mercoledì 3 maggio 2017

pc 3 maggio - La strage di Viareggio in un film e in due testimonianze: non dimenticare - continuare la lotta contro il licenziamento di Riccardo Antonini


INCHIESTA SU VIAREGGIO DEL MANIFESTO

Carissimi.
Vi giro l’inchiesta sulla Strage di Viareggio pubblicata sul Manifesto di ieri (alcuni di voi l’avranno già letta) e l’aggiunta doverosa che ho inviato al giornale sul ruolo di Medicina Democratica.
Saluti a tutte/i
Gino Carpentiero

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LO “SPIACEVOLE INCIDENTE” E DOPO SETTE ANNI NON E’ FINITA
Viareggio. Le tappe della lotta per la verità dei famigliari delle 32 vittime della strage.
Come per il rogo della Thyssen-Krupp, i morti per eternit a Casale Monferrato, quelli uccisi dall’amianto di Stato a Monfalcone, gli operai dell’Isochimica di Avellino, quelli della Moby Prince, così come per le vittime della motonave Elisabetta Montanari a Ravenna, anche per i famigliari delle vittime della strage di Viareggio il rapporto tra mobilitazione popolare, conflitto e attività processuale, è stato molto forte.
A sei mesi dalla tragedia, il 29 dicembre 2009 l’associazione dei parenti delle vittime insieme a molti
cittadini bloccarono due treni per attirare l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica, un intercity diretto a Livorno e un Eurostar con destinazione Genova; mentre nel febbraio dell’anno successivo si recarono a protestare fino al Parlamento europeo, e per scongiurare che l’approvazione del processo breve potesse impedire l’accertamento della verità, pochi giorni dopo sostarono davanti alla procura della Repubblica di Lucca per 32 ore, 60 minuti per ogni persona rimasta uccisa dall’incidente ferroviario.
Il 21 aprile 2010 la Procura di Lucca rende noto che ci sono degli indagati, mentre il 21 giugno dello stesso anno comunica i nomi delle 18 persone già iscritte nel registro degli indagati, tra i quali i tedeschi Joachim Lehamann 42 anni, Andreas Schroter 44 anni, Uwe Kriebal 46 anni dell’officina Jungenthal di Hannover ed il mantovano Paolo Pizzadini, 44 anni, della Cima riparazioni, mentre il 16 dicembre 2010 emette 38 avvisi di garanzia, e il 18 luglio 2013 il Gup Alessandro Dal Torrione decide per il rinvio a giudizio di 33 imputati, e fissa al 13 novembre 2013 la data di inizio della prima udienza del processo per la strage.
Finiscono tra gli indagati manager del gruppo Ferrovie dello Stato come Mauro Moretti, insieme a dirigenti di tre diverse aziende: la Gatx Rail proprietaria del convoglio; l’officina tedesca Jugenthal che ne fece la revisione; e la Cima riparazioni che si occupò del montaggio. I reati contestati vanno da disastro ferroviario, incendio colposo, omicidio colposo plurimo, lesioni personali, illecito amministrativo e violazione delle norme per la sicurezza sul lavoro. Il presidente del Consiglio dei ministri Enrico Letta accetta la transizione economica e rinuncia a costituirsi parte civile al processo
.
Il 31 gennaio 2017, dopo sette anni e sette mesi e un giorno dalla tragedia, e 140 udienze, il tribunale di Lucca emette la sentenza di primo grado condannando, tra gli imputati, a 7 anni e 6 mesi di carcere Michele Mario Elia, nel 2009 ad di Rete Ferroviaria Italiana, a 7 anni di carcere Mauro Moretti per il ruolo di ex amministratore delegato di Rete Ferroviaria Italiana (l’accusa aveva chiesto 16 anni), e a 7 anni e 6 mesi Vincenzo Soprano, ex ad di Trenitalia e di Fs Logistica. Nove anni e sei mesi, invece la pena inflitta a Rainer Kogelheide, amministratore di Gatx Rail Germania, ed a Peter Linowski, responsabile sistemi di manutenzione di Gatx Rail Germania. Nove anni per Johannes Mansbarth, amministratore delegato di Gatx Rail Austria, e Uwe Konnecke, responsabile delle Officine Jungenthal di Hannover. Otto per Andreas Schroter delle Officine Jungenthal, Helmut Brodel, Uwe Kriebel, anche lui della Jungenthal. I 23 condannati sono accusati a vario titolo di disastro ferroviario, incendio colposo, omicidio colposo plurimo, lesioni personali.
Daniela Rombi, che ha perso la figlia Emanuela, è una donna bionda dentro un corpo sofferente visibilmente toccata da questa tragedia, ma che non ha perso mai il coraggio e la lucidità che servono per lottare e difendersi. “E’ vero” - mi ha detto - “dopo niente è stato più come prima. Quanto abbiamo dovuto sopportare, di brutte parole durante i processi, sono caduti molto in basso”, dice con un tono addolorato. Mi racconta che nel corso dei dibattimenti gli avvocati degli imputati si lamentavano: “Quelli in fondo non mi salutano ha detto uno di loro” - mi fa - “Ma chi difende chi ha ucciso mia figlia credo che possa decidere di non salutarli”.
La sentenza di primo grado li ha delusi, ma ora dovranno affrontare l’appello, non c’è tempo da
perdere. “La grande mobilitazione è stata decisiva, abbiamo fatto quello che c’era da fare, siamo sereni” - continua a raccontare scandendo con lentezza le frasi - “e di questo sono orgogliosa, altrimenti non saprei come poter continuare a vivere. Perché niente è davvero più come prima, siamo cambiati, abbiamo dovuto conoscere dei mondi non conoscevamo”. Cittadini che si sono dovuti difendere dalla Stato, dagli stessi partiti politici che hanno votato, dalle istituzioni in cui avevano sempre creduto. “Sono fortunata ad avere incontrato altre persone, quelli del comitato, ma sono costretta a continuare a vivere questa vita che mi è stata imposta”.
La mobilitazione non si ferma. L’associazione dei parenti delle vittime “Il mondo che vorrei” e quello dei cittadini e ferrovieri riunito nel comitato “Assemblea 29 giugno”, intanto, un risultato importante l’hanno ottenuto.
Mauro Moretti, uomo dei poteri italiani con un passato da sindacalista nella FILT-CGIL come segretario generale, ruolo che ha ricoperto dal 1986 al 1991, poi Amministratore Delegato di Ferrovie dello Stato e di Finmeccanica, non è stato riconfermato alla guida dell’azienda oggi denominata Leonardo proprio a causa della condanna subita, nonostante dopo la strage di Viareggio la sua carriera sia continuata inarrestabile. L’anno dopo l’inizio del processo, infatti, nel 2014, diventa Amministratore Delegato di Finmeccanica designato dal governo Renzi, mentre il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il 31 maggio 2010, a meno di un anno dalla strage, gli conferisce l’onorificenza di Cavaliere del lavoro. Cose che fanno non poco indignare e riflettere.
Resterà celebre la sua frase, che fece il giro del mondo, pronunciata durante un’audizione al Senato sei mesi dopo la tragedia: “Vi prego di considerare che quest’anno, per la sicurezza a parte questo spiacevolissimo episodio di Viareggio abbiamo ulteriormente migliorato: siamo i primi in Europa”.
Angelo Ferracuti, 16/04/17
© 2017 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETA’ COOP. EDITRICE
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LA MEMORIA DI VIAREGGIO
Sette anni dopo. Il sindacalista Antonini racconta i luoghi della strage. “Sì, denunciare le colpe FS mi è costato il posto ma lo rifarei”
La piccola stazione di Viareggio nel primo pomeriggio è semideserta, sulle banchine assolate qualche raro viaggiatore in attesa seduto sulle panchine bianche di marmo, l’aria di desolazione degli scali di provincia. In alto, oltre il groviglio di cavi e fili, oltre i binari che corrono verso l’orizzonte, svettano le Alpi apuane, quelle montagne che a Fosco Maraini facevano pensare alla creazione del mondo.
Lì incontro Riccardo Antonini, il ferroviere licenziato perché s’è offerto di fare gratuitamente il consulente per l’associazione dei famigliari delle 32 vittime della strage del 29 giugno 2009, quando deragliò il treno merci 50325 Trecate (Novara)-Gricignano (Caserta) diretto a Castel di Principe, destinato all’Aversana Petroli della famiglia Cosentino, con quattordici carri cisterna contenenti GPL che sferragliavano sulle rotaie a una velocità di 90 chilometri orari e dal primo carro-merci si sganciò una cisterna che prese fuoco.
E’ alto e magro, capelli e barba argentati, un paio di occhiali con lenti scure. Mi mostra lo scambio 5B, quello che viene definito “zampa di lepre”, dove il treno è “sviato”. Di fronte, protetta da una gabbia metallica, l’imponente cisterna arrugginita sembra un cetaceo dormiente. “Dopo quattro minuti dice il GPL è bruciato ed è divampato l’incendio laggiù” - fa mostrandomi un gruppo di piccole case con gli intonaci dalle tinte pastello sulla sinistra della rete ferroviaria, oltre un muro grigio di cemento decorato dai murales, che quel giorno non c’era, nonostante i cittadini del luogo avessero più volte chiesto di metterlo a protezione delle abitazioni firmando già una petizione nel 2001.
“Vedi” - sostiene ancora mostrandomi il binario - “lì il locomotore si è sganciato, la prima cisterna si è ribaltata, poi si sono sviluppati incendi ed esplosioni che hanno investito quella parte, tutte le abitazioni sono state avvolte dalle fiamme. Fortuna che dopo una lunga e faticosa vertenza sindacale siamo riusciti a mantenere personale di sorveglianza durante la notte, altrimenti ci sarebbero stati altri morti”. Infatti, il capostazione dopo l’incendio riuscì a bloccare manualmente un regionale e un Intercity, prima che i due convogli finissero anche loro nel rogo.
In questa stazione periferica alle 23,48 di quella notte si scatenò un inferno, quando la caldaia saltò in aria le colonne di fuoco investirono cinque abitazioni bruciando le automobili parcheggiate, propagandosi velocemente sull’asfalto e arrampicandosi selvaggiamente sulle facciate degli edifici.
Bruciarono anche le traversine di legno, i cavi elettrici e di trasmissione, le sterpaglie abbandonate lungo la ferrovia. Le immagini scattate il giorno dopo dall’elicottero sono spaventose, come una zona di guerra dopo un bombardamento. Tetti sfondati e mura squarciate, interni sventrati e anneriti dal fumo, ceneri indistinte ancora fumanti lungo i binari e tra quello che resta degli edifici.
Come tutte le tragedie anche questa è una storia di sommersi e salvati. Un uomo coraggioso, Rolando Pellegrini, prende di peso la moglie anziana da poco operata alle gambe e con la forza della disperazione la trascina da una porta laterale prima che crolli tutto, qualcuno riesce a scappare, come Adriana Cosci, che col marito Paolo Crivello sentono il botto del treno che deragliava e riescono a fuggire sul tetto, una donna avvolta dalle fiamme come un bonzo corre in strada urlando a squarciagola cercando di strapparsi i vestiti di dosso, un grosso pezzo di metallo colpisce frontalmente un uomo e lo scaraventa a terra uccidendolo. “C’è un signore che non si muove sdraiato in strada. C’è fuoco ovunque, vi prego mandate qualcuno”, urla al telefono una donna. “E’ esploso un treno alla stazione”, grida una voce disperata alla centralinista del 118 quella notte. Una palazzina, dove vivono 18 persone, crolla, sbriciolandosi.
Tra i morti di via Ponchielli anche il giovane marocchino Hamza Ayad di 16 anni, che in un’altra abitazione era riuscito a sopravvivere liberandosi tra le macerie, ma era voluto tornare indietro, vagando tra le fiamme e il fumo denso, per portare in salvo la sorellina Iman di 3 anni.
Purtroppo non ce l’ha fatta, il gas lo ha soffocato, e ha perso i sensi prima di riuscire a trovarla. Sono morti entrambi, insieme ai genitori Aziza e Mohammed, di 46 e 51 anni. L’anziana Angela Monelli invece è stata colta da infarto per lo spavento, mentre la ventunenne Emanuela Menichetti si trovava per caso nell’abitazione della sua amica e collega di lavoro Sara Orsi, stavano giocando a carte sul letto quando sono state travolte dalle fiamme. Alle tre del mattino i genitori ricevono una sua telefonata dall’ospedale Cisanello di Pisa, dice “sto bene, non mi sono fatta niente”, poi, ustionata al 98%, va in coma per via di una infezione, e morirà dopo 42 giorni di agonia.
L’ultima ad andarsene è Elisabeth Silva Teran Guadalupe, di 36 anni, originaria dell’Ecuador, che resistette fino al 22 dicembre, sei mesi dopo la tragedia, deceduta quando pensava già che sarebbe sopravvissuta.
Marco Piagentini, presidente dell’associazione dei parenti delle vittime “Il mondo che vorrei” si è salvato, ma ha subito sessanta interventi di chirurgia estetica e ha perso la moglie e due figli piccoli, di due e quattro anni; il primo arso vivo dentro la sua auto mentre stava cercando di metterlo in salvo, l’altro rimasto bruciato mentre sua madre lo teneva stretto in braccio. Il terzo restò intrappolato per ore sotto le macerie, protetto da un materasso, ma riuscì a scampare alla tragedia.
“Pensa, un uomo che passava in motorino dalla parte opposta, è morto perché è scattato il rosso del semaforo” - racconta ancora Antonini rattristato mentre passeggiamo lungo la banchina. Rosario Campo faceva il falegname, aveva 42 anni, fu avvolto dalle fiamme e morì carbonizzato per uno scherzo del destino.
“Noi l’abbiamo sempre chiamata strage. Si è trattato di un incidente sul lavoro che si è trasformato in un disastro ferroviario e ha provocato la strage con 32 morti” - precisa il ferroviere che per aver sposato la causa delle vittime offrendosi gratuitamente come consulente ha perso il posto di lavoro nel novembre 2011.
Tutto cominciò il 30 giugno di due anni prima, il giorno dopo la strage, quando proprio in questa stazione ascolta l’Amministratore Delegato del gruppo Ferrovie dello Stato Mauro Moretti che dice a un funzionario: “D’ora in avanti dobbiamo controllare tutto quello che viene dall’estero”, lasciando intendere che prima di allora non veniva fatto, un quotidiano lo riporta; mentre nel corso di una riunione nella sede della Regione Toscana a Firenze, sempre il manager dice del ferroviere ribelle: “Quello lì primo o poi lo licenzio”.
Ma lo scontro continua durante l’incidente probatorio, quando Antonini litigò con i legali di quello che poi era diventato Amministratore Delegato di Finmeccanica. “Dissi che la colpa era dovuta alla manutenzione, che non veniva più fatta, che era mancata la sicurezza”. Fuori dalla gabbia metallica trecento persone inferocite che gridavano, lanciavano oggetti e battevano contro la rete. Per lui il frutto di scelte strategiche dell’azienda che in 25 anni ha ridimensionato il personale da 224.000 a 68.000 unità, cominciate quando Mario Schimberni, allora a capo di FS, introdusse il concetto di “sicurezza relativa”.
“Invece per la strage di Viareggio i legali delle Ferrovie hanno invocato il Cigno nero, un evento che si può prevedere solo a posteriori, capisci?” - dice indignato mentre ci spostiamo sulla banchina del secondo binario - “Dopo è arrivata la diffida per conflitto d’interessi, alla quale non ho ottemperato, sono stato sospeso dieci giorni, poi il licenziamento”, confermato dalla Cassazione solo una decina di giorni fa.
Ma lui anche questa volta non ha fatto una piega - “sono un militante politico, sono nato nei partigiani, quando i famigliari delle vittime mi dicevano che stavo rischiando troppo, che non era giusto, rispondevo loro che un licenziamento rispetto a 32 vittime ci deve far sorridere, magari fossero stati 32 licenziamenti”.
A Moretti, che sprezzante aveva detto che l’incidente era stato solo “uno spiacevole episodio”, minimizzando in modo disumano l’accaduto, gli aveva mandato a dire ironizzando che il suo licenziamento spiacevole lo era veramente, ma risolvibile. “Gli ribaltai la storia” - dice ora soddisfatto.
Più tardi raggiungiamo via Ponchielli, dove è avvenuta la strage. Adesso le piccole case, strette una sull’altra, sono state tutte ricostruite a qualche centinaio di metri di distanza.
Davanti, dove si trovavano prima, c’è il prato verde rigoglioso, dove sono stati piantati 32 alberi, e al centro il cippo in marmo bianco di Carrara con dentro incisi tutti i nomi delle vittime innocenti, 23 italiani, 7 marocchini, 2 ecuadoregni e un rumeno. Poco più avanti c’è la Casetta della Memoria, intitolata a due motociclisti dai soprannomi buffi, Pulce e Scarburato, morti nel rogo, un reliquiario laico con dentro oggetti appartenuti alle vittime: peluche e pupazzi, foto, un vecchio telefono in bachelite deformato dalle bruciature, alcuni manifesti funebri, i tanti articoli di giornale.
La stazione è stato il luogo della lotta e del ricordo, un luogo simbolico e teatro della protesta, occupata anche quando Moretti nel 2014 diventò Amministratore Delegato di Finmeccanica nonostante le pesanti accuse e un processo in corso. “Siamo venuti qui e abbiamo fermato un Intercity. Gli agenti della Digos volevano bloccarci, ma ho detto non fate frullare i manganelli, tanto noi andiamo sui binari”. C’era anche l’attore Paolo Rossi sopra quel treno, scese e fece un breve discorso solidarizzando con i manifestanti, poi risalì. E a due minuti alla mezzanotte tornano lì tutti i 29 del mese, “che piova o nevichi, freddo o caldo, noi si viene qui” - dice commosso - “e l’ultimo treno che passa da Lucca fischia in segno di solidarietà”.
Il regista Mario Monicelli, molto legato d’affetto alla città, e da questa ricambiato prima di morire aveva scritto una lettera toccante ai parenti delle vittime: “Il Paese è allo sfascio, alla deriva e la strage di Viareggio esprime bene il declino dell’Italia. Quei trentadue morti sono lì a indicarci l’incuria, l’arroganza di chi governa. Mi chiedo ancora come si possa far passare a quella velocità un treno con esplosivo senza avvisare del suo passaggio, senza precauzioni, senza prendersi cura della gente”.

Angelo Ferracuti, 16/04/17

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