione
computerizzata, al precariato del piccolo e piccolissimo commercio,
fino ai citatissimi riders.
E’
un proletariato che in parte si trova sullo spartiacque tra lavoro
periodico e precario e forme di redditualità extralegale. Un altro
riflesso del liberismo della nostra epoca è stato l’arrivo di
forza-lavoro immigrata di origine comunitaria ed extracomunitaria, e
la sua introduzione nel mercato del lavoro in filiere produttive
ultraprecarie, quando non semplicemente semischiavistiche.
La
gran parte dei detenuti si trovano in carcere perché hanno commesso
reati finalizzati a garantirsi i minimi mezzi di sussistenza, un
terzo dei detenuti (circa 20 mila) proviene da altri paesi e non ha
alcun sostegno economico dall’esterno, quindi possiamo immaginare
quale sia la situazione che vivono.
La
composizione sociale ha subito notevoli modificazioni rispetto a
40-50 anni fa che vedeva una presenza massiccia di detenuti del ciclo
di lotte di quegli anni ed una grossa politicizzazione di gran parte
dei settori extralegali.
Ma,
mantenendo un minimo livello di analisi strutturale e di inchiesta
sociale, si può, io credo, poter dire che anche l’attuale
composizione dei prigionieri rappresenta, in gran parte, una vera e
propria frazione di proletariato disoccupato escluso dal ciclo
produttivo, di precari e schiavizzati senza diritti.
La
crisi economica, politica, sociale e sanitaria che stiamo vivendo e
che vivremo nei prossimi anni è destinata a scaricarsi prima di
tutto sugli ultimi e non a caso l’unica risposta che viene dalle
istituzioni è quella di nuove carceri, pacchetti sicurezza e uno
stato penale sempre più forcaiolo e pervasivo che oggi approfitta
persino della crisi sanitaria per attaccare i diritti e le libertà
di tutti.
Alla
fine degli anni ‘60 e gli inizi degli anni ’70 del secolo scorso
le lotte nelle carceri misero a nudo la natura di classe delle
istituzioni totali. Da prima partirono le rivendicazioni per parziali
miglioramenti delle condizioni di vita per poi arrivare a vere
proprie rivolte che scossero nel profondo l’intero sistema di
reclusione.
Queste
rivolte si proiettarono oltre le mura coniugandosi con le lotte che
si sviluppavano all’esterno e viceversa, portando ad un netto
miglioramento delle condizioni di vita ed alla approvazione della
riforma penitenziaria del ’75, che li riconosceva come soggetti che
– pur privati della libertà – erano titolari di diritti
incomprimibili ed insopprimibili, tra questi anche il fondamentale
diritto alla salute.
La
riforma del 1975 è stata ridotta a carta straccia negli ultimi 20-30
anni così come il timido tentativo di riforma del ministro Orlando,
attaccata perché in controtendenza rispetto alle imperanti politiche
giustizialiste. Oggi come allora il grido di aiuto dei detenuti ha
iniziato a squarciare le mura dell’invisibilità e non può essere
fatto cadere nel vuoto.
La
questione non sarà solo quella di chiedere il rispetto dei loro
diritti costituzionali così come non è solo quella della
solidarietà umana verso persone in difficoltà. La questione è
quella di solidarizzare con le loro lotte e di valorizzarle come
momento di unità di classe, di inserirli nel dibattito e nelle lotte
che immagino ci attendano con enorme forza nel prossimo futuro.
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