martedì 9 aprile 2019

pc 9 aprile - Fino in fondo con il processo Cucchi - ma l'unica giustizia è quella proletaria - L'importante è non dimenticare e lottare perchè le condizioni per la giustizia proletaria si possano realizzare

Cucchi. Il pestaggio mortale nella testimonianza del carabiniere Tedesco


Quindi Stefano fu picchiato, preso a calci, a schiaffi. Aveva ragione la sorella, avevano ragione i genitori. Avevano ragione tutti quelli che pensavano che Stefano fosse una vittima, e avesse diritto ad avere giustizia. Calci, schiaffi e percosse. Il processo bis sulla vicenda della morte di Stefano Cucchi questo sta svelando: udienza dopo udienza, passo dopo passo. Grazie alla determinazione sovrumana di Ilaria, la sorella, e alla passione di Fabio Anselmo, probabilmente l’avvocato giusto al posto giusto. L’ultimo capitolo – che non è quello finale – di questa infinita storia ha un protagonista: è il vicebrigadiere
Francesco Tedesco, coimputato insieme ad Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, gli altri due carabinieri coinvolti.
La sua deposizione in aula è in realtà una confessione: dopo nove anni e mezzo, racconta quello che è successo a Stefano. Prima le scuse ai genitori, e l’ammissione di quel “peso” che non era più in grado di portare. Poi il racconto: la notte dell’arresto, Stefano Cucchi non vuole dare le impronte. Di Bernardo lo colpisce con uno “schiaffo violento in pieno volto”. Il 31enne cade a terra, a quel punto è il turno di D’Alessandro: un calcio all’altezza dell’ano, poi uno in faccia. Tedesco interviene, “i due colleghi avrebbero proseguito”, dichiara al giudice.
A quel punto nella storia interviene l’allora comandante della Stazione Appia, il maresciallo capo Roberto Mandolini. “Se vuoi continuare a fare il carabiniere devi seguire la linea dell’Arma”, furono le parole che Tedesco si sentì dire dal suo superiore quando iniziò a porsi delle domande su quello che era avvenuto, che aveva visto. Omertà, dunque. La sua relazione venne cambiata, iniziò a girare un verbale con una versione dei fatti edulcorata ed “ufficiale”. Da lì, è partita la trafila di falsificazioni, di menzogne, di stratagemmi al fine di nascondere la verità. Il “muro” di fronte al quale il vicebrigadiere Tedesco dichiarò di trovarsi. Una macchina del falso talmente articolata da far dire, al pm del nuovo processo Giovanni Musarò, che il primo processo era stato “giocato con un mazzo di carte truccate”, al punto da inficiare “irreparabilmente” la credibilità di quei testimoni.
Una serie di depistaggi che portarono addirittura l’allora ministro dell’Interno Alfano a dichiarare il falso, sulla base di atti falsi.
La verità è rivoluzionaria, no? Per cui adesso che finalmente sta uscendo fuori, qualcosa di importante dovrebbe succedere. E non parliamo solo della doverosa condanna di chi riempì di botte Stefano, contribuendo alla sua morte. Sarebbe rivoluzionario che nella mente di tanti italiani si accendesse finalmente la lampadina della consapevolezza di quanto avvenuto. Le menzogne, i depistaggi, i referti falsificati, le dichiarazioni farlocche: una macchina che si è mossa con l’obiettivo di mentire. Ai giudici, alla famiglia Cucchi, ma anche a noi cittadini, a chi si aspetta che la giustizia agisca in modo imparziale, che lo Stato non adotti comportamenti di omertà.
E’ gravissimo quello che ci ha rivelato ieri il vicebrigadiere Tedesco: e non ci riferiamo solo alla consapevolezza che Stefano sia stato pestato a sangue. Quella già c’era, andava solo certificata da un Tribunale. Tedesco ci ha anche detto che per nove anni un gruppo ampio di persone che rappresentano lo Stato ha messo in atto una mistificazione per tutelarsi l’uno con l’altro. Niente di nuovo, direte voi. Certo, ma ogni volta che accade è grave. Gravissimo. Stavolta sta andando così perchè una famiglia si è messa di traverso, ha potuto farlo, ha detto “no, non ci stiamo, Vogliamo sapere la verità”. Ma è sempre così? No.
Ed è importante, certo, che il Ministero della Difesa si costituisca parte civile, come annunciato dal premier Conte. E’ importante che forse anche l’Arma dei Carabinieri possa farlo, e che il Comandante Generale della stessa Arma Giovanni Nistri abbia scritto alla famiglia di Stefano Cucchi. Ma ricordiamoci che sono passati nove anni. Ci sono voluti nove anni perché lo Stato riconoscesse le colpe di una sua parte, e decidesse di comportarsi secondo giustizia.
Che paese, l’Italia! Quante persone dovrebbero scusarsi, fare ammenda, addirittura fare un passo indietro da cariche e visibilità. Invece non succederà nulla: eppure ricordiamo tutti bene le parole, ad esempio, dell’ex senatore Giovanardi, o quelle più recenti del ministro dell’interno Salvini. L’unica cosa che può succedere ora è che Stefano ottenga giustizia, e che emerga la verità. A quello ci siamo vicini, perché, come ha dichiarato a caldo Ilaria Cucchi, a questo punto quanto accaduto a mio fratello non si potrà mai più negare”.

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