Oggi,
21 Aprile, celebreremo a modo nostro l’anniversario della
Liberazione di Bologna. Non in “telepresenza”, ma nello spazio
fisico. Niente “convocazioni”, ci muoveremo da soli, prendendoci
in prima persona le responsabilità del caso. Vogliamo fare qualcosa
anche il 25 Aprile. A tale proposito, ecco alcune riflessioni.
Pochi
giorni fa, a Torino, due auto e due jeep dei carabinieri hanno
inscenato una
vera e propria retata per prelevare, perquisire e multare un
militante del Centro Sociale Gabrio, reo di aver distribuito un
volantino davanti a un supermercato, nell’ambito della raccolta di
beni di prima necessità SOSpesa,
organizzata per aiutare chi è in difficoltà economica. L’altroieri,
sempre a Torino, l’incrocio tra corso Giulio Cesare e Corso Brescia
è stato occupato da uno squadrone misto di forze dell’ordine ed
esercito, decine di divise, allo scopo di accerchiare e portare via
di peso quattro compagne/i, colpevoli di aver contestato il
trattamento inflitto a due giovani immigrati. Tutt’intorno, per
strada e alle finestre, molte persone protestavano per l’eccessivo
dispiegamento di forze e la tracotanza degli uomini in divisa. Media
e politici hanno subito giustificato l’operato di agenti e soldati
dicendo che a monte c’era lo scippo di una collanina. Come se,
partendo da un aneddoto di microcriminalità individuale, fosse
accettabile una simile escalation.
Toh,
la repressione!
Questi
non sono exploit isolati, né la repressione colpisce solo immigrati
o militanti. La decretazione d’emergenza e l’epidemia di
ordinanze e divieti – sovente assurdi – hanno dato alle forze
dell’ordine molta più discrezionalità di quanta già ne avessero
(ed era già molta). A farne le spese direttamente, in queste
settimane, sono state migliaia di persone. Questa,
a titolo di esempio, è una rassegna di
episodi significativi accaduti in Sardegna nei giorni scorsi. Un’altra rassegna si può leggere su Osservatorio Repressione. Noi stessi, qui su Giap, riceviamo testimonianze da settimane, basta leggere queste discussioni: 1, 2, 3 e 4. Dopo una lunga fase in cui a occuparcene eravamo in pochissimi, ora persino alcuni media mainstream sembrano avere scoperto gli abusi in divisa in tempi di lockdown. Addirittura Repubblica!
episodi significativi accaduti in Sardegna nei giorni scorsi. Un’altra rassegna si può leggere su Osservatorio Repressione. Noi stessi, qui su Giap, riceviamo testimonianze da settimane, basta leggere queste discussioni: 1, 2, 3 e 4. Dopo una lunga fase in cui a occuparcene eravamo in pochissimi, ora persino alcuni media mainstream sembrano avere scoperto gli abusi in divisa in tempi di lockdown. Addirittura Repubblica!
Negli
ultimi due mesi, quel giornale ha fatto di tutto per seminare
terrore, paranoia e leggende metropolitane. Al volo, ricordiamo solo
«il
virus è nell’aria», le foto di resse
che non c’erano, i titoli a
cinque colonne che descrivevano già situazioni di due settimane
dopo, col risultato di orientare scelte politiche, divieti,
comportamenti… Due mesi trascorsi a difendere anche gli aspetti più
inaccettabili e vessatori della politica del lockdown, a indicare
capri espiatori e tormentare presunti «furbetti» in modi che per
rozzezza avevano poco da invidiare alle caccie all’uomo condotte da
Barbara
d’Urso,
di cui erano solo una versione più appetibile al pubblico di
“centrosinistra”.
Dopo
due mesi così, a un certo punto Repubblica comincia a parlare di
«clima pesante», e ti piazza pure un
articolo contro gli abusi compiuti dalle fdo, con tanto di
attacco allo «stato sceriffo». Diffonde anche un
video dove un parroco del cremonese, don Lino
Viola,
si oppone con fermezza e dignità all’interruzione manu
militari
della
messa che sta celebrando di fronte a pochissimi fedeli, tutti con
mascherine e ben più che a distanza di sicurezza. Naturalmente non
si va un millimetro oltre la narrazione delle «mele marce»: questi
episodi sarebbero da imputare a membri troppo zelanti o singolarmente
«spietati» di PS, polizie locali e Arma. Come se non fosse stato il
clima di timor panico creato dai media a rendere possibili questi
abusi. Come se la discrezionalità di operare in quei modi non
l’avesse data alle forze dell’ordine la stessa decretazione
d’emergenza di cui Repubblica è stata punta di lancia mediatica.
Ora si sono accorti che il clima è cambiato e, dopo il cerchio,
danno qualche colpo anche alla botte, confidando nella smemoria
diffusa e nell’abitudine a far passare tutto in cavalleria.
Repubblica
è il giornale di riferimento della sedicente “sinistra”
neoliberale, non era lecito aspettarsi niente di diverso. Dal nostro
punto di vista, il problema è che nella comunicazione delle sinistre
più “radicali” e “di movimento”, con poche lodevoli
eccezioni, non s’è visto granché di meglio.
Quelli che «la libertà? Pfui!»
C’è
chi si è ostinato a negare il problema delle libertà compresse dal
lockdown, usando con sarcasmo
gli stessi diminutivi banalizzanti dei
governatori o sindaci celoduristi, da Fedriga a De Luca: la
«corsetta», la “passeggiatina”… Si è arrivati a dire che la
libertà era faccenda da borghesucci annoiati del proprio salotto,
una pseudo-questione agitata da intellettuali che scalpitavano per
tornare a farsi l’aperitivo ecc. Questo mentre l’intera
popolazione – e alcuni soggetti molto più di altri, come
sempre – era sottoposta all’arbitrio indiscriminato delle
fdo, senza nemmeno la possibilità di sapere come e quando stava
infrangendo una legge, perché a consentire ogni arbitrio era il caos
normativo: decreti nazionali, circolari interpretative, ordinanze
regionali, circolari interpretative delle ordinanze regionali,
ordinanze comunali, circolari delle polizie municipali, aggiornamenti
del modulo per l’autocertificazione…
Si
sono sprecate battute e invettive su «i Wu Ming si occupano di
passeggiate» e – horribile
dictu! –
di
«libertà individuali». Più di qualcuno ha fatto finta di non
capire – o forse, imparanoiato e succube, davvero
non riusciva più a capire
– che
a essere colpite in ultima istanza erano e sono le libertà
collettive.
A subire un attacco preventivo è la libertà di organizzarsi e di
lottare nella crisi, nella recessione che sta arrivando. Ne va della
possibilità futura di fare riunioni, assemblee, manifestazioni,
presidii, sit-in, picchetti e in generale di attraversare e vivere lo
spazio pubblico fisico.
Per stroncare le prossime lotte, le prossime occupazioni, la
repressione adotterà motivazioni sanitarie. Con alcune lotte di
lavoratori è
già successo, e non solo in Italia, come dimostra il
caso Amazon/Smalls. Si è arrivati a questa situazione
principalmente perché i due precetti più ribaditi in
quest’emergenza, «stare a casa» ed «evitare assembramenti»,
rotolando giù dal piano inclinato senza che nessuno li fermasse per
verificarne le implicazioni, si sono trasformati in prescrizioni
mostruose.
«Stare a casa» non vuol dire per forza stare in casa
Dalla
necessità di «stare a
casa»,
cioè di chiudere i luoghi dove ci si assembrava lavorando o
consumando, in men che non si dica si è passati all’obbligo di
«stare in
casa»,
che è cosa ben diversa. Sentirsi ripetere fino alla nausea, a reti
unificate e titoli sbraitati di fronte alle edicole, che bisognava
stare in
casa,
ha portato milioni di persone a blindarsi vive, con conseguente
demonizzazione dell’aria aperta. Demonizzazione selettiva e
incoerente, però. Colpiva solo le attività disinteressate,
gratuite, fatte per mantenere un minimo di qualità della vita:
correre, passeggiare, giocare col proprio figlio… Guarda caso,
attività non in linea col produci-consuma-crepa del capitalismo.
Durante il lockdown, il produci-consuma-crepa si è imposto come mai
prima, e senza il minimo contrasto: o andavi al supermercato, o
andavi a farti sfruttare, o non andavi da nessuna parte. E c’erano
pure sedicenti “anticapitalisti” che erano d’accordo.
Che cos’è un «assembramento»?
L’altra
dinamica a cui abbiamo assistito è stata l’estensione a qualunque
cosa del
concetto di «assembramento», già problematico di per sé.
Sul
rapido e prepotente riemergere di questo termine nell’immaginario
italiano abbiamo già scritto qualche appunto. Pensiamo si sia
trattato di un «riflesso condizionato culturale», una risposta
pavloviana legata alla mancanza di un’elaborazione seria del
passato fascista. L’interpretazione di «assembramento» che si è
affermata all’istante proviene direttamente dal ventennio, dal
Titolo 2 del TULPS (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza)
del 1931 e dal regolamento delle colonie di confino, dove era
«assembramento» il semplice passeggiare insieme se in numero
superiore a due. Durante l’emergenza coronavirus siamo andati
persino oltre: è diventata «assembramento» praticamente qualunque
azione compiuta fuori casa a parte il lavorare in fabbrica e lo stare
in fila – sovente chilometrica – davanti al supermercato. Se esci
di casa con tua moglie e tua figlia è già assembramento, anche se
vivete insieme; se porti tuo figlio a fare la spesa è già
assembramento; se ti fermi a salutare un’amica a distanza di
sicurezza....
Molte
«persone comuni» sono più avanti dei militanti
Numerose
compagne e compagni hanno fatto un bel capitombolo, cadendo nelle
trappola di cui sopra senza più riuscire a venirne fuori. Da là
dentro hanno inveito, con gli stessi “argomenti” dei
cacciatori di untori, contro chi la differenza tra «a casa» e «in
casa» continuava ad avercela presente e la rimarcava. È prevalso un
insieme di discorsi e posture regressivo,
quando non reazionario.
Col
risultato che oggi la pratica reale di molte presunte «persone
comuni» – che da settimane adottano microtattiche di disobbedienza
e resistenza – è più avanzata di quella di molti super-ligi
militanti. Come abbiamo cercato di documentare, la rottura delle
compatibilità dell’emergenza è partita come “sciame” di
disobbedienze singole, visibili e invisibili, ma poi si sono avuti
momenti collettivi. In questa congiuntura, a «salvare l’onore»
della sinistra antagonista, attuando la più esplicita messa in crisi
del dispositivo securitario, sono state le compagne e compagni di
Roma che hanno dato l’ultimo saluto a Salvatore
Ricciardi.
Quell’evento ha colpito l’immaginazione anche fuori dall’Italia,
tanto che l’articolo
in cui ne parlavamo è stato tradotto in diverse lingue: inglese,
spagnolo
e portoghese.
Che
l’umore generale stesse gradualmente cambiando era evidente da
almeno un paio di settimane, ma ora il cambiamento pare aver subito
un’accelerazione. Riscontriamo che in molte discussioni on line chi
difende lo #stareincasa si ritrova per la prima volta in minoranza,
soprattutto quando si parla di abusi in divisa. Certo, come ha
scritto Giulia
Q in
un commento, «non
è il caso di cantar vittoria: è in minoranza solo perché le
vittime della violenza sbirresca stavolta sono italiane. Molti
commenti chiedono “dov’erano le pattuglie e i droni quando
chiedevamo di arrestare gli spacciatori?”»
Ma
non è sempre così, ed è comunque una situazione diversa rispetto a
dieci giorni fa.
Manovre intorno al 25 Aprile / 1
L’appello
dell’ANPI nazionale a festeggiare il 25 Aprile dai balconi,
cantando Bella
ciao e
sventolando il tricolore, ha lasciato l’amaro in bocca a molte
persone. A pensarci, è un rovesciamento ironico: il 25 Aprile siamo
soliti ricordare la sconfitta di un tizio che comunicava
dal balcone,
e anche a quel balcone era appeso il tricolore. Siamo soliti
ricordare quella sconfitta in piazza, anche perché è in una piazza
che quel tale, consumato il tempo dei suoi flash
mob,
fu appeso a testa in giù.
Una
settimana fa
Massimo
Zanetti
ha
condiviso qui su Giap
la
lettera che ha scritto all’ANPI di Bologna: «Buongiorno,
leggo della vostra iniziativa per il 25 Aprile e rimango sinceramente
sgomento. Mi riferisco in particolare alla vostra concertazione con
il Comune di Bologna. Vorrei ricordarvi che il sindaco di Bologna è
stato uno dei primi in Italia a chiudere i giochi e parchi pubblici,
relegando i bambini in casa. Non pago, pochi giorni dopo in una
intervista radio ha usato improprie metafore guerresche, chiamando
alle armi i sindaci dei comuni limitrofi, che prontamente hanno
chiuso i parchi e giardini pubblici, per combattere
le, testuale, “sacche di resistenza” di cittadini che ancora
portavano i propri figli al parco. Curioso, vero, definire resistenti
chi ha a cuore la salute dei propri figli? Vi ricordo anche che tutte
le forze dell’ordine, carabinieri, polizia, esercito, vigili
urbani, (ma anche le Guardie Ecologiche Volontarie) sono in giro
spesso a redarguire, se non a multare chi fa raccogliere una
margherita al parco al proprio figlio. Ho visto direttamente e ho
raccolto testimonianze di interventi sbirreschi per impedire a
bambini di giocare a ping-pong nel giardino condominiale o a fare un
breve giro in bici attorno a casa. Perfino la delazione è
incentivata da quei signori con cui voi concertate di fare un flash
mob! Beh, ritengo che le misure coercitive prese contro i bambini
siano non solo ingiustificate scientificamente (e questo lo ritiene
pure l’OMS!) ma anche opprimenti. Quindi, rimanere in casa e
cantare dal balcone (per chi ce l’ha) è esattamente quello che
vuole l’oppressore di mia figlia. Spero cambiate idea e proporrete
un atto di resistenza e di lotta per la libertà, la giustizia e
l’uguaglianza.»
Sono
arrivate molte esortazioni a celebrare il 25 Aprile in modo degno e,
soprattutto, non solo virtuale e nemmeno solo alla finestra. In
strada. Sono circolate proposte magari incerte, sfocate, ma che
testimoniavano di un’esigenza sentita da sempre più persone, e di
una frustrazione crescente. Non solo la dimensione telematica non
basta, ma qualunque iniziativa che cerchi di riprodurre nel virtuale
ciò che di solito si fa per strada non può che risultare parodica.
Alle richieste di tornare in piazza sono seguite solo risposte vacue.
E come sempre accade, il vuoto viene riempito.
Manovre
intorno al 25 Aprile / 2
Pochi
giorni fa scrivevamo in un commento: «Subito dietro l’angolo
potrebbe esserci qualcosa tipo Gilets Jaunes, purtroppo però più
simile ai forconi, perché quanto già detto sull’assenza dei
movimenti italiani impedisce quel lavoro che i movimenti francesi
hanno fatto, il surf
trasversale dentro l’ondata dei Gilets Jaunes». Ed eccola
arrivare, la convocazione in stile forconi per il 25 Aprile, con
tanto di gruppo Telegram usato impropriamente come canale
pubblico. Nel momento in cui scriviamo ha circa 23.000 iscritti. Sia
detto en
passant:
la stragrande maggioranza degli aggiornamenti riguarda nuove
iscrizioni: «Tizio si è unito al gruppo», «Caio si è unito al
gruppo»… Si vedono nomi e cognomi ed è quasi tutto rumore, i
pochi messaggi si perdono nel marasma. Siamo convinti che la maggior
parte delle persone abbia già silenziato le notifiche. Chi ha aperto
il gruppo sembrerebbe poco esperto di Telegram, ignaro della
differenza tra gruppo
e
canale.
Che dentro questa chiamata per la festa della Liberazione –
hashtag: #ilnuovo25aprile – ci sia l’estrema destra è tanto
paradossale quanto certo: se ne sentiva l’odore lontano un miglio,
anche prima di sapere dell’adesione esplicita di Forza Nuova. Il
«nuovo 25 aprile» sarebbe, insomma, quello senza antifascismo. È
invece improbabile siano di estrema destra tutte le persone che
stanno aderendo, molte per autentica disperazione. La rabbia è reale
e non vede più steccati. Se il primo tentativo neofascista di
capitalizzare l’insofferenza diffusa – la «processione» di
Pasqua organizzata da Forza Nuova – si è risolto in un flop,
stavolta potrebbe andare diversamente. Ma anche dovesse finire tutto
in una bolla di sapone, resta grande amarezza nel vedere il 25 Aprile
“dirottato” [détourné]
in questo modo, per assenza di chi era solito celebrarlo, e i
fascisti più avanti dei compagni nel proporre un passaggio
all’azione. A poco serve usare i forconi come babau – è già
accaduto dopo gli
“espropri proletari” di Palermo – se al malcontento si
chiude ogni altra strada. Come ha scritto Tuco:
«Questo
succede perché la quasi totalità della sinistra, in tutte le sue
declinazioni, nemmeno il mugugno ha considerato ammissibile, nei
confronti di questa contenzione di massa. Hai figli che stanno male
perché non possono uscire all’aperto e vedere i loro amici? In
realtà sei tu che malsopporti il sacro lockdown e proietti sui tuoi
figli il tuo desiderio piccoloborghese di bere un campari. Allora è
ovvio che il primo fascio che ti dà ipocritamente un po’ di
ascolto, se non hai una preparazione e una convinzione politica
profonda ti si piglia in due agili mosse. E mica dico che si dovrebbe
organizzare cose, eh. Dico che anche solo un minimo sindacale di
empatia per chi sta vedendo la sua vita implodere in un cubicolo di
50mq sarebbe qualcosa di meno reazionario dell’accelerazionismo da
mosche cocchiere del virus.»
Il
fatto che ampi settori dei movimenti si siano automarginalizzati con
l’adesione acritica – o troppo poco critica – all’ideologia
dello #stareincasa oggi impedisce loro di incontrare questa rabbia, o
anche solo di capirla. Non è comunque detto che riescano a farlo i
fascisti. Al momento è qualcosa di ancora troppo inarticolato, di
imprevedibile. È un rumore sordo che sale. Tornando a noi: vogliamo
farci scippare il 25 Aprile da camerati e affini? Senza annunci e
fuori da ogni ufficialità, «piccole unità mobili e intelligenti»
stanno organizzando blitz comunicativi, pellegrinaggi a luoghi della
memoria partigiana, azioni di vario genere. Che cento fiori sboccino.
Magari molte azioni non sembreranno chissà cosa, alcune non verranno
bene, altre verranno bloccate dalle fdo prima di cominciare… Ma
sempre meglio del tricolore al balcone, che è quanto di più
regressivo e fuori fase si potesse proporre in un momento così.
Riprendersi
lo spazio pubblico: due condizioni necessarie
È
urgentissima una riflessione su come ricominciare a prendersi lo
spazio pubblico, su come rompere le compatibilità dell’emergenza,
senza farsi illusioni sulla cosiddetta «Fase 2». È possibile
organizzarsi anche rimanendo formalmente
dentro
le norme ma sostanzialmente
tornando
a fare iniziative pubbliche nello spazio fisico, nelle città. La
settimana scorsa, in
Polonia, il movimento delle donne è sceso in piazza –
rispettando le distanze di sicurezza – per protestare contro
l’ennesimo tentativo di vietare l’aborto. Bisogna ragionare
almeno – almeno
– su
modalità simili. Una condicio
sine qua non
per
ragionare su come riprendersi lo spazio pubblico, naturalmente, è
dissipare l’equivoco tra «stare a casa» e «stare in casa», e
combattere in ogni modo la demonizzazione dell’aria aperta.
Demonizzazione che si perpetua anche tramite l’obbligo
di mascherina pure quando non serve. L’altra condizione
necessaria è ritenere che videoriunioni e assemblee virtuali siano
palliativi, o comunque forme a cui siamo costretti obtorto
collo,
che dovrebbero lasciarci fortemente insoddisfatti e desiderosi di
tornare a fare quelle vere.
Videoriunioni ne abbiamo dovute fare tutti. La differenza d’approccio
è tra chi le ha sopportate senza farsele piacere per forza, e chi
invece ne ha parlato con entusiasmo, con spreco di retorica e toni e
titoli roboanti. Cattiva utopia, per dirla col compagno Marco
Bascetta,
che ha
pienamente ragione quando scrive: «Qualcuno
valuta con speranza l’impossibile ritorno alla “normalità”,
poiché questa era contrassegnata da ingiustizie, diseguaglianze,
sfruttamento. Ma anche prescindendo dal fatto che non serviva certo
un virus per smascherarle e che nulla ce ne mette automaticamente al
riparo, “normalità” ha anche un altro irrinunciabile
significato. Vale a dire la natura sociale, relazionale, affettiva,
corporea, sensibile, dell’animale umano. La sua propensione ad
attraversare situazioni e ambienti sempre diversi e a sperimentarvi
tutti i suoi cinque sensi. Quali effetti possa determinare una
prolungata privazione di questa “normalità” per una intera
popolazione (e per la sua salute in senso pieno), nonché l’assurda
demonizzazione dell’aria aperta, è qualcosa che non possiamo
prevedere nella sua devastante portata. Che la dimensione telematica
possa riassorbire e restituire tutto questo, o anche solo surrogarlo
pro tempore è più che una cattiva utopia, una triste illusione.
Dietro la mimica impoverita, lo sguardo perso nel vuoto, l’ordine
sequenziale di ogni comunicazione virtuale si percepisce facilmente
questa semplice verità. E poiché altra forma attualmente non ci è
concessa (non è una possibilità “in più”, ma molte in meno) lo
schermo ci appare più che altro come il parlatoio di un carcere con
i suoi orari e le sue regole.»
Anche
fare riunioni
così
è una merda.
Spacchiamo
il vetro del parlatoio e usciamo di prigione. Scagliamo il lavabo di
marmo contro la vetrata. È ora di fuggire dal manicomio e tornare
per strada.
In
forme per ora diverse da quelle di prima, ma tornare per strada.
Prima cominciamo, meglio è.
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