Carissimi.
Vi giro l’inchiesta
sulla Strage di Viareggio pubblicata sul Manifesto di ieri (alcuni di voi
l’avranno già letta) e l’aggiunta doverosa che ho inviato al giornale sul ruolo
di Medicina Democratica.
Saluti a
tutte/i
Gino
Carpentiero
* * * * *
LO
“SPIACEVOLE INCIDENTE” E DOPO SETTE ANNI NON E’ FINITA
Viareggio.
Le tappe della lotta per la
verità dei famigliari delle 32 vittime della strage.
Come per il rogo della
Thyssen-Krupp, i morti per eternit a Casale Monferrato, quelli uccisi
dall’amianto di Stato a Monfalcone, gli operai dell’Isochimica di Avellino,
quelli della Moby Prince, così come per le vittime della motonave Elisabetta
Montanari a Ravenna, anche per i famigliari delle vittime della strage di
Viareggio il rapporto tra mobilitazione popolare, conflitto e attività
processuale, è stato molto forte.
A sei mesi dalla tragedia, il
29 dicembre 2009 l’associazione dei parenti delle vittime insieme a molti
cittadini bloccarono due treni per attirare l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica, un intercity diretto a Livorno e un Eurostar con destinazione Genova; mentre nel febbraio dell’anno successivo si recarono a protestare fino al Parlamento europeo, e per scongiurare che l’approvazione del processo breve potesse impedire l’accertamento della verità, pochi giorni dopo sostarono davanti alla procura della Repubblica di Lucca per 32 ore, 60 minuti per ogni persona rimasta uccisa dall’incidente ferroviario.
cittadini bloccarono due treni per attirare l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica, un intercity diretto a Livorno e un Eurostar con destinazione Genova; mentre nel febbraio dell’anno successivo si recarono a protestare fino al Parlamento europeo, e per scongiurare che l’approvazione del processo breve potesse impedire l’accertamento della verità, pochi giorni dopo sostarono davanti alla procura della Repubblica di Lucca per 32 ore, 60 minuti per ogni persona rimasta uccisa dall’incidente ferroviario.
Il 21 aprile 2010 la Procura
di Lucca rende noto che ci sono degli indagati, mentre il 21 giugno dello stesso
anno comunica i nomi delle 18 persone già iscritte nel registro degli indagati,
tra i quali i tedeschi Joachim Lehamann 42 anni, Andreas Schroter 44 anni, Uwe
Kriebal 46 anni dell’officina Jungenthal di Hannover ed il mantovano Paolo
Pizzadini, 44 anni, della Cima riparazioni, mentre il 16 dicembre 2010 emette 38
avvisi di garanzia, e il 18 luglio 2013 il Gup Alessandro Dal Torrione decide
per il rinvio a giudizio di 33 imputati, e fissa al 13 novembre 2013 la data di
inizio della prima udienza del processo per la strage.
Finiscono tra gli indagati
manager del gruppo Ferrovie dello Stato come Mauro Moretti, insieme a dirigenti
di tre diverse aziende: la Gatx Rail proprietaria del convoglio; l’officina
tedesca Jugenthal che ne fece la revisione; e la Cima riparazioni che si occupò
del montaggio. I reati contestati vanno da disastro ferroviario, incendio
colposo, omicidio colposo plurimo, lesioni personali, illecito amministrativo e
violazione delle norme per la sicurezza sul lavoro. Il presidente del Consiglio
dei ministri Enrico Letta accetta la transizione economica e rinuncia a
costituirsi parte civile al processo
.
Il 31 gennaio 2017, dopo sette
anni e sette mesi e un giorno dalla tragedia, e 140 udienze, il tribunale di
Lucca emette la sentenza di primo grado condannando, tra gli imputati, a 7 anni
e 6 mesi di carcere Michele Mario Elia, nel 2009 ad di Rete Ferroviaria
Italiana, a 7 anni di carcere Mauro Moretti per il ruolo di ex amministratore
delegato di Rete Ferroviaria Italiana (l’accusa aveva chiesto 16 anni), e a 7
anni e 6 mesi Vincenzo Soprano, ex ad di Trenitalia e di Fs Logistica. Nove anni
e sei mesi, invece la pena inflitta a Rainer Kogelheide, amministratore di Gatx
Rail Germania, ed a Peter Linowski, responsabile sistemi di manutenzione di Gatx
Rail Germania. Nove anni per Johannes Mansbarth, amministratore delegato di Gatx
Rail Austria, e Uwe Konnecke, responsabile delle Officine Jungenthal di
Hannover. Otto per Andreas Schroter delle Officine Jungenthal, Helmut Brodel,
Uwe Kriebel, anche lui della Jungenthal. I 23 condannati sono accusati a vario
titolo di disastro ferroviario, incendio colposo, omicidio colposo plurimo,
lesioni personali.
Daniela Rombi, che ha perso la
figlia Emanuela, è una donna bionda dentro un corpo sofferente visibilmente
toccata da questa tragedia, ma che non ha perso mai il coraggio e la lucidità
che servono per lottare e difendersi. “E’ vero” - mi ha detto - “dopo niente è
stato più come prima. Quanto abbiamo dovuto sopportare, di brutte parole durante
i processi, sono caduti molto in basso”, dice con un tono addolorato. Mi
racconta che nel corso dei dibattimenti gli avvocati degli imputati si
lamentavano: “Quelli in fondo non mi salutano ha detto uno di loro” - mi fa -
“Ma chi difende chi ha ucciso mia figlia credo che possa decidere di non
salutarli”.
La sentenza di primo grado li
ha delusi, ma ora dovranno affrontare l’appello, non c’è tempo da
perdere. “La grande
mobilitazione è stata decisiva, abbiamo fatto quello che c’era da fare, siamo
sereni” - continua a raccontare scandendo con lentezza le frasi - “e di questo
sono orgogliosa, altrimenti non saprei come poter continuare a vivere. Perché
niente è davvero più come prima, siamo cambiati, abbiamo dovuto conoscere dei
mondi non conoscevamo”. Cittadini che si sono dovuti difendere dalla Stato,
dagli stessi partiti politici che hanno votato, dalle istituzioni in cui avevano
sempre creduto. “Sono fortunata ad avere incontrato altre persone, quelli del
comitato, ma sono costretta a continuare a vivere questa vita che mi è stata
imposta”.
La mobilitazione non si ferma.
L’associazione dei parenti delle vittime “Il mondo che vorrei” e quello dei
cittadini e ferrovieri riunito nel comitato “Assemblea 29 giugno”, intanto, un
risultato importante l’hanno ottenuto.
Mauro Moretti, uomo dei poteri
italiani con un passato da sindacalista nella FILT-CGIL come segretario
generale, ruolo che ha ricoperto dal 1986 al 1991, poi Amministratore Delegato
di Ferrovie dello Stato e di Finmeccanica, non è stato riconfermato alla guida
dell’azienda oggi denominata Leonardo proprio a causa della condanna subita,
nonostante dopo la strage di Viareggio la sua carriera sia continuata
inarrestabile. L’anno dopo l’inizio del processo, infatti, nel 2014, diventa
Amministratore Delegato di Finmeccanica designato dal governo Renzi, mentre il
Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il 31 maggio 2010, a meno di un
anno dalla strage, gli conferisce l’onorificenza di Cavaliere del lavoro. Cose
che fanno non poco indignare e riflettere.
Resterà celebre la sua frase,
che fece il giro del mondo, pronunciata durante un’audizione al Senato sei mesi
dopo la tragedia: “Vi prego di considerare che quest’anno, per la sicurezza a
parte questo spiacevolissimo episodio di Viareggio abbiamo ulteriormente
migliorato: siamo i primi in Europa”.
Angelo
Ferracuti, 16/04/17
© 2017 IL
NUOVO MANIFESTO SOCIETA’ COOP. EDITRICE
* * * *
*
LA
MEMORIA DI VIAREGGIO
Sette
anni dopo. Il sindacalista Antonini
racconta i luoghi della strage. “Sì, denunciare le colpe FS mi è costato il
posto ma lo rifarei”
La piccola stazione di
Viareggio nel primo pomeriggio è semideserta, sulle banchine assolate qualche
raro viaggiatore in attesa seduto sulle panchine bianche di marmo, l’aria di
desolazione degli scali di provincia. In alto, oltre il groviglio di cavi e
fili, oltre i binari che corrono verso l’orizzonte, svettano le Alpi apuane,
quelle montagne che a Fosco Maraini facevano pensare alla creazione del
mondo.
Lì incontro Riccardo Antonini,
il ferroviere licenziato perché s’è offerto di fare gratuitamente il consulente
per l’associazione dei famigliari delle 32 vittime della strage del 29 giugno
2009, quando deragliò il treno merci 50325 Trecate (Novara)-Gricignano (Caserta)
diretto a Castel di Principe, destinato all’Aversana Petroli della famiglia
Cosentino, con quattordici carri cisterna contenenti GPL che sferragliavano
sulle rotaie a una velocità di 90 chilometri orari e dal primo carro-merci si
sganciò una cisterna che prese fuoco.
E’ alto e magro, capelli e
barba argentati, un paio di occhiali con lenti scure. Mi mostra lo scambio 5B,
quello che viene definito “zampa di lepre”, dove il treno è “sviato”. Di fronte,
protetta da una gabbia metallica, l’imponente cisterna arrugginita sembra un
cetaceo dormiente. “Dopo quattro minuti dice il GPL è bruciato ed è divampato
l’incendio laggiù” - fa mostrandomi un gruppo di piccole case con gli intonaci
dalle tinte pastello sulla sinistra della rete ferroviaria, oltre un muro grigio
di cemento decorato dai murales, che quel giorno non c’era, nonostante i
cittadini del luogo avessero più volte chiesto di metterlo a protezione delle
abitazioni firmando già una petizione nel 2001.
“Vedi” - sostiene ancora
mostrandomi il binario - “lì il locomotore si è sganciato, la prima cisterna si
è ribaltata, poi si sono sviluppati incendi ed esplosioni che hanno investito
quella parte, tutte le abitazioni sono state avvolte dalle fiamme. Fortuna che
dopo una lunga e faticosa vertenza sindacale siamo riusciti a mantenere
personale di sorveglianza durante la notte, altrimenti ci sarebbero stati altri
morti”. Infatti, il capostazione dopo l’incendio riuscì a bloccare manualmente
un regionale e un Intercity, prima che i due convogli finissero anche loro nel
rogo.
In questa stazione periferica
alle 23,48 di quella notte si scatenò un inferno, quando la caldaia saltò in
aria le colonne di fuoco investirono cinque abitazioni bruciando le automobili
parcheggiate, propagandosi velocemente sull’asfalto e arrampicandosi
selvaggiamente sulle facciate degli edifici.
Bruciarono anche le traversine
di legno, i cavi elettrici e di trasmissione, le sterpaglie abbandonate lungo la
ferrovia. Le immagini scattate il giorno dopo dall’elicottero sono spaventose,
come una zona di guerra dopo un bombardamento. Tetti sfondati e mura squarciate,
interni sventrati e anneriti dal fumo, ceneri indistinte ancora fumanti lungo i
binari e tra quello che resta degli edifici.
Come tutte le tragedie anche
questa è una storia di sommersi e salvati. Un uomo coraggioso, Rolando
Pellegrini, prende di peso la moglie anziana da poco operata alle gambe e con la
forza della disperazione la trascina da una porta laterale prima che crolli
tutto, qualcuno riesce a scappare, come Adriana Cosci, che col marito Paolo
Crivello sentono il botto del treno che deragliava e riescono a fuggire sul
tetto, una donna avvolta dalle fiamme come un bonzo corre in strada urlando a
squarciagola cercando di strapparsi i vestiti di dosso, un grosso pezzo di
metallo colpisce frontalmente un uomo e lo scaraventa a terra uccidendolo. “C’è
un signore che non si muove sdraiato in strada. C’è fuoco ovunque, vi prego
mandate qualcuno”, urla al telefono una donna. “E’ esploso un treno alla
stazione”, grida una voce disperata alla centralinista del 118 quella notte. Una
palazzina, dove vivono 18 persone, crolla, sbriciolandosi.
Tra i morti di via Ponchielli
anche il giovane marocchino Hamza Ayad di 16 anni, che in un’altra abitazione
era riuscito a sopravvivere liberandosi tra le macerie, ma era voluto tornare
indietro, vagando tra le fiamme e il fumo denso, per portare in salvo la
sorellina Iman di 3 anni.
Purtroppo non ce l’ha fatta,
il gas lo ha soffocato, e ha perso i sensi prima di riuscire a trovarla. Sono
morti entrambi, insieme ai genitori Aziza e Mohammed, di 46 e 51 anni. L’anziana
Angela Monelli invece è stata colta da infarto per lo spavento, mentre la
ventunenne Emanuela Menichetti si trovava per caso nell’abitazione della sua
amica e collega di lavoro Sara Orsi, stavano giocando a carte sul letto quando
sono state travolte dalle fiamme. Alle tre del mattino i genitori ricevono una
sua telefonata dall’ospedale Cisanello di Pisa, dice “sto bene, non mi sono
fatta niente”, poi, ustionata al 98%, va in coma per via di una infezione, e
morirà dopo 42 giorni di agonia.
L’ultima ad andarsene è
Elisabeth Silva Teran Guadalupe, di 36 anni, originaria dell’Ecuador, che
resistette fino al 22 dicembre, sei mesi dopo la tragedia, deceduta quando
pensava già che sarebbe sopravvissuta.
Marco Piagentini, presidente
dell’associazione dei parenti delle vittime “Il mondo che vorrei” si è salvato,
ma ha subito sessanta interventi di chirurgia estetica e ha perso la moglie e
due figli piccoli, di due e quattro anni; il primo arso vivo dentro la sua auto
mentre stava cercando di metterlo in salvo, l’altro rimasto bruciato mentre sua
madre lo teneva stretto in braccio. Il terzo restò intrappolato per ore sotto le
macerie, protetto da un materasso, ma riuscì a scampare alla
tragedia.
“Pensa, un uomo che passava in
motorino dalla parte opposta, è morto perché è scattato il rosso del semaforo” -
racconta ancora Antonini rattristato mentre passeggiamo lungo la banchina.
Rosario Campo faceva il falegname, aveva 42 anni, fu avvolto dalle fiamme e morì
carbonizzato per uno scherzo del destino.
“Noi l’abbiamo sempre chiamata
strage. Si è trattato di un incidente sul lavoro che si è trasformato in un
disastro ferroviario e ha provocato la strage con 32 morti” - precisa il
ferroviere che per aver sposato la causa delle vittime offrendosi gratuitamente
come consulente ha perso il posto di lavoro nel novembre 2011.
Tutto cominciò il 30 giugno di
due anni prima, il giorno dopo la strage, quando proprio in questa stazione
ascolta l’Amministratore Delegato del gruppo Ferrovie dello Stato Mauro Moretti
che dice a un funzionario: “D’ora in avanti dobbiamo controllare tutto quello
che viene dall’estero”, lasciando intendere che prima di allora non veniva
fatto, un quotidiano lo riporta; mentre nel corso di una riunione nella sede
della Regione Toscana a Firenze, sempre il manager dice del ferroviere ribelle:
“Quello lì primo o poi lo licenzio”.
Ma lo scontro continua durante
l’incidente probatorio, quando Antonini litigò con i legali di quello che poi
era diventato Amministratore Delegato di Finmeccanica. “Dissi che la colpa era
dovuta alla manutenzione, che non veniva più fatta, che era mancata la
sicurezza”. Fuori dalla gabbia metallica trecento persone inferocite che
gridavano, lanciavano oggetti e battevano contro la rete. Per lui il frutto di
scelte strategiche dell’azienda che in 25 anni ha ridimensionato il personale da
224.000 a 68.000 unità, cominciate quando Mario Schimberni, allora a capo di FS,
introdusse il concetto di “sicurezza relativa”.
“Invece per la strage di
Viareggio i legali delle Ferrovie hanno invocato il Cigno nero, un evento che si
può prevedere solo a posteriori, capisci?” - dice indignato mentre ci spostiamo
sulla banchina del secondo binario - “Dopo è arrivata la diffida per conflitto
d’interessi, alla quale non ho ottemperato, sono stato sospeso dieci giorni, poi
il licenziamento”, confermato dalla Cassazione solo una decina di giorni
fa.
Ma lui anche questa volta non
ha fatto una piega - “sono un militante politico, sono nato nei partigiani,
quando i famigliari delle vittime mi dicevano che stavo rischiando troppo, che
non era giusto, rispondevo loro che un licenziamento rispetto a 32 vittime ci
deve far sorridere, magari fossero stati 32 licenziamenti”.
A Moretti, che sprezzante
aveva detto che l’incidente era stato solo “uno spiacevole episodio”,
minimizzando in modo disumano l’accaduto, gli aveva mandato a dire ironizzando
che il suo licenziamento spiacevole lo era veramente, ma risolvibile. “Gli
ribaltai la storia” - dice ora soddisfatto.
Più tardi raggiungiamo via
Ponchielli, dove è avvenuta la strage. Adesso le piccole case, strette una
sull’altra, sono state tutte ricostruite a qualche centinaio di metri di
distanza.
Davanti, dove si trovavano
prima, c’è il prato verde rigoglioso, dove sono stati piantati 32 alberi, e al
centro il cippo in marmo bianco di Carrara con dentro incisi tutti i nomi delle
vittime innocenti, 23 italiani, 7 marocchini, 2 ecuadoregni e un rumeno. Poco
più avanti c’è la Casetta della Memoria, intitolata a due motociclisti dai
soprannomi buffi, Pulce e Scarburato, morti nel rogo, un reliquiario laico con
dentro oggetti appartenuti alle vittime: peluche e pupazzi, foto, un vecchio
telefono in bachelite deformato dalle bruciature, alcuni manifesti funebri, i
tanti articoli di giornale.
La stazione è stato il luogo
della lotta e del ricordo, un luogo simbolico e teatro della protesta, occupata
anche quando Moretti nel 2014 diventò Amministratore Delegato di Finmeccanica
nonostante le pesanti accuse e un processo in corso. “Siamo venuti qui e abbiamo
fermato un Intercity. Gli agenti della Digos volevano bloccarci, ma ho detto non
fate frullare i manganelli, tanto noi andiamo sui binari”. C’era anche l’attore
Paolo Rossi sopra quel treno, scese e fece un breve discorso solidarizzando con
i manifestanti, poi risalì. E a due minuti alla mezzanotte tornano lì tutti i 29
del mese, “che piova o nevichi, freddo o caldo, noi si viene qui” - dice
commosso - “e l’ultimo treno che passa da Lucca fischia in segno di
solidarietà”.
Il regista Mario Monicelli,
molto legato d’affetto alla città, e da questa ricambiato prima di morire aveva
scritto una lettera toccante ai parenti delle vittime: “Il Paese è allo sfascio,
alla deriva e la strage di Viareggio esprime bene il declino dell’Italia. Quei
trentadue morti sono lì a indicarci l’incuria, l’arroganza di chi governa. Mi
chiedo ancora come si possa far passare a quella velocità un treno con esplosivo
senza avvisare del suo passaggio, senza precauzioni, senza prendersi cura della
gente”.
Angelo
Ferracuti, 16/04/17
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