Dall’Aquila a Roma, da Ferrara a Pisa, sono tanti i comuni – prevalentemente a guida di centrodestra o grillina – che hanno escluso i non residenti e gli immigrati dalla platea di coloro che hanno diritto ai «buoni spesa» erogati per l’emergenza Covid-19. Da giorni si erano levate le proteste delle organizzazioni di volontariato e caritatevoli, tanto da spingere il Dipartimento per la Pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri a diffondere le linee guida in materia di interventi di solidarietà alimentare, con un ammonimento particolare ai sindaci riguardo il profilo «potenzialmente discriminatorio» di requisiti come la residenza anagrafica o la cittadinanza italiana, assolutamente non richiesti nell’ordinanza della protezione civile n. 658 del 29 marzo 2020 che ripartisce i 400 milioni di euro stanziati ai comuni per erogare buoni spesa alle famiglie bisognose o per distribuire direttamente generi alimentari.
E ieri due sentenze hanno definitivamente bocciato i tentativi di discriminazione razziale in questo
ambito: a Roma il Tribunale civile ha accolto il ricorso di un immigrato filippino sprovvisto di permesso di soggiorno e di residenza, bollando come discriminatoria la delibera del Campidoglio; e a L’Aquila l’interpretazione della giunta Biondi (FdI) che estrometteva una famiglia pugliese non residente è stata sanzionata dal Tar Abruzzo.
Nel decreto cautelare che sarà discusso in udienza collegiale il 30 maggio prossimo, il presidente del Tar Umberto Realfonzo ha accolto il ricorso presentato in via d’urgenza, con il supporto della Rete Solidale, da un lavoratore stagionale pugliese domiciliato all’Aquila ma residente in altro comune. Nel provvedimento viene citato il parere dell’Ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza o sull’origine etnica (Unar, organo della Presidenza del consiglio) secondo il quale si prefigura come discriminatoria l’adozione di criteri «quali la cittadinanza italiana, ovvero la cittadinanza di uno Stato appartenente all’Ue, ovvero il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo per i cittadini non Ue o la carta di soggiorno per familiare, comunitario o extra comunitario, di cittadino dell’Ue».
Una citazione dovuta, perché il Tribunale amministrativo abruzzese nei prossimi giorni si pronuncerà anche sul ricorso presentato dagli avvocati dell’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) a nome di alcuni immigrati e rifugiati domiciliati all’Aquila da qualche mese o anno (per esempio, un ragazzo perseguitato in Guinea, perfettamente inserito nella società aquilana, vive in città dal dicembre 2016), ma non ancora dai 4 anni richiesti dall’amministrazione comunale che ha inserito tra i criteri necessari il «permesso di soggiorno di lunga durata».
Sulla stessa traiettoria si è mossa la giudice del tribunale civile di Roma, Silvia Albano, accogliendo il ricorso d’urgenza di Randy A., immigrato filippino con tre figli minorenni che vanno regolarmente a scuola, e contestando la delibera della giunta Raggi (la sindaca nel frattempo ieri postava su Facebook un video-spot sulla distribuzione alle famiglie bisognose dei «45 mila pacchi alimentari» acquistati «investendo 1 milione di euro»). Nel dispositivo la giudice Albano, facendo riferimento a principi già affermati dalla Corte costituzionale, spiega che nell’ambito dei diritti umani fondamentali esiste un «nucleo minimo che non può essere violato e spetta a tutte le persone in quanto tali, a prescindere dalla regolarità del soggiorno sul territorio italiano». In questo «nucleo minimo» risiede il diritto di soddisfare i bisogni vitali, come quello alimentare. Esattamente come il diritto ad essere curato.
E ieri due sentenze hanno definitivamente bocciato i tentativi di discriminazione razziale in questo
ambito: a Roma il Tribunale civile ha accolto il ricorso di un immigrato filippino sprovvisto di permesso di soggiorno e di residenza, bollando come discriminatoria la delibera del Campidoglio; e a L’Aquila l’interpretazione della giunta Biondi (FdI) che estrometteva una famiglia pugliese non residente è stata sanzionata dal Tar Abruzzo.
Nel decreto cautelare che sarà discusso in udienza collegiale il 30 maggio prossimo, il presidente del Tar Umberto Realfonzo ha accolto il ricorso presentato in via d’urgenza, con il supporto della Rete Solidale, da un lavoratore stagionale pugliese domiciliato all’Aquila ma residente in altro comune. Nel provvedimento viene citato il parere dell’Ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza o sull’origine etnica (Unar, organo della Presidenza del consiglio) secondo il quale si prefigura come discriminatoria l’adozione di criteri «quali la cittadinanza italiana, ovvero la cittadinanza di uno Stato appartenente all’Ue, ovvero il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo per i cittadini non Ue o la carta di soggiorno per familiare, comunitario o extra comunitario, di cittadino dell’Ue».
Una citazione dovuta, perché il Tribunale amministrativo abruzzese nei prossimi giorni si pronuncerà anche sul ricorso presentato dagli avvocati dell’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) a nome di alcuni immigrati e rifugiati domiciliati all’Aquila da qualche mese o anno (per esempio, un ragazzo perseguitato in Guinea, perfettamente inserito nella società aquilana, vive in città dal dicembre 2016), ma non ancora dai 4 anni richiesti dall’amministrazione comunale che ha inserito tra i criteri necessari il «permesso di soggiorno di lunga durata».
Sulla stessa traiettoria si è mossa la giudice del tribunale civile di Roma, Silvia Albano, accogliendo il ricorso d’urgenza di Randy A., immigrato filippino con tre figli minorenni che vanno regolarmente a scuola, e contestando la delibera della giunta Raggi (la sindaca nel frattempo ieri postava su Facebook un video-spot sulla distribuzione alle famiglie bisognose dei «45 mila pacchi alimentari» acquistati «investendo 1 milione di euro»). Nel dispositivo la giudice Albano, facendo riferimento a principi già affermati dalla Corte costituzionale, spiega che nell’ambito dei diritti umani fondamentali esiste un «nucleo minimo che non può essere violato e spetta a tutte le persone in quanto tali, a prescindere dalla regolarità del soggiorno sul territorio italiano». In questo «nucleo minimo» risiede il diritto di soddisfare i bisogni vitali, come quello alimentare. Esattamente come il diritto ad essere curato.
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