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Roma: sul territorio decidono gli abitanti. Riflessioni da Torre Maura a Rebibbia.
Negli ultimi giorni, con la solita, roboante rapidità, un altro quartiere popolare romano è balzato agli onori delle cronache nazionali. A Torre Maura l’arrivo di un gruppo di 70 rom nel centro di accoglienza di via dei Codirossoni ha scatenato la reazione di un gruppo di abitanti del quartiere, che hanno protestano contro il trasferimento.Ora cambiamo scenario. Lo scorso 30 marzo, a Rebibbia, periferia nord-est di Roma, un corteo di più di 1000 persone sfila per le vie del quartiere a valle di una mobilitazione che da mesi vede le realtà sociali e gli abitanti del territorio opporsi ad un progetto di speculazione targata M5S su un parco pubblico della zona. Una composizione ampia, variegata, intergenerazionale e intersezionale scende in piazza in maniera determinata contro il dispotismo dei pentastellati locali. Uno degli slogan principali è proprio “sul territorio decidono gli abitanti”: in questo caso decidono per l’opposizione a una speculazione, per denunciare l’effimera retorica della legalità a comando dei 5 stelle, per imporre i passaggi di interlocuzione con il territorio ad un movimento che ha sconfessato ogni singola promessa fatta in campagna elettorale.
Due quartieri. Due luoghi diversi per storia,
struttura, peculiarità. Due situazioni completamente diverse nella
contingenza. D’altronde si sa, a Roma ogni quartiere è un piccolo
paese. Ed è anche risaputo come ci siano dei tratti che accomunano
gli abitanti di molti quartieri periferici romani: emergenza
abitativa, disoccupazione, mancanza di servizi e di spazi collettivi,
spaccio. Due contesti in cui la decisione degli abitanti sul
territorio conduce a due esiti diametralmente opposti. Ma, quindi, il
fatto che sul territorio debbano decidere gli abitanti è un
obiettivo da perseguire o un feticcio da stigmatizzare?
Partiamo da Torre Maura. Non entriamo nel merito
delle modalità con cui il Comune di Roma, da decenni e con tutti i
colori politici, gestisce l’accoglienza, i campi rom, l’emergenza
abitativa. C’è chi, senza dubbio meglio di noi, in questi giorni
sta snocciolando le falle di un’amministrazione strutturalmente
incapace di fornire risposte concrete ed efficaci su questo come
tutti gli altri innumerevoli problemi della Capitale. Potremmo dire
che l’Italia è uno dei Paesi d’Europa in cui vive la percentuale
più bassa di popolazione rom. Potremmo dire che affermare di voler
“superare il problema dei campi” costruendo strutture-ghetto in
cui portare le persone come pacchi postali non solo non risolve il
problema, ma lo acuisce. Potremmo dire che, nella città delle case
vuote e della gente senza case, anzichè cercare di garantire un
alloggio dignitoso a chiunque si trovi in situazione di emergenza
abitativa, si continua a sfrattare, a offrire posti nelle case
famiglia e nei residence, a perpetrare il meccanismo dell’emergenza
normalizzata, dei bandi, delle cooperative e di tutto quel “mondo
di mezzo” che continua a imperversare nella realtà romana. Mafia
capitale non è un’inchiesta, è una prassi consolidata.
Potremmo scrivere un trattato su tutti questi
aspetti, ma non è ciò che ci interessa fare. E’ necessario,
piuttosto, entrare più a fondo nella vicenda, superare la narrazione
dei media, lo steccato delle dicotomie tra buoni e dei cattivi, tra
razzisti e antirazzisti, tra demoni e buonisti.
La vicenda di Torre Maura ci restituisce un quadro
ricorrente. C’è un filo, neanche troppo sottile, che lega
quest’ultimo episodio con i precedenti Tor Sapienza e Tiburtino
III, e che lo legherà con altri episodi in futuro. La
sovraesposizione mediatica cui sono sottoposti questi eventi
testimoniano ancora una volta la volontà dei media di rappresentare
le periferie romane come covi di razzisti, fascisti e dispensatori
d’odio di professione. Ogni contrapposizione tra “italiani” e
“non-italiani” all’interno del Raccordo Anulare diventa un
happening per pennivendoli e salottieri da ogni parte d’Italia.
Parte di questa strategia è la creazione di personaggi all’interno
della vicenda: un metateatro che stavolta vede protagonista un
ragazzo il cui unico merito è stato di dimostrare con naturalezza
l’inferiorità celebrale degli esponenti dell’estrema destra
romana.
Ma anche stavolta, come le altre, additare chi
protesta come burattino di quattro decelebrati a braccio teso è un
gioco che lasciamo volentieri alla sinistra da salotto e alla sindaca
Raggi. Certo la fase politica attuale, lo strapotere della Lega e la
retorica salviniana forniscono un retroterra importante al conflitto
orizzontale. Ma quella che scende in strada è la nostra composizione
di riferimento nei quartieri romani, attribuirgli un ruolo così
basso significherebbe disprezzarla e porci su un piedistallo su cui
non dovremmo mai salire. Nella protesta contro i 70 rom, gli abitanti
di Torre Maura concentrano tutta la loro rabbia sociale per le
pessime condizioni della loro vita quotidiana. Un quartiere che ha
gli indici di disagio sociale più alti della città e che, come
tante zone del “meridione” romano,sta attraversando in pieno la
fine dell’illusione pentastellata (nel Municipio VI, alle scorse
elezioni amministrative, il M5S ha preso più del 70% dei voti).
Possiamo invece dire con convinzione che le parole di quel ragazzo
non sono solo il simbolo della strategia dei media, ma anche, e
soprattutto, del basso livello cui è relegata l’opposizione
sociale in questa città. Delegare a qualche post sui social e ai
sit-in intrisi di pietismo della sinistra istituzionale, parte del
problema più che della soluzione, l’intervento su una questione
come quella di Torre Maura deve far riflettere parecchio. La scarsa o
inefficace presenza nei quartieri e la pressocchè totale incapacità
di leggere il politico sono due fardelli da cui cercare di liberarsi
al più presto. Sul territorio decidono gli abitanti, ma bisognerebbe
avere una presenza nei quartieri che permetta di riuscire ad
individuare i veri responsabili del disagio quotidiano.
Passiamo ora a Rebibbia. Quartiere dormitorio,
meno popoloso di Torre Maura, con una composizione sociale
estremamente variegata. Una porzione di questa miscela da qualche
anno si è risvegliata grazie alla spinta delle realtà della zona.
Ed è proprio questa miscela che, negli ultimi mesi, sta inchiodando
alle loro responsabilità gli esponenti pentastellati locali su una
vertenza che tocca due nervi scoperti del Movimento: la
partecipazione e l’ecologia. La strategia attuata dalla giunta
Raggi e da tutti i suoi rivoli municipali è ormai pacifica:
utilizzare la retorica della legalità per saltare qualsiasi
passaggio di interlocuzione politica e coinvolgimento dei “cittadini”
nelle decisioni dell’amministrazione. In questo caso, oggetto del
contendere è una speculazione su uno dei casali del Parco di
Aguzzano, che la minisindaca del Tiburtino vorrebbe mettere a bando
per qualche suo interesse clientelare contro il volere di un intero
territorio. Un meccanismo fondato su onestà, trasparenza e presunta
legalità che si sta sgretolando ogni giorno di più sotto i colpi
delle promesse non mantenute, degli arresti per lo stadio della Roma,
dei Municipi che cadono uno dopo l’altro, dello sperpero del
capitale politico pentastellato tanto sul livello cittadino che sul
nazionale. Ed è proprio in questa crepa che bisogna creare la
frattura, lì dove la fine dell’illusione pentastellata può avere
gli effetti più dirompenti. I 1000 in corteo a Rebibbia sabato
scorso sono un piccolo, ma significativo esempio. Sul territorio
decidono gli abitanti, e i meccanismi di partecipazione e attivazione
dal basso vanno approfonditi e sviluppati.
Eppure Rebibbia e Torre Maura non sono così
diversi. Probabilmente, a parti invertite, anche a Rebibbia l’arrivo
di un gruppo di 70 rom scatenerebbe la reazione degli abitanti.
Rebibbia e Torre Maura, in realtà, sono molto più simili di quanto
possiamo immaginare. E come loro tanti altri quartieri della
periferia romana. Non solo per il disagio quotidiano che attanaglia
le vite di chi ci abita. Ma anche, e soprattutto, per una sostanziale
incompatibilità con chi i quartieri periferici li affama, li
sfrutta, li reprime se si ribellano e pretende anche di prendere
decisioni sulla loro testa. Un’incompatibilità spontanea,
irregolare, aperiodica, con radici nella storia della città, quasi
sempre non organizzata, che si esprime nelle forme più varie, a
volte direzionate ad un cambiamento dell’esistente, più spesso
espressione di guerre tra sfruttati. Un’incompatibilità che, ci
piaccia o no, si esprime tanto negli automatismi di occupare una casa
per necessità o di scendere in piazza contro un’ingiustizia,
quanto nell’impedire l’assegnazione di una casa popolare a una
famiglia migrante o nel protestare contro un gruppo di rom dislocato
nel proprio quartiere. Un’incompatibilità che non si rassegna alla
precaria condizione quotidiana e al fatto che in una metropoli come
Roma, con singoli municipi più grandi delle maggiori città del Nord
Italia e con gravi problemi endemici, non ci sia uno straccio di
interlocuzione col territorio su nessuna decisione.
Relegare tutto questo a un’opposizione
diacronica tra razzisti e antirazzisti, a presunte periferie
colonizzate dai fascisti, significa volutamente ridurre la
complessità del fatto politico. Sui territori decidono gli abitanti
non è uno slogan, è qualcosa che, almeno a Roma, già succede da
tempo. Nel bene e nel male. Per farlo capire al potere costituito,
deve anzitutto essere chiaro a chi si propone di cambiare le cose. Il
problema, quindi, è piuttosto la costruzione di spazi politici che
possano accogliere e verticalizzare le tensioni future. L’acuirsi
della crisi strutturale e la mancanza di risposte della politica
istituzionale continueranno a polarizzare una società già
indirizzata verso uno scontro insanabile. Alla fine dell’illusione
pentastellata seguirà, in futuro, la fine dell’illusione del
salvinismo. L’ampiezza delle possibilità, allora, sarà enorme. E
a quel punto prenderemo protagonismo o continueremo ad essere
spettatori?
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