da un articolo de LA STAMPA
In Cisgiordania c’è una «legione straniera» di attivisti che ogni
giorno si batte a fianco dei palestinesi contro gli israeliani e per
incontrarla siamo entrati nella stanza numero 14 al primo piano
dell’edificio «Kuwait» dell’ospedale di Ramallah dove è
ricoverato l’agronomo italiano di 30 anni ferito al petto da un
soldato durante gli scontri avvenuti venerdì a Kafr Qaddum,
vicino Nablus.
Fra bandiere palestinesi, vasi di fiori e strumenti medici l’italiano
che si fa chiamare Patrick Corsi è seduto assieme a Sophie, 31
anni di Copenhagen, Malia, 21 anni di Berlino e Karyn, 28 anni
dello Stato di New York. Fanno parte di uno dei gruppi
dell’«International Solidarity Movement» (Ism) ovvero la spina
dorsale di «un centinaio di attivisti internazionali di più
organizzazioni giunti qui per aiutare i palestinesi a far diminuire
la violenza israeliana» spiega l’italiano. Ascoltarli significa
entrare nell’universo in cui vive questa pattuglia di attivisti
accomunati dalla convinzione che il conflitto in Medio Oriente
abbia come unico responsabile Israele: ciò che dicono e
descrivono esprime una difesa estrema delle tesi palestinesi che
si spinge fino a contestare la soluzione dei due Stati.
Anzitutto ognuno di loro premette di dare generalità false
«perché altrimenti gli israeliani ci metterebbero in una lista
nera e non potremmo più tornare dopo la scadenza del visto di
90 giorni» dice Malia. Patrick, con la maglietta «Palestina nel
mio cuore» in realtà svelerà presto il vero nome perché vuole
fare causa all’esercito israeliano per il proiettile che lo ha colpito
nel petto: «L’azione legale vorrà punire il soldato e l’esercito per
quanto avvenuto, e si svolgerà nella terra del 1948». Il termine
«terra del 1948» viene adoperato al posto di «Israele»,
contestandone la legittimità anche nel vocabolario. «In
Danimarca avevo molte amiche ebree e israeliane, amavo Tel
Aviv - racconta Sophie - ma poi c’è stato il massacro di Gaza
sono voluta venire oltre il Muro e ora non voglio più tornare
nella “terra del 1948”».
Patrick ritiene che «anche Tel Aviv all’origine era un
insediamento illegale», imputa «ai sionisti, e non agli ebrei, di
aver progettato e realizzato il furto della terra palestinese» e
crede che «la soluzione di questo conflitto arriverà quando i
sionisti ammetteranno tale colpa e lasceranno ai palestinesi la
scelta se vivere assieme oppure farli tornare negli Stati di
provenienza». In queste parole la negazione del diritto
all’esistenza di Israele diventa palese.
Anche Karyn, Malia e Sophie non credono nella soluzione dei
due Stati - Israele e Palestina, secondo la formula di Oslo 1993 -per molteplici motivazioni:
dalla «costruzione di insediamenti
che sono città coloniali impossibili da smantellare» alla
«necessità di vivere assieme, condividendo le stesse scuole
anziché separarsi». Tali opinioni sono frutto di settimane di vita
con i palestinesi. «Sono stata alle esequie di un bambino di 15
anni ucciso perché aveva lanciato una molotov contro dei
soldati e ho assistito alla carica militare contro il corteo
funebre» ricorda Karyn.
«Ho incontrato la famiglia del palestinese che ha accoltellato un
soldato a Tel Aviv ed ho visto la sua casa distrutta dai soldati, è
umanità questa?» si chiede Sophie. «Sono stata nell’aula del
tribunale militare di Salam dove ad un 17enne è stata rinnovata
la detenzione amministrativa senza concedergli di parlare»
aggiunge Malia, trattenendo a stento la commozione. «Sono
andato a raccogliere le olive con i palestinesi perché gli ulivi
sono la loro risorsa più importante ma i militari gli consentono
di prenderle solo 2-3 giorni l’anno» afferma Patrick.
Sono esempi di una militanza che si declina in una miriade di
interventi - dall’accompagnare i pastori nei terreni militari a
dormire nelle case destinate alla demolizione fino a fotografare i
soldati sui tetti delle case - per «diminuire la violenza contro i
palestinesi» con azioni, assicura Patrick, «non violente,
concordate fra noi e guidate da palestinesi». Anche un’altra
italiana è stata ferita: Giulia, siciliana, un mese fa a Qalandya.
Per questi attivisti gli eroi sono Rachel Corrie, Tom Hurndall e
Vittorio Arrigoni ovvero i «caduti di Ism a Gaza»: i primi due
morti nel 2003 e 2004 in incidenti con gli israeliani, il terzo
ucciso nel 2011 dai salafiti palestinesi.
Ad accomunare questi giovani è tanto la convinzione di «aiutare
i palestinesi a far conoscere al mondo le loro sofferenze»
quanto un’interpretazione degli attentati anti-israeliani, come
l’assalto alla sinagoga di Har Nof in cui sono stati uccisi quattro
rabbini, che Patrick riassume così nell’assenso generale: «Chi
semina violenza, raccoglie violenza». Ovvero, nella «terra del
48» c’è il nemico
israeliana. Patrik è uno di loro ed è stato colpito al
petto da una fucilata mentre raccoglieva le olive
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