Bassi
salari, rapporti autoritari e poco cooperativistici, assenza di democrazia
interna, contratti disattesi, professionalità e lauree sottomesse al “siamo
tutti sulla stessa barca” e alle sempre reclamate difficoltà economiche in cui
tutte le cooperative sociali dichiarano di trovarsi da Cuneo a Roma, da Napoli a
Palermo.
Lavorare
oggi nelle cooperative sociali per chi vi lavora dai primi anni ‘80 è sempre la
stessa storia: le cooperative sono sociali solamente per chi le gestisce e le
amministra, mentre per chi le rende possibili con il proprio lavoro sono fonte di impoverimento economico e frustrazione emotiva.
una testimonianza
Da quando
lavoro ho sempre lavorato nel sociale, ed anche adesso che sono un
effettivo del Ministero della Pubblica Istruzione dislocato ai confini della
periferia, intercettando un’utenza tendenzialmente deprivata culturalmente, non
faccio fatica a leggere il mio intervento come il tentativo (generoso,
inconcludente, illusorio, dovuto... insomma scegliete voi l’aggettivo!) di
alleviare il disagio sociale offrendo una via culturale.
Avendo allungato il mio percorso universitario
oltre la misura e terminati gli obblighi di leva, mi
ritrovai poco meno che trentenne alla mia prima esperienza nel terzo settore. Come poi andai a riscontrare puntualmente negli anni successivi anche in quella prima occasione fui presentato da chi già lavorava all’interno e fui sottoposto a un piccolo periodo non retribuito di prova, tanto che per tagliare la testa al toro decidemmo di far scattare l’assunzione dal 1° Maggio. Ed è strano, adesso che lo scrivo, scopro che anche questa è stata una costante dei successivi rapporti lavorativi intrapresi nel terzo settore, ovvero la pretesa da parte della figura datoriale di trattenersi una quota iniziale di salario, fosse anche simbolica, quasi a dire che il posto viene comprato e non il lavoro venduto!
ritrovai poco meno che trentenne alla mia prima esperienza nel terzo settore. Come poi andai a riscontrare puntualmente negli anni successivi anche in quella prima occasione fui presentato da chi già lavorava all’interno e fui sottoposto a un piccolo periodo non retribuito di prova, tanto che per tagliare la testa al toro decidemmo di far scattare l’assunzione dal 1° Maggio. Ed è strano, adesso che lo scrivo, scopro che anche questa è stata una costante dei successivi rapporti lavorativi intrapresi nel terzo settore, ovvero la pretesa da parte della figura datoriale di trattenersi una quota iniziale di salario, fosse anche simbolica, quasi a dire che il posto viene comprato e non il lavoro venduto!
In quegli anni napoletani ebbi modo di
crescere parecchio da tanti punti di vista:
nel rapporto diretto con l’utenza (l’appalto riguardava un lotto del progetto di
Educative Territoriali); nei rapporti interni con le colleghe e i livelli
superiori del progetto e della cooperativa; nel
rapporto ai compagni, con i quali cercavamo di
costruire una coscienza politica dei lavoratori chiamati ciclicamente dai
livelli amministrativi a pressare le istituzioni sempre in ritardo nella
produzione degli atti (dicasi pagamenti, continuità dei servizi, sviluppo
dell’intervento, ecc.); nel
rapporto al Capitale, all’interno del quale
provavo a stare assumendo la formula del socio-lavoratore ritenendola utile per
difendere la mia forza conflittuale col livello dell’amministrazione.
Sperimentai diverse formule di pagamento, tutte
commisurate all’ora prestata ed interna al monte ore mensili, un meccanismo che
per un calcolo di aliquote, contribuzioni, agevolazioni e punti percentuali
aggiuntivi o mancanti, inevitabilmente non ha mai oltrepassato gli 850 € al
mese.
Poi vicende passional-amorose mi indussero a
trasferirmi, e qui a Roma scoprii a mie spese cosa significhi lavorare da
emigrante. Sì, potrà sembrare uno scherzo, ma il passaggio fu dalla padella alla
brace, ricordo la peggior retribuzione di sempre: 5 € l’ora! Nel panorama
capitolino ebbi modo di confrontare più player del terzo settore: dalle
associazioni vicine ai municipi, che si fanno carico di alleviare i disagi del
mondo spremendo oltre ogni decenza chi poi i servizi effettivamente li eroga,
alle cooperative! Da esperto d’aula ad assistente domiciliare od operatore
sociale o della persona. Insomma al di là delle formalizzazioni contrattuali
permaneva la precarietà lavorativa e la scarsezza economica quando,
per mia fortuna
(ora posso dire), fui
bloccato da due ernie del disco.
In simili circostanze il piano previdenziale
interno prevedeva la rapida ripresa dei turni o l’interruzione del rapporto
lavorativo; e così fu! In effetti, al termine della breve degenza e dopo un paio
di prestazioni di prova mi vidi costretto alle dimissioni, poiché lavorare con
il dolore addosso mi trasformava in uno stupido secondino attento solo a quello
che l’utente non doveva fare per meno di 20 € in tre ore (ne avrei spesi di più
per una controterapia psicologica)! Ciò fece maturare in me la necessità di una
mia riqualificazione
professionale per potermi spendere meglio
nel mercato del lavoro. Del resto nel mentre mi accingevo a presentare le mie
dimissioni alla responsabile del progetto mi accorsi dalla sorpresa in lei
suscitata da questo annuncio, che già avevo anticipato al coordinatore e che
quindi era circolato nell’ambiente di lavoro, poiché anch’io figuravo in un
pacchetto di tre indesiderabili destinatari di licenziamento; capii questo
quando seppi che i due compagni, che con me avevano posto in due precedenti
assemblee il problema di come si dovesse/potesse trattare con l’utenza, erano
stati per l’appunto fatti oggetto di allontanamento.
In tanta incertezza l’unica cosa certa è che per
continuare a sottrarre ricchezza alle masse e permettere la capitalizzazione di
plusvalore si amplieranno i margini qualitativi e quantitativi della povertà;
di qui a trenta
anni, fermo restando le cose,
tutti saremo più
poveri e tanti che oggi non percepiscono il
problema inizieranno a farlo.
di Giuseppe Mezzosinistro
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