da la città futura stralci per il dibattito
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Segue da “Le lotte per il programma minimo” uscito sullo scorso numero di questo giornale (n. 294 del 1 agosto)
La capillare penetrazione dello Stato nel corpo della società ha creato una dipendenza dell'essere sociale dal potere politico. Da questa dipendenza passiva deriva la de-socializzazione della sfera riproduttiva e la rottura delle reti solidali di mutua assistenza. Si è, così, assistito a un continuo trasferimento di queste funzioni sociali dal sindacato agli apparati amministrativi dello Stato borghese. Il paradossale risultato ultimo di tale trasferimento è che lo Stato borghese, sedicente sociale, si configura come presupposto per una condizione umana in cui la solidarietà fra la classe oppressa viene amputata della sua componente partecipativa. Inoltre mediante il presunto Stato sociale si è posto un altro ostacolo che ha contribuito a frenare la lotta di classe da parte degli sfruttati.
Peraltro, la carenza di conflittualità delle classi subalterne ha reso oggi sostanzialmente poco funzionale al mantenimento del dominio di classe il cosiddetto Stato sociale. Così, attualmente, la
borghesia mira a ridurre sempre più il presunto Welfare State per ridurre il salario indiretto o, al massimo, punta a sostituirlo con la flexicurity,cui si può accedere se si è “produttivi”. Per il resto si torna, attraverso la devoluzione dei servizi sociali ai privati, a renderli fonti di profitto, oppure a forme di sostegno ai redditi dei più svantaggiati con misure caritatevoli o demagogiche.
borghesia mira a ridurre sempre più il presunto Welfare State per ridurre il salario indiretto o, al massimo, punta a sostituirlo con la flexicurity,cui si può accedere se si è “produttivi”. Per il resto si torna, attraverso la devoluzione dei servizi sociali ai privati, a renderli fonti di profitto, oppure a forme di sostegno ai redditi dei più svantaggiati con misure caritatevoli o demagogiche.
Dunque, per quanto necessaria, la lotta a difesa dello Stato sociale va, comunque, considerata una battaglia di retroguardia, che va condotta non solo denunciando la reale naturale asociale dello Stato borghese, ma denunciando la gestione a scopi privati e in funzione dell’egemonia della classe dominante della res publica all’interno del modo di produzione capitalistico. Andrebbe inoltre tenuto conto della necessità di riappropriarci dell’autonomia, della solidarietà e della capacità di autogestione di classe. Come bisognerebbe sempre tenere alta la guardia contro ogni tentativo di cooptazione da parte della classe dominante e mantenere, nel caso ci fosse la possibilità di ricoprire incarichi istituzionali, uno stretto controllo da parte del partito rivoluzionario.
Perciò, piuttosto che battersi per il sedicente Welfare state, i subalterni dovrebbero riapprendere a lottare per il salario sociale di classe, puntando a gestire nel modo più autonomo possibile la componente indiretta del salario. Il che non significa rinunziare alla difesa di quanto resta del cosiddetto Stato sociale
o rifiutare concessioni in tal senso da parte della borghesia, a
patto, ricordava Friedrich Engels, di tenere sempre bene a mente che si
tratta solo di un piccolo anticipo del plusvalore complessivo estorto dalla borghesia al proletariato, che dovrà essere interamente restituito con gli interessi.
Tanto più che non è possibile, all’interno del sistema capitalistico, ottenere un duraturo aumento del salario in un posto di lavoro,
in un settore e persino in uno Stato oltre un certo limite, dal
momento che esso ha come fondamento nella società borghese il valore della forza-lavoro.
Perciò, alla lotta per vendere nel modo migliore possibile la
forza-lavoro – sempre ricordando che si tratta, comunque, di una forma
di sfruttamento e alienazione – devono immediatamente
connettersi le rivendicazioni sulla durata giornaliera del tempo a
disposizione del capitale per consumare la forza-lavoro acquistata,
ovvero la lotta per la riduzione dell’orario di lavoro, a parità di salario e di ritmi, ovvero la battaglia per minimizzare intensità e durata dello sfruttamento.
Dunque, nel programma minimo di classe un posto di
primo piano dovrà essere occupato dalla lotta per la riduzione
dell’orario di lavoro, a parità di salario e di intensità di
sfruttamento. Se la forza-lavoro nel modo di produzione capitalistico ha
un valore e un prezzo, la durata della giornata lavorativa invece non ha un limite prestabilito.
Il capitale tenderà, necessariamente, ad allungarla anche oltre il
limite di “tempo libero” necessario al lavoratore per riprodursi. La
lunghezza in termini assoluti e relativi della giornata lavorativa è inversamente proporzionale alla forza del proletariato nel conflitto di classe. In estrema sostanza, anche la flessibilizzazione della produzione e della condizione lavorativa
– la precarizzazione – consistono in un’estensione dell’orario di
lavoro complessivo dei proletari, aumentando enormemente la
ricattabilità e diminuendo la paga oraria media. Ciò “obbliga” i
proletari a lavorare di più e in peggiori condizioni [1].
Perciò Karl Marx indicava nella riduzione dell’orario di lavoro l’unica parola d’ordine da iscrivere sulla bandiera del movimento operaio. Tale lotta, in effetti, rappresenta la strada migliore per contrastare la disoccupazione, unire la forza-lavoro attiva con la forza lavoro in formazione o di riserva,
al contrario di quanto fa chi rivendica il reddito garantito che la
divide. In altri termini, tale lotta, pur avendo un contenuto
riformista – in quanto mira a ridurre il pluslavoro estorto al lavoratore di cui si appropria il capitalista – ha una forma rivoluzionaria in quanto consente una riaggregazione della forza-lavoro con l’esercito industriale di riserva nelle sue tre forme principali rappresentate da: giovani, precari e disoccupati.
Inoltre tale lotta permette di liberare tempo nella
vita del salariato, oltre quello necessario a ricostituire la
forza-lavoro usurata o alla cura della forza-lavoro in formazione,
ovvero della prole dei lavoratori salariati o all’assistenza alla
forza-lavoro non più capace di riprodursi in modo autonomo (anziani).
Tale tempo conquistato può, in effetti, essere utilizzato per la formazione socio-politica e, più in generale, culturale del proletariato, che solo in tal modo può sviluppare una coscienza di classe, che rappresenta la conditio sine qua non
di ogni lotta progressista contro il capitalismo. Dunque, la riduzione
dell’orario di lavoro è indispensabile per contrastare il precipizio
della nostra società nella barbarie, dal momento che manca il tempo e
la forza per dedicarsi ad attività culturali, che dovrebbero essere,
per quanto possibile, socializzate, offerte a prezzi politici e
controllate dai lavoratori, per far sì che non restino, come sono ora,
strumenti che favoriscono il dominio della borghesia.
Occorre, infine, sottolineare come la difesa del
salario e la riduzione dell’orario di lavoro, quali fondamenti di un
programma minimo di classe, siano stati spesso vanificati dall’essere
presentati come delle sensate richieste che gioverebbero alla stessa
borghesia, perdendo di vista che una riduzione dell’orario di lavoro di
tale tipo implicherebbe o la riduzione del salario sociale complessivo
o un’intensificazione dei ritmi di lavoro, come avviene di regola nei
“nuovi” lavori flessibili. In caso contrario, la riduzione dell’orario
sarebbe in contrasto con gli interessi del padronato e sarebbe
conseguibile solo mediante un duro conflitto di classe. Allo stesso modo, la lotta per la riduzione di lavoro e per il salario sociale
non devono perdere la loro centralità in quanto affiancate a parole
d’ordine che hanno la loro origine nel socialismo utopista della
piccola borghesia e sono, in seguito, divenuti cavalli di battaglia del
riformismo quali: la lotta per lo Stato sociale, per un reddito minimo
garantito, o per il diritto al lavoro, magari nella forma di lavori
“socialmente utili”.
La lotta per il sedicente Stato sociale
contribuisce, come abbiamo visto, alla decisiva mistificazione politica
che porta a presentare lo Stato borghese, persino nella sua fase imperialista,
quale baluardo degli interessi collettivi che il particolarismo
neoliberista vorrebbe eliminare. Alla rivendicazione dello Stato
sociale si unisce spesso la richiesta di una politica di disavanzo del deficit pubblico
per implementare l’intervento dello Stato in economia. In tal modo,
non solo il lavoro dipendente, che paga per il 90% le tasse, è
aggravato di debiti sempre più salati, ma si consegna – come notava già
Marx nel 18 Brumaio di Luigi Bonaparte – la politica economica dello Stato nelle mani dei grandi banchieri, rendendo ogni governo ostaggio dei propri creditori in tutte le scelte economiche significative.
La proposta di un reddito di cittadinanza o di un salario garantito – di origine fabiana – si fonda sulla mistificazione del fatto che, nel modo di produzione capitalistico, la forza-lavoro è ridotta a merce e il salario corrisponde al suo valore di scambio. Del resto, non a caso, chi propone tali misure generalmente evita di porre la questione decisiva del loro finanziamento. Infatti, se esse gravassero sul salario complessivo mediante la fiscalità generale,
il salario garantito porterebbe a contrapporre, come è avvenuto negli
ultimi decenni nel nord Europa, giovani disoccupati e precari alla
classe operaia. Oppure si avrebbe la forma che si è imposta in Italia,
ovvero una forma di flexsecurity, ossia un reddito di cittadinanza a chi è senza il lavoro, in cambio del diritto di licenziamento senza giusta causa.
Anche nel caso in cui si mirasse a far pagare i costi del reddito garantito al padronato
si presenterebbero i seguenti problemi: 1) sarebbe un eventuale dazio
che, ammesso che il reddito garantito lo paghi il padronato, avrebbe la
funzione di ridurre la conflittualità sociale (scioperi e diffusione dell'antagonismo sociale), determinando l'accettazione di uno status quo
che consoliderebbe la distanza tra occupati ed esercito industriale di
riserva; 2) una lotta in tal senso avrebbe scarse probabilità di
successo, in quanto non coinvolgerebbe una parte significativa dei
lavoratori occupati; 3) se anche avesse successo non favorirebbe
l’aggregazione intorno alla classe operaia di un blocco sociale antagonista al capitalismo, ma amplierebbe le distanze fra occupati ed esercito industriale di riserva;
4) dal momento che le forze da mettere in campo nella lotta di classe
sono in ogni epoca storica date, in particolare oggi sono piuttosto
scarse, sarebbe necessario stabilire un obiettivo prioritario e non disperdere le forze, se si vuole raggiungere un risultato effettivo, indispensabile per mobilitare in modo allargato la classe proletaria.
Note:
[1] Del resto, secondo l’ormai dominante metodo
toyotista di organizzazione del lavoro, il tempo di lavoro viene
suddiviso in due parti, attribuite a due diverse categorie di lavoratori.
C’è un gruppo “centrale” che garantisce il livello di attivazione
minimo degli impianti e che ha professionalità sufficiente per
governare flussi superiori, in cui operano generalmente lavoratori con
un contratto stabile e continuativo. C’è poi un gruppo con un orario di
lavoro flessibile o saltuario, a tempo determinato o addirittura
esterno all’impresa madre, che consente l’esecuzione di punte di
produzione su richiesta dell’azienda. Se, dal punto di vista
ideologico, la tendenza è quella a precarizzare sempre di più l’impiego
della forza lavoro – così come d'altronde era al principio della
rivoluzione industriale – d’altra parte vi è l'esigenza del padronato
di dividere la classe fra presunti garantiti e non, oltre all'esigenza
strutturale di avere sempre a disposizione un certo numero di
lavoratori specializzati (da trasformare magari in aristocrazia operaia)
per svolgere delle mansioni che sarebbe controproducente affidare a
lavoratori precari. Per altro, al capitale preme maggiormente un
rapporto continuativo, piuttosto che un rapporto stabile. Infatti i
lavoratori precari in diverse realtà produttive lavorano praticamente
durante tutto l'anno.
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