mercoledì 3 maggio 2017

pc 3 maggio - Un articolo interessante su operai e elezioni in Francia: "Dare un calcio alla società “liquida”'

di Enzo Pellegrin

Tra le immagini dei giorni vicini al Primo Maggio, balza all’attenzione quella di Marine Le Pen, tra i sorridenti operai dello stabilimento Whirlpool di Amiens, nel nord della Francia, dipartimento della Somme, regione dell’Haute France, passata roccaforte della sinistra e del PCF.
Questa porzione geografica del paese transalpino ha già subito una drastica riduzione dei posti di lavoro in seguito a delocalizzazioni produttive motivate dalla ricerca di un minor costo per la mano d’opera. Così avviene anche per lo stabilimento Whirlpool. L’azienda non è affatto in crisi, ma sposterà l’unità produttiva in Polonia giovandosi del basso costo del lavoro del far west polacco postcomunista. A rischio sono 600 posti di lavoro. 
Anche il candidato Macron, l’uomo nuovo, “né di destra né di sinistra”, ma saldamente ancorato ai potentati economici europei, si è interfacciato con gli operai di Amiens. Ha cercato di convincerli che opporsi alla società aperta e globalizzata è una battaglia di retroguardia che porta ad un’inevitabile sconfitta. 
Marine Le Pen ha invece messo mano all’armamentario propagandistico, tirando fuori dall’armadio parole che la sinistra, spesso utile idiota della globalizzazione capitalista, vi aveva ormai rinchiuso come vecchiume: nazionalizzazione, opposizione al comitato d’affari dell’Unione Europea. Vi ha aggiunto l’armamentario demagogico del populismo di destra: protezionismo e blocco dell’immigrazione.
Mentre nell’area mainstream, da sempre fedele al blocco europeo, si è sciorinata la solita retorica della società aperta come patria delle future opportunità, il chiacchiericcio a sinistra si è subito verniciato di retorica mobilitazione antifascista, sollecitando il “voto utile” il “meno peggio” per “sbarrare la strada a Hitler”. 
Spesso si dimentica come il peggio vissuto sinora dalla classe lavoratrice francese proviene dalle azioni e dagli editti di Bruxelles. La società aperta dell’UE ha finora fruttato alla Francia lavoratrice
la perdita di oltre un milione di posti di lavoro nell’industria manifatturiera, con conseguente deindustrializzazione. L’asserita e propagandata nuova occupazione nel terziario contiene i profili di assoluta precarietà della legislazione sul lavoro voluta dall’Europa per disporre di un’occupazione quotidianamente ricattabile e licenziabile. Insomma, Hitler aveva già varcato da molto le Ardenne, partendo da Bruxelles, senza che nessuno a “gauche" se ne fosse accorto seriamente.
Entrambi gli atteggiamenti, però, sia quello dell’europeismo mainstream, che quello della sinistra radicale, a ben vedere scaturiscono da un comune vento culturale affermatosi come buona novella dell’era postsovietica: la società è mutata, non è più ancorata a precisi concetti di classe, non esistono più classi dai confini precisi che lottano tra loro. 
Chi può dire qual’è la classe operaia e qual’è la borghesia in una società che ha provvisto ogni cittadino di opportunità, interconnessione, assenza di confini e bandiere, assenza di differenze di genere, orientamento e religione, possibilità di successo personale per i volenterosi e creativi?
Nella crisi di oggi, un simile mantra inizia forse a sembrare retorica persino per i più disattenti od ostinati. Tuttavia, questo vento idiota albergava e soffiava forte fino a ieri tanto nel sistema quanto nell’ “antisistema”.
Non è un caso che in occasione della recente morte di Zygmunt Bauman, vi siano stati tributi sia dall’una che dall’altra dimensione della sinistra. 
Il nome del filosofo polacco è associato alla sua descrizione dell’ultima modernità come condizione liquida e liquefatta dell’esistere. 
Come descrive G. Giacomini, la modernità liquida è vista come “una forma di individualismo estremo, fondamentalista. Un tipo di modernità privatizzata, in cui l’onere di costruire un progetto di vita e la responsabilità di un eventuale fallimento ricadono soltanto sull’individuo. I vincoli relazionali si sciolgono e gli individui diventano propriamente tali.” (mimesis-scenari.it, Giacomini, Una critica generazionale alla modernità liquida di Bauman, 27.1.17). 
Un concetto per noi spaventosamente funzionale alla concezione ultraindividualista del liberismo padronale thatcheriano, per cui la società non esiste ed esistono solo gli individui. 
In una siffatta dimensione, il concetto che più sta a cuore alla classe dominante è proprio la spinta a separare l’individuo dal collettivo. Troncare e sopire ogni riflessione che possa mettere in pericolo il dogma della proprietà privata dei mezzi di produzione. 
Nella retorica del mainstream, ogni persona è libera dalle catene, dai coinvolgimenti, dai luoghi d’esistenza. Massima libertà per massima opportunità. 
Questo è il lato chiaro che viene mostrato. 
Il lato oscuro è invece la chiave del potere per la classe dominante: massimo isolamento e massima fragilità per chi non può sostenere il caro prezzo di questa libertà. In questa condizione, lungi dall’essere libero, l’individuo si trova sulla corsia dello sfruttamento, privo e privato degli strumenti di riflessione ed organizzazione collettiva. 
Libero in quanto solo, ma soprattutto solo e aggiogato in quanto libero. 
Tale falsa concezione della modernità è stata cavalcata soprattutto dall’opportunismo socialdemocratico, candidatosi a forza di governo “europeista”, capace di sdoganare gli interessi padronali attraverso il mito della fine del marxismo dopo la controrivoluzione nei paesi socialisti. 
Con un’operazione egemonica ed antistorica si è sancita la fine della divisione in classi, si è santificata l’ “uguaglianza e la parità nelle opportunità”, contemporaneamente nascondendo che i mezzi di produzione ed il potere rimanevano saldamente nelle mani della proprietà privata, sempre più elitaria e organizzata in potenti monopoli. Si è dimenticato che un tale sistema - per sua struttura - non ha come obiettivo la soddisfazione dei bisogni dell’umanità, ma la realizzazione del tasso di profitto di ogni singolo operatore economico. 
Si è raccontato che la “flessibilità” sul mercato del lavoro avrebbe aiutato l’impresa a produrre nuova occupazione, ma si è nascosto che la demolizione dei diritti dei lavoratori ha come prima funzione il loro maggior sfruttamento e la loro ricattabilità, attraverso i licenziamenti facilitati. Si è taciuto che la precarietà, lungi dall’essere un fattore di dinamismo occupazionale, consente lacostruzione di un comodo esercito industriale di riserva. 
E’ stata sdoganata come ricerca dell’efficienza dello Stato la demolizione dell’erogazione universale dei servizi sociali e la svendita delle ricchezze pubbliche ai privati. 
Si sono dipinti come interventi umanitari a favore dei diritti individuali e della libertà azioni di aggressione imperialiste contro governi nazionali che conservavano una minima gestione pubblica delle proprie risorse e della propria autodeterminazione, dall’Iraq, alla Jugoslavia, alla Libia, all’odierna Siria. Allo stesso modo si sono accettate le accuse diffamatorie di corruzione e autoritarismo servite al rovesciamento delle democrazie progressiste latinoamericane, dal Brasile al Venezuela passando per l’Argentina, per citare solo i casi più evidenti.
Si è costruito un falso mondialismo della libertà, nascondendo il fatto che la vera libertà perseguita era quella dei fattori produttivi necessari allo sfruttamento capitalistico: merci, servizi, moneta e persone. 
Si è benedetta la cessione delle sovranità nazionali a organizzazioni internazionali globali o regionali come l’UE, tacendo che si porgeva il guinzaglio dei popoli a comitati d’affari degli interessi finanziari ed industriali globali.
Questa vasta operazione non avrebbe potuto avere pieno successo senza l’assecondamento dei falsi miti della nuova modernità anche da parte di quella sinistra cosiddetta antagonista, radicale, “antisistema”. 
Intossicati dalla caduta del mondo socialista e dalla diffamazione padronale ai danni di quest’ultimo, gli attori del “gauchisme” occidentale, in nome di una retorica costruzione del processo decisionale “dal basso”, si sono opposte alle forme organizzate e di classe dell’azione politica.
Hanno predicato l’estinzione della forma partito, anche se costruito in funzione rivoluzionaria, sancendone l’inutilità al di fuori di ogni seria riflessione scientifica o dialettica. 
Hanno diffuso una confusa versione di internazionalismo affiancandola all’accettazione delle istituzioni europee come abbattimento delle odiate frontiere. Sparita ogni illusione nelle evidenti contraddizioni del reale, si sono rifugiati come utili idioti in un mondialismo senza costrutto, incapace di scoprire le vere contraddizioni delle migrazioni epocali, le quali non si eliminano colla semplice caduta dei confini quando il governo del mondo resta in mano alla classe economicamente dominante. E’ quest’ultima a produrre le guerre imperialiste, causa prima della disperata immigrazione di uomini. 
In questo mero accompagnamento pseudoreligioso della disperazione, si sono scontrati con le contraddizioni delle classi colpite dalla dura concorrenza dell’esercito industriale di riserva nel mercato del lavoro, che hanno trovato altri interlocutori. 
Il disarmo ideologico e politico della classe lavoratrice è passato anche attraverso la teorizzazione della politica senza testa e senza leader, all’interno  di fenomeni del tutto innocui ed ininfluenti, come il folcloristico e corteggiato movimento “Occupy”, oppure come quello degli “indignados”, che si concentravano sulla forma da utilizzare in assemblee senza progetto e senza potere, sostituendo gli applausi con lo sventolio di mani.
Spesso, questa vasta galassia ha prodotto risultati elettorali di una certa portata numerica ma assolutamente ininfluenti nel mutamento dei rapporti produttivi. A volte hanno dato vita a vere e proprie esperienze di tradimento degli interessi delle classi popolari, come è accaduto in Grecia con il governo opportunista della coalizione Syriza-Anel di Alexis Tsipras. 
In altri campi, l’ostilità manifesta e presuntuosa alle forme di organizzazione consapevole dei partiti rivoluzionari della classe lavoratrice continua a produrre sempre più piccoli orticelli di ribellismo fine a se stesso, agevolmente controllati dagli ordinari strumenti di repressione del capitalismo.
L’egemonia culturale di fondo della liquidità ha penetrato non poco anche questi fenomeni politici. 
Naturalmente, questa artefatta concezione della modernità possiede ben pochi fondamenti oggettivi. Vi è chi conduce una critica scientifica sul metodo, sommessamente ricordando come Zygmunt Bauman (nè pare alcuno dei suoi proseliti), una volta definito cosa si intende per “società liquida”, non abbia mai condotto un’indagine per trovare degli elementi verificabili in grado di dimostrare che la società è liquida, non abbia mai individuato un campione rappresentativo di elementi sociali e nemmeno abbia mai verificato quanti di questo campione  quanti sposino le caratteristiche della “liquidità” (L. Romei, Perché il concetto della società liquida è infondato, huffingtonpost, 7.3.2016).
Molto più semplicemente, come ogni analisi descrittivo-speculativa, il concetto di società liquida non è nient’altro che uno strumento culturale della classe economicamente dominante, la quale utilizza tutti gli strumenti dell’egemonia culturale per l’affermazione di una tale comoda visione soggettiva.
Gli aspetti dialettici ed oggettivi sono invece estremamente diversi, e scoppiano nelle contraddizioni ormai non silenziabili. 
Non ci sono solo gli operai di Amiens che circondano sorridenti le promesse demagogiche dell’estrema destra su nazionalizzazioni ed immigrazione. 
Per chi vuole essere attento, il primo maggio, non è solo fatto di antagonisti manganellati, ma si veste sempre più di evidenti contestazioni dei concetti di flessibilità e libertà del mercato del lavoro sdoganati dalla società liquida.
Il “no” dei lavoratori Alitalia all’ennesimo contratto capestro, gli scioperi della logistica, dei lavoratori esternalizzati, degli addetti ai servizi di pulizia degli ultimi giorni sono richiami sempre più vivi alla necessità di ricompattare ed unire la classe lavoratrice in quello che è sempre stato il suo strumento più efficiente: la lotta nei comparti produttivi di sfruttamento (soprattutto in quelli cruciali per la produzione), con l’obiettivo di sostituire i detentori dei mezzi di produzione, e non solamente di elemosinare diritti. 
Spesso, anche i sedicenti marxisti o postmarxisti si fanno così condizionare dalla sciocchezza dell’analisi liquida della società che non sono in grado di comprendere dove si verificano gli antagonismi tra classe e classe. Nei settori summenzionati, il nemico non si è sciolto nei lavoratori, ma appare ben chiaro: il padrone che ti licenzia perchè hai fatto l’esposto all’Ispettorato del Lavoro, l’Ispettorato del Lavoro che non ti tutela, la legge e il giudice che non ti reintegrano, il poliziotto che reprime il tuo sciopero, i crumiri che impugnano il bastone dietro alla polizia per reprimere lo sciopero. 
Tutto questo succede. 
Quel nemico viene oltretutto combattuto in gangli vitale del capitalismo, come la logistica, dove le azioni, magari di una piazza minuta, sortiscono grande efficacia, perchè incidenti su fattori chiave della produzione. Ciò dovrebbe suggerire interessanti prospettive di organizzazione.
Ma oggi abbiamo molti in grado di parlare, moltissimi in grado o ansiosi di lamentarsi, pochi in grado di ascoltare. Gramsci ascoltava. Se la Resistenza fu in gran parte rossa, tra i suoi militanti, qualche merito va dato all’ascoltare, al muoversi ed all’analizzare del politico comunista. 
Se gli operai di Amiens finiscono nelle braccia illusorie di una demagogia destrorsa che non li ha mai storicamente aiutati, la colpa principale sta in chi ha loro voltato le spalle ed ha  “liquidato” per anni le loro contraddizioni in un ostinato “europeismo” senza alcun senso reale.
Bisognerebbe dare un bel calcio alla modernità liquida e a tutti i suoi sostenitori di sistema e di “antisistema”, Ciò che serve al futuro delle classi lavoratrici non è l’elemosina di politiche riformatrici dell’esistente, ormai irriformabile. Serve un vero “principe” della classe operaia che possa prendere il potere per essa, con essa e solo per essa. Un principe ovviamente costituito dalla loro autonoma organizzazione collettiva. 
Un calcio alla liquidità ed ai liquidatori: ivi compresi gli interpreti rinnovati di quest’ultima, che sublimano un nuovo tipo di rappresentanza borghese in apparati di consenso organizzati e produttivi di esperienze politiche che non mettono in discussione i vecchi e conosciuti rapporti di produzione basati sulla proprietà privata degli assetti produttivi.
D’altronde, dai palchi del primo maggio, ogni retorica sui “diritti” e la legalità è sempre insopportabile a chi viene oppresso dalle leggi padronali. Almeno fin quando quei “diritti” millantati in modo formale non vengano garantiti in modo sostanziale al 100% dei cittadini, eliminando lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, eliminando la proprietà privata dei mezzi di produzione. 

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