Inizia un procedimento penale per 67 persone che si sono trovate a difendere un principio di giustizia davanti ai cancelli di Italpizza.
Ricordiamo alcuni passaggi:
- A dicembre del 2018 viene comunicata la costituzione del sindacato SI-Cobas presso due delle cooperative che gestiscono le quasi mille persone impiegate nel cantiere Italpizza che lavorano con il contratto “Pulizie – Multiservizi”; sono le 10,00 del mattino e la pec parte dall’ufficio del legale, perché si contestano anche diversi illeciti;
- Alle ore 12,00 di quello stesso giorno tutte le donne iscritte al sindacato ricevono una comunicazione di spostamento della sede di lavoro: la maggior parte debbono andare a Bologna per “improrogabili esigenze di servizio”;
- Quello stesso pomeriggio il SI-Cobas apre lo stato di agitazione, lamentando che lo spostamento richiesto si configurava come un licenziamento mascherato, data l’impossibilità per diverse di loro di effettuare quel tipo di spostamento, aggravato dall’assenza di ogni tipo di preavviso perché l’ordine arriva oggi per domani.
L’attacco padronale è immediatamente
durissimo, con un padrone che non intende sedersi ad alcun tavolo di
trattativa che non sia presso la prefettura, in cui le lavoratrici ed i
lavoratori vengono reintegrati nel cantiere.
Tuttavia, dato che i lavoratori chiedono
di avere il contratto alimentari (sembrava che nessuno sapesse che
facevano pizze), vengono tutte e tutti messi a fare pulizie, alcune
degradanti, altre a rischio vita, poiché le donne vengono mandate sul
tetto a pulire i vetri senza nessuna imbragatura di sicurezza nel
periodo della neve, quindi della massima scivolosità della struttura.
Lavoratrici e lavoratori reagiscono ai
soprusi con la resistenza passiva, per poi scoprire che i poliziotti che
li gasavano, dotati di manganelli, scudi, parastinchi, strutture atte
ad affrontare i corpo a corpo sono stati misteriosamente sopraffatti da
donne e uomini seduti a terra.
Un tempo in questa città operaie ed
operai erano una categoria rispettata ed ascoltata: oggi sono diventati
criminali da processare? Perchè sono ormai quasi quattrocento le operaie
e gli operai indagati nel tribunale di Modena.
Cosa è successo?
E soprattutto: Vi sembra giusto?
***
di Giovanni Iozzoli (*), 4 set. 2020
Dici
“maxiprocesso” e vengono alla mente le memorie complicate degli anni
’80 – Michele Greco e Pippo Calò dietro il gabbione dell’aula bunker di
una
Palermo insanguinata, centinaia di imputati, gli elicotteri volteggianti sui tetti del palazzo di giustizia. Bene, dimentichiamoci di quell’anticaglia. Ci sono un paio di nuovi maxiprocessi in pista; lo scenario sarà meno melodrammatico e di telecamere ne vedremo pochine. Anche Modena è meno affascinante, come location criminal-giudiziaria. Però è proprio nell’amena cittadina estense che si celebreranno due surreali maxiprocedimenti giudiziari: alla sbarra non ci saranno boss mafiosi e sicari, ma padri e madri di famiglia – classe operaia del segmento modenese più povero e precario –, accusati di aver lottato per difendere la propria condizione.
Palermo insanguinata, centinaia di imputati, gli elicotteri volteggianti sui tetti del palazzo di giustizia. Bene, dimentichiamoci di quell’anticaglia. Ci sono un paio di nuovi maxiprocessi in pista; lo scenario sarà meno melodrammatico e di telecamere ne vedremo pochine. Anche Modena è meno affascinante, come location criminal-giudiziaria. Però è proprio nell’amena cittadina estense che si celebreranno due surreali maxiprocedimenti giudiziari: alla sbarra non ci saranno boss mafiosi e sicari, ma padri e madri di famiglia – classe operaia del segmento modenese più povero e precario –, accusati di aver lottato per difendere la propria condizione.
I processi riguarderanno due vertenze
importanti, quella consumatasi ai cancelli dell’azienda Alcar Uno di
Castelnuovo Rangone, e quella relativa alla rinomata Italpizza di Modena
– vertenze assurte agli onori della cronaca nazionale, in tempi diversi
e per ragioni diverse. La Alcar Uno, storico marchio della lavorazione
carni suine, è stata anche il teatro, oltre che di una dura battaglia
sindacale, del gaglioffo tentativo di incastrare Aldo Milani, incappato
nel 2017 in una provocazione dagli esiti fallimentari; mentre la
vertenza Italpizza, ha investito un’eccellenza dell’export italiano,
vezzeggiata e iper-protetta dalla politica locale .
Gli inquisiti-operai sono
sostanzialmente accusati di aver picchettato i cancelli di aziende in
cui hanno speso anni e anni della loro vita – ivi producendo valore e
profitti. Nell’impostazione della Procura, lo sciopero è l’arma del
reato. La busta paga e la dignità, il movente. La scena del delitto: la
precarietà, i cambi appalto, le finte cooperative, l’abuso di contratti
penalizzanti – le storie tristemente comuni, ormai di massa, dell’Emilia
di oggi.
C’è maxiprocesso e maxiprocesso. A
Modena, sul banco degli imputati non troveremo il ghigno torbido di
Luciano Liggio: bensì le facce spaurite, scocciate e vagamente perplesse
di Maria, Hamed, Salvatore, Johnny, Fariba e chissà quanti altri,
increduli circa la loro collocazione sul banco degli accusati. Ognuno di
loro dovrà rispondere dei consueti reati di piazza –
resistenzaoltraggiolesioni – aggravati dal sovraccarico penale dei
decreti Salvini.
Per ognuno di questi imputati sono state
raccolte e depositate dettagliatissime notizie di reato: tutto quello
che nel corso dei picchetti, dei canonici “tafferugli” o dei normali
presidi, nel corso di mesi, hanno fatto, non fatto, e persino quello che
hanno detto, parola per parola; tutto riportato (con esiti qua e là di
involontario umorismo), nero su bianco nell’avviso di conclusione delle
indagini. Quasi duecento persone, sommando i due processi. Uno sforzo di
trascrizione enorme che avrà tenuto impegnato un esercito di funzionari
per chissà quanto tempo. Ce li immaginiamo a sbobinare e visionare ore e
ore di filmati e discutere circa l’attribuzione dei reati: “Tizio ha detto ‛sbirro di merda’, Caio ha dato una spinta al sovrintendente…“.
Sarebbe bello quantificare i costi di
queste delicate operazioni di intelligence giudiziaria. Confrontarli con
tutta la retorica imperante sulla sicurezza. Chiamare la Corte dei
Conti a farli, due conti, per capire dove e come si decide di investire
le risorse del sistema giustizia, sempre cronicamente deficitario: chi
ha deciso che le “priorità dell’azione penale” in questi territori
dovessero riguardare scioperi e presidi? Negli atti si citano gli
immancabili referti medici prodotti dalla polizia – in massima parte i
classici “tre giorni” (che non si danno neanche per un unghia
incarnita). Un certificato di 30 giorni lascia a bocca aperta: qualche
farcitrice di pizza karateka deve essere esplosa in una rabbia
incontrollata, in mezzo al fumo perenne dei centinaia di lacrimogeni che
erano la vera costante di quei presidi in località S. Donnino.
C’è l’Italia, in quelle carte della
Procura di Modena. L’Italia che non compare mai nei tiggi, l’Italia
profonda, della provincia estrema, dove sembra che non accade mai niente
e invece sta succedendo tutto. Tante volte la lettura delle carte
giudiziarie ha raccontato questo paese, meglio di giornalisti e
scrittori; basti ricordare proprio gli atti del processo Milani, in cui
poche intercettazioni fulminanti, finite sui giornali, spiegavano senza
equivoci che tipo di rapporto intercorre tra i vertici delle aziende e
quelli di certe questure italiane. Raccontare in modo spietato e dolente
il presente di un paese mai così livido, cupo, diviso: siamo sicuri che
i maxiprocessi di Modena assolveranno egregiamente a questa funzione.
Tra cent’anni, gli storici del futuro
rileggeranno questi “avvisi di fine indagine” e cercheranno di capire
quale pericolo criminale incombesse nella terra dei motori e del
lambrusco, per organizzare processi così maniacalmente persecutori; si
chiederanno chi fossero queste centinaia di imputati, perché meritassero
tante attenzioni, quale pericolo sociale incarnassero, a quale scandalo
avessero dato corpo, per meritare un simile sforzo delle legittime
autorità. Sì, quale scandalo? Vallo a raccontare ai posteri. La colpa di
quei reprobi è stata quella di aver dato visibilità alla condizione
operaia oggi; l’aver reso pubblico quello che tutti – ispettorati,
sindacati complici, amministratori, magistrati, economisti – sapevano e
fingevano di ignorare. Con la loro iniziativa, hanno rivelato che nei
primi vent’anni del Ventunesimo secolo, il miracolo del manifatturiero
emiliano – arrambante ed esportatore – ha prodotto dipendenti precari,
poveri, ricattati, nell’illusione che la “competitività” si potesse fare
ormai solo giocando sulla condizione e i costi della forza lavoro.
Lo scandalo è aver scoperchiato un
pentolone di cui nessuno voleva sentire l’odore; perché gli insaccati
sono saporiti ma guai a guardarci troppo dentro: agli ingredienti come
ai rapporti di lavoro. E così è la società emiliana – un grande
cotechino ripieno, succulento e rigonfio: ma vai a mettere il naso,
dentro quelle statistiche, vai a scomporle e trasformare i numeri in
vite umane, in braccia, storie, intelligenze mortificate, abbrutite dal
lavoro e dai bassi salari. Una cartografia dell’Italia reale, un paese
dei balocchi in cui le guardie tengono il sacco ai ladri e chi denuncia
le illegalità, novello Pinocchio, rischia di finire in galera.
Si perché la cosa buffa è che con i loro
scioperi, soprattutto dentro tante aziende dell’agroalimentare
modenese, questi lavoratori lanciavano delle denunce assai precise e
dettagliate: attenzione, istituzioni, il problema non è solo la nostra
condizione di sfiga e sfruttamento; perché lo Stato italiano sta
perdendo da anni fior di milioni in elusione fiscale e contributiva, con
i soliti giri marci di cooperative e appalti interni. Tanto per
capirci, il patron della Alcar Uno, il vecchio signor Levoni, è finito
nei guai, accusato di una maxievasione da 80 milioni – con sequestro
monstre di fabbricati, terreni ed auto d’epoca; ed è stato pure rinviato
a giudizio per corruzione – insieme a un giudice tributarista accusato
di fargli da gentile consulente. Eppure quelli che hanno denunciato per
anni queste nefandezze, finiranno a processo prima di lui. Bello no?
200 operai alla sbarra. Sembra una
vecchia storia della Spagna franchista. Ma questo numero riguarda solo i
due procedimenti principali citati all’inizio. Ci sono poi gli 11
relativi agli scioperi Emilceramica, i 22 della Bellentani, i 60 della
GLS, i 40 della GM e molti molti altri (dati gentilmente forniti dai Si
Cobas modenesi che ormai stanno perdendo il conto). Il processo Aemilia,
quello contro la ‘ndrangheta, per capirci, ha contato solo 240
imputati. La strage del carcere di Sant’Anna, ci scommettiamo, non ne
vedrà manco uno.
Quanto costa ai contribuenti italiani
questo music-hall antioperaio, con tutte le sue ritualità? Quanto costa
continuare a mantenere presidi polizieschi a difesa delle aziende, oltre
che in termini di credibilità democratica di un sistema? Tra l’altro,
trovando sempre solide sponde nelle Questure, i padroni, negli anni, si
fanno sempre più arroganti; talune vertenze che qualche anno fa si
sarebbero chiuse con qualche ora di sciopero e un po’ di normali
trattative, si trasformano in una sfida all’Ok Corral; se la forza
pubblica è gentilmente messa a disposizione gratuitamente dalla
Repubblica, perché farsi ricattare da questi cenciosi proletari, spesso
stranieri, che osano contestare il genio imprenditoriale italiano? Più
polizia c’è ai cancelli, più si allungano e si complicano le vertenze, è
scientifico.
Nelle accuse contro i manifestanti, il
vero elemento disturbante è il blocco dei cancelli. È quello che proprio
non va giù ai padroni: il fluire delle merci in entrata e in uscita –
più sacro del Gange – non va interrotto per nessuna ragione. Non si
scherza con i fatturati: la merce è tutto, la vita umana poco, la
Costituzione niente, i contratti meno di niente.
Un normale sciopero con astensione del
lavoro si può ancora tollerare – tanto ormai la folla dei precari
ipericattati (stagisti, appalti, contratti variamente a termine,
somministrati), garantisce una base di “fidelizzati obtorto collo”, che
non può permettersi di scioperare. Gli strumenti di ricatto sulla
condizione attuale della classe operaia – in certi settori più simile al
Diciannovesimo secolo che al Ventesimo appena trascorso – sono tanti e
facilmente esigibili dalle imprese. I blocchi no. Quelli non se li
possono proprio permettere. Sono sommamente diseducativi. Se
diventassero pratica di massa, l’Italia andrebbe sottosopra entro
qualche settimana: vogliamo più soldi o blocchiamo tutto; più diritti;
più sicurezza; più assunzioni; più ospedali, più scuole pubbliche… Bel
casino, sarebbe. Sono i blocchi delle merci e dei cancelli a trasformare
l’irritazione padronale in vendetta istituzionale.
Dopo le paginate della stampa sui 67
inquisiti della lotta Italpizza, persino la CGIL è dovuta intervenire
per dire che – Cobas o non Cobas –, i lavoratori non scioperano mai per
diletto, è l’oggettiva asprezza della condizione attuale a imporre il
conflitto. La confederazione si è sentita chiamata in causa perché qua e
là, i blocchi ai cancelli – soprattutto di multinazionali che vogliono
abbandonare il territorio smontando e traslocando gli impianti – è
costretta a farli pure lei, e qualche denuncia ha cominciato a
beccarsela. Oggi tocca agli scapestrati sindacati di base: ma domani? Le
vecchie garanzie concertative sono saltate, il “grande sindacato di Di
Vittorio” non incute né timori né rispetto, nel fronte datoriale.
Non è un caso che queste degenerazioni
si consumino proprio a Modena. Questa città è l’ultimo baluardo
spelacchiato di quello che fu il “modello emiliano”: è la città che
ancora elegge il sindaco piddi al primo turno, quella dove le grandi
cooperative e i gruppi privati concertano una minuziosa copertura di
tutti gli spazi di mercato; privati ai quali è stato generosamente
concesso per vent’anni di avere mano libera nella scomposizione e
ricomposizione delle filiere produttive, all’insegna del “precarizza e
competi”.
Degli elementi virtuosi o avanzati di
quel modello, sotto i colpi della crisi, non è rimasto in piedi quasi
più niente – welfare inclusivo, eccellenze sanitarie, cittadinanza
attiva; l’unico fattore di continuità è l’idea dell’espulsione del
conflitto e dei corpi sociali autonomi, giudicati sempre eccedenti ed
estranei rispetto alla bontà del modello – quarant’anni fa come oggi.
Abbiamo conservato il peggio. E bene ha fatto chi ha coniato
l’espressione “sistema Modena”, per definire questa rete progettuale di
connivenze tra imprese e istituzioni. La parola “sistema” evoca una
realtà anonima, funzionale, indefettibile nelle sue leggi e nei suoi
meccanismi – non per niente questo termine, a Napoli ha sostituito
l’arcaica espressione “camorra”.
Adesso però c’è da giocarsi una
scommessa, in quelle aule di tribunale. Sul banco degli imputati, Maria,
Salvatore, Hamed, Frank, Fatima ecc. dovranno rovesciare la loro
condizione di imputati e trasformarsi in accusatori. E lo potranno fare
solo se intorno a loro si costituirà un fronte di sostegno largo,
plurale e consapevole. È necessario che il processo antioperaio si
trasformi in un processo di massa contro il moderno sfruttamento in
salsa emiliana, i suoi complici politici, i suoi consulenti, i suoi
reggicoda, i suoi cani da guardia. Una “costituzione di parte civile”
contro chi negli anni della crisi – persino dentro la pandemia – ha
continuato ad arricchirsi e a pretendere indulgenza fiscale e protezione
ai propri abusi.
Se Modena è stata il laboratorio
avanzato della repressione, dovrà diventare il contro-laboratorio della
solidarietà militante e della intelligenza collettiva: usare la
macchinazione giudiziaria, contro le retoriche d’impresa e le ideologie
securitarie, che sono i gemelli degeneri di questa epoca. Bisogna fargli
passare la voglia di istruirli, i processi contro il lavoro.
(* Tratto da Carmillaonline.
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