di Enzo
Pellegrin
Tra
le immagini dei giorni vicini al Primo Maggio, balza all’attenzione quella di
Marine Le Pen, tra i sorridenti operai dello stabilimento Whirlpool di Amiens,
nel nord della Francia, dipartimento della Somme, regione dell’Haute France,
passata roccaforte della sinistra e del PCF.
Questa
porzione geografica del paese transalpino ha già subito una drastica riduzione
dei posti di lavoro in seguito a delocalizzazioni produttive motivate dalla
ricerca di un minor costo per la mano d’opera. Così avviene anche per lo
stabilimento Whirlpool. L’azienda non è affatto in crisi, ma sposterà l’unità
produttiva in Polonia giovandosi del basso costo del lavoro del far west polacco
postcomunista. A rischio sono 600 posti di lavoro.
Anche
il candidato Macron, l’uomo nuovo, “né di destra né di sinistra”, ma saldamente
ancorato ai potentati economici europei, si è interfacciato con gli operai di
Amiens. Ha cercato di convincerli che opporsi alla società aperta e globalizzata
è una battaglia di retroguardia che porta ad un’inevitabile sconfitta.
Marine
Le Pen ha invece messo mano all’armamentario propagandistico, tirando fuori
dall’armadio parole che la sinistra, spesso utile idiota della globalizzazione
capitalista, vi aveva ormai rinchiuso come vecchiume: nazionalizzazione,
opposizione al comitato d’affari dell’Unione Europea. Vi ha aggiunto l’armamentario demagogico del populismo di destra: protezionismo e blocco
dell’immigrazione.
Mentre
nell’area mainstream, da sempre fedele al blocco europeo, si è sciorinata
la solita retorica della società aperta come patria delle future opportunità, il
chiacchiericcio a sinistra si è subito verniciato di retorica mobilitazione
antifascista, sollecitando il “voto utile” il “meno peggio” per “sbarrare la
strada a Hitler”.
Spesso
si dimentica come il peggio vissuto sinora dalla classe lavoratrice francese
proviene dalle azioni e dagli editti di Bruxelles. La società aperta dell’UE ha
finora fruttato alla Francia lavoratrice
la perdita di oltre un milione di posti di lavoro nell’industria manifatturiera, con conseguente deindustrializzazione. L’asserita e propagandata nuova occupazione nel terziario contiene i profili di assoluta precarietà della legislazione sul lavoro voluta dall’Europa per disporre di un’occupazione quotidianamente ricattabile e licenziabile. Insomma, Hitler aveva già varcato da molto le Ardenne, partendo da Bruxelles, senza che nessuno a “gauche" se ne fosse accorto seriamente.
la perdita di oltre un milione di posti di lavoro nell’industria manifatturiera, con conseguente deindustrializzazione. L’asserita e propagandata nuova occupazione nel terziario contiene i profili di assoluta precarietà della legislazione sul lavoro voluta dall’Europa per disporre di un’occupazione quotidianamente ricattabile e licenziabile. Insomma, Hitler aveva già varcato da molto le Ardenne, partendo da Bruxelles, senza che nessuno a “gauche" se ne fosse accorto seriamente.
Entrambi
gli atteggiamenti, però, sia quello dell’europeismo mainstream, che quello della
sinistra radicale, a ben vedere scaturiscono da un comune vento culturale
affermatosi come buona novella dell’era postsovietica: la società è mutata, non
è più ancorata a precisi concetti di classe, non esistono più classi dai confini
precisi che lottano tra loro.
Chi
può dire qual’è la classe operaia e qual’è la borghesia in una società che ha
provvisto ogni cittadino di opportunità, interconnessione, assenza di confini e
bandiere, assenza di differenze di genere, orientamento e religione, possibilità
di successo personale per i volenterosi e creativi?
Nella
crisi di oggi, un simile mantra inizia forse a sembrare retorica persino per i
più disattenti od ostinati. Tuttavia, questo vento idiota albergava e soffiava
forte fino a ieri tanto nel sistema quanto nell’ “antisistema”.
Non
è un caso che in occasione della recente morte di Zygmunt Bauman, vi siano stati
tributi sia dall’una che dall’altra dimensione della sinistra.
Il
nome del filosofo polacco è associato alla sua descrizione dell’ultima modernità
come condizione liquida e liquefatta dell’esistere.
Come
descrive G. Giacomini, la modernità liquida è vista come “una forma di
individualismo estremo, fondamentalista. Un tipo di modernità privatizzata, in
cui l’onere di costruire un progetto di vita e la responsabilità di un eventuale
fallimento ricadono soltanto sull’individuo. I vincoli relazionali si sciolgono
e gli individui diventano propriamente tali.” (mimesis-scenari.it, Giacomini, Una critica
generazionale alla modernità liquida di Bauman, 27.1.17).
Un
concetto per noi spaventosamente funzionale alla concezione ultraindividualista
del liberismo padronale thatcheriano, per cui la società non esiste ed esistono
solo gli individui.
In
una siffatta dimensione, il concetto che più sta a cuore alla classe dominante è
proprio la spinta a separare l’individuo dal collettivo. Troncare e sopire ogni
riflessione che possa mettere in pericolo il dogma della proprietà privata dei
mezzi di produzione.
Nella
retorica del mainstream, ogni persona è libera dalle catene, dai
coinvolgimenti, dai luoghi d’esistenza. Massima libertà per massima
opportunità.
Questo
è il lato chiaro che viene mostrato.
Il
lato oscuro è invece la chiave del potere per la classe dominante: massimo
isolamento e massima fragilità per chi non può sostenere il caro prezzo di
questa libertà. In questa condizione, lungi dall’essere libero, l’individuo si
trova sulla corsia dello sfruttamento, privo e privato degli strumenti di
riflessione ed organizzazione collettiva.
Libero
in quanto solo, ma soprattutto solo e aggiogato in quanto libero.
Tale
falsa concezione della modernità è stata cavalcata soprattutto dall’opportunismo
socialdemocratico, candidatosi a forza di governo “europeista”, capace di
sdoganare gli interessi padronali attraverso il mito della fine del marxismo
dopo la controrivoluzione nei paesi socialisti.
Con
un’operazione egemonica ed antistorica si è sancita la fine della divisione in
classi, si è santificata l’ “uguaglianza e la parità nelle opportunità”,
contemporaneamente nascondendo che i mezzi di produzione ed il potere rimanevano
saldamente nelle mani della proprietà privata, sempre più elitaria e organizzata
in potenti monopoli. Si è dimenticato che un tale sistema - per sua struttura -
non ha come obiettivo la soddisfazione dei bisogni dell’umanità, ma la
realizzazione del tasso di profitto di ogni singolo operatore economico.
Si
è raccontato che la “flessibilità” sul mercato del lavoro avrebbe aiutato
l’impresa a produrre nuova occupazione, ma si è nascosto che la demolizione dei
diritti dei lavoratori ha come prima funzione il loro maggior sfruttamento e la
loro ricattabilità, attraverso i licenziamenti facilitati. Si è taciuto che la
precarietà, lungi dall’essere un fattore di dinamismo occupazionale, consente
lacostruzione di un comodo esercito industriale di riserva.
E’
stata sdoganata come ricerca dell’efficienza dello Stato la demolizione
dell’erogazione universale dei servizi sociali e la svendita delle ricchezze
pubbliche ai privati.
Si
sono dipinti come interventi umanitari a favore dei diritti individuali e della
libertà azioni di aggressione imperialiste contro governi nazionali che
conservavano una minima gestione pubblica delle proprie risorse e della propria
autodeterminazione, dall’Iraq, alla Jugoslavia, alla Libia, all’odierna Siria.
Allo stesso modo si sono accettate le accuse diffamatorie di corruzione e
autoritarismo servite al rovesciamento delle democrazie progressiste
latinoamericane, dal Brasile al Venezuela passando per l’Argentina, per citare
solo i casi più evidenti.
Si
è costruito un falso mondialismo della libertà, nascondendo il fatto che la vera
libertà perseguita era quella dei fattori produttivi necessari allo sfruttamento
capitalistico: merci, servizi, moneta e persone.
Si
è benedetta la cessione delle sovranità nazionali a organizzazioni
internazionali globali o regionali come l’UE, tacendo che si porgeva il
guinzaglio dei popoli a comitati d’affari degli interessi finanziari ed
industriali globali.
Questa
vasta operazione non avrebbe potuto avere pieno successo senza l’assecondamento
dei falsi miti della nuova modernità anche da parte di quella sinistra
cosiddetta antagonista, radicale, “antisistema”.
Intossicati
dalla caduta del mondo socialista e dalla diffamazione padronale ai danni di
quest’ultimo, gli attori del “gauchisme” occidentale, in nome di una retorica
costruzione del processo decisionale “dal basso”, si sono opposte alle forme
organizzate e di classe dell’azione politica.
Hanno
predicato l’estinzione della forma partito, anche se costruito in funzione
rivoluzionaria, sancendone l’inutilità al di fuori di ogni seria riflessione
scientifica o dialettica.
Hanno
diffuso una confusa versione di internazionalismo affiancandola all’accettazione
delle istituzioni europee come abbattimento delle odiate frontiere. Sparita ogni
illusione nelle evidenti contraddizioni del reale, si sono rifugiati come utili
idioti in un mondialismo senza costrutto, incapace di scoprire le vere
contraddizioni delle migrazioni epocali, le quali non si eliminano colla
semplice caduta dei confini quando il governo del mondo resta in mano alla
classe economicamente dominante. E’ quest’ultima a produrre le guerre
imperialiste, causa prima della disperata immigrazione di uomini.
In
questo mero accompagnamento pseudoreligioso della disperazione, si sono
scontrati con le contraddizioni delle classi colpite dalla dura concorrenza
dell’esercito industriale di riserva nel mercato del lavoro, che hanno trovato
altri interlocutori.
Il
disarmo ideologico e politico della classe lavoratrice è passato anche
attraverso la teorizzazione della politica senza testa e senza leader,
all’interno di fenomeni del tutto innocui ed ininfluenti, come il folcloristico
e corteggiato movimento “Occupy”, oppure come quello degli “indignados”, che si
concentravano sulla forma da utilizzare in assemblee senza progetto e senza
potere, sostituendo gli applausi con lo sventolio di mani.
Spesso,
questa vasta galassia ha prodotto risultati elettorali di una certa portata
numerica ma assolutamente ininfluenti nel mutamento dei rapporti produttivi. A
volte hanno dato vita a vere e proprie esperienze di tradimento degli interessi
delle classi popolari, come è accaduto in Grecia con il governo opportunista
della coalizione Syriza-Anel di Alexis Tsipras.
In
altri campi, l’ostilità manifesta e presuntuosa alle forme di organizzazione
consapevole dei partiti rivoluzionari della classe lavoratrice continua a
produrre sempre più piccoli orticelli di ribellismo fine a se stesso,
agevolmente controllati dagli ordinari strumenti di repressione del
capitalismo.
L’egemonia
culturale di fondo della liquidità ha penetrato non poco anche questi fenomeni
politici.
Naturalmente,
questa artefatta concezione della modernità possiede ben pochi fondamenti
oggettivi. Vi è chi conduce una critica scientifica sul metodo, sommessamente
ricordando come Zygmunt Bauman (nè pare alcuno dei suoi proseliti), una volta
definito cosa si intende per “società liquida”, non abbia mai condotto
un’indagine per trovare degli elementi verificabili in grado di dimostrare che
la società è liquida, non abbia mai individuato un campione rappresentativo di
elementi sociali e nemmeno abbia mai verificato quanti di questo campione
quanti sposino le caratteristiche della “liquidità” (L. Romei, Perché il
concetto della società liquida è infondato, huffingtonpost, 7.3.2016).
Molto
più semplicemente, come ogni analisi descrittivo-speculativa, il concetto di
società liquida non è nient’altro che uno strumento culturale della classe
economicamente dominante, la quale utilizza tutti gli strumenti dell’egemonia
culturale per l’affermazione di una tale comoda visione soggettiva.
Gli
aspetti dialettici ed oggettivi sono invece estremamente diversi, e scoppiano
nelle contraddizioni ormai non silenziabili.
Non
ci sono solo gli operai di Amiens che circondano sorridenti le promesse
demagogiche dell’estrema destra su nazionalizzazioni ed immigrazione.
Per
chi vuole essere attento, il primo maggio, non è solo fatto di antagonisti
manganellati, ma si veste sempre più di evidenti contestazioni dei concetti di
flessibilità e libertà del mercato del lavoro sdoganati dalla società
liquida.
Il
“no” dei lavoratori Alitalia all’ennesimo contratto capestro, gli scioperi della
logistica, dei lavoratori esternalizzati, degli addetti ai servizi di pulizia
degli ultimi giorni sono richiami sempre più vivi alla necessità di ricompattare
ed unire la classe lavoratrice in quello che è sempre stato il suo strumento più
efficiente: la lotta nei comparti produttivi di sfruttamento (soprattutto in
quelli cruciali per la produzione), con l’obiettivo di sostituire i detentori
dei mezzi di produzione, e non solamente di elemosinare diritti.
Spesso,
anche i sedicenti marxisti o postmarxisti si fanno così condizionare dalla
sciocchezza dell’analisi liquida della società che non sono in grado di
comprendere dove si verificano gli antagonismi tra classe e classe. Nei settori
summenzionati, il nemico non si è sciolto nei lavoratori, ma appare ben chiaro:
il padrone che ti licenzia perchè hai fatto l’esposto all’Ispettorato del
Lavoro, l’Ispettorato del Lavoro che non ti tutela, la legge e il giudice che
non ti reintegrano, il poliziotto che reprime il tuo sciopero, i crumiri che
impugnano il bastone dietro alla polizia per reprimere lo sciopero.
Tutto
questo succede.
Quel
nemico viene oltretutto combattuto in gangli vitale del capitalismo, come la
logistica, dove le azioni, magari di una piazza minuta, sortiscono grande
efficacia, perchè incidenti su fattori chiave della produzione. Ciò dovrebbe
suggerire interessanti prospettive di organizzazione.
Ma
oggi abbiamo molti in grado di parlare, moltissimi in grado o ansiosi di
lamentarsi, pochi in grado di ascoltare. Gramsci ascoltava. Se la Resistenza fu
in gran parte rossa, tra i suoi militanti, qualche merito va dato all’ascoltare,
al muoversi ed all’analizzare del politico comunista.
Se
gli operai di Amiens finiscono nelle braccia illusorie di una demagogia
destrorsa che non li ha mai storicamente aiutati, la colpa principale sta in chi
ha loro voltato le spalle ed ha “liquidato” per anni le loro contraddizioni in
un ostinato “europeismo” senza alcun senso reale.
Bisognerebbe
dare un bel calcio alla modernità liquida e a tutti i suoi sostenitori di
sistema e di “antisistema”, Ciò che serve al futuro delle classi lavoratrici non
è l’elemosina di politiche riformatrici dell’esistente, ormai irriformabile.
Serve un vero “principe” della classe operaia che possa prendere il potere per
essa, con essa e solo per essa. Un principe ovviamente costituito dalla loro
autonoma organizzazione collettiva.
Un
calcio alla liquidità ed ai liquidatori: ivi compresi gli interpreti rinnovati
di quest’ultima, che sublimano un nuovo tipo di rappresentanza borghese in
apparati di consenso organizzati e produttivi di esperienze politiche che non
mettono in discussione i vecchi e conosciuti rapporti di produzione basati sulla
proprietà privata degli assetti produttivi.
D’altronde,
dai palchi del primo maggio, ogni retorica sui “diritti” e la legalità è sempre
insopportabile a chi viene oppresso dalle leggi padronali. Almeno fin quando
quei “diritti” millantati in modo formale non vengano garantiti in modo
sostanziale al 100% dei cittadini, eliminando lo sfruttamento dell’uomo
sull’uomo, eliminando la proprietà privata dei mezzi di produzione.
Nessun commento:
Posta un commento