Gianni De Gennaro ex capo della polizia durante il G8 di Genova 2001, al servizio dell’allora, appena insediatosi, governo Berlusconi/Fini, e responsabile della macelleria sociale, e della "più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la Seconda guerra mondiale" come denunciò anche Amnesty International, è attualmente un funzionario statale a piede libero.
De Gennaro, insieme a tantissimi altri, è l’esempio dell’impunità
di cui godono i “macellai sociali” di ogni ordine e grado nella società
borghese, che da questa società non possono essere “giudicati” perché ne
garantiscono la sopravvivenza e per i quali devono essere istituiti ben altri "tribunali".
Il “nuovo” governo Berlusconi che si insediava non poteva tollerare le manifestazioni di piazza che rivendicavano più giustizia economica e sociale e smentivano, quindi, pesantemente la legittimità “conquistata” con il voto di un governo che si apprestava ad approfondirle queste “disuguaglianze”.
L’intervista all’ex pm Zucca che riportiamo mette in chiaro,
tra le altre, la responsabilità di De Gennaro quale autore della “svolta
repressiva”, ma anche quanto marcio sia il Parlamento italiano! E quanto ancora
l’“apparato repressivo” dello Stato non sia affatto cambiato…
Il G8 di Genova ce l’ha indicato, lo Stato borghese si abbatte e non si cambia, l’imperialismo va cancellato!
G8 di Genova. Enrico Zucca è stato il magistrato che, come
pubblico ministero, ha condotto l’accusa verso i vertici della polizia per
l’incursione alla scuola Diaz di Genova, il 21 luglio del 2001, la nota «macelleria
messicana»
Dottor Zucca, cosa rimane di quella sentenza di condanna, l’unica a carico degli apparati dello
Stato, verso i vertici della polizia dopo la sentenza della Cassazione che ha confermato il vostro impianto accusatorio?L’impianto accusatorio che è stato confermato dall’appello e
dalla Cassazione va oltre le prospettive dell’accusa e, a differenza della
vulgata imperante, sposta l’accento sulle responsabilità e sulle vere e
proprie “messa in scena” dei funzionari apicali di allora. L’uomo nero
non è tanto chi ha portato bottiglie alla Diaz ma chi le ha utilizzate come
prove false. Sotto il controllo e la direzione dei vertici degli uffici di
eccellenza investigativa della Polizia. Questo risultato, in qualche modo,
rende irrilevante la questione della catena di comando in questo caso schierata
sul campo che è stata quindi coinvolta dalla “devianza”. È un fatto
acclarato che la svolta repressiva venne impressa dal capo della Polizia di
allora, Gianni De Gennaro, per quanto questo non abbia implicato la piena
autonomia e responsabilità dei poliziotti condannati nell’aver violato loro le
leggi. Questo è il punto più importante del processo sulla Diaz.
Quel processo però, nei fatti, rimane non tanto per le
conseguenze reali per i condannati, molti prescritti altri promossi, l’unico
elemento di verità, sancito con una sentenza, a carico dei vertici dello Stato
per le giornate genovesi.
Il processo ai poliziotti, a quei poliziotti, non lo
voleva nessuno. In Parlamento i vertici della polizia
responsabili del disastro genovese hanno ricevuto più ringraziamenti che
critiche. Non è un mistero, la polizia fa quello che le si chiede di fare.
Ma anche i pubblici ministeri, che ancora non rispondono alla politica, hanno
percorso la loro strada. Con successo.
L’ex capo della Polizia Franco Gabrielli, in una lunga e
articolata intervista del 2017 parlò di “catastrofe” nella gestione del G8 di
Genova assolvendo, in parte, dalle responsabilità i singoli agenti, definiti
“fusibili del sistema” e concentrandosi anche lui, come la sentenza sulla Diaz,
sulle responsabilità dei vertici. Condivide questa lettura dell’attuale
sottosegretario?
Gabrielli parla, in quella intervista, di una “cultura
dell’ordine pubblico che scommetteva sul pattuglione”, la cui presenza in
polizia è stata oggetto di negazione caparbia durante il nostro lungo iter
processuale. Gabrielli non dice quando questa cultura è stata superata e se
nella dirigenza successiva si sia avuto la stessa presa di distanza che lui
stesso ha avviato. In questi anni abbiamo visto ancora molte volte il
comportamento di poliziotti che hanno continuato a mentire, pur a rischio di
essere smascherati. Io credo che per modificare questi comportamenti sia
necessario discutere sulle regole di ingaggio. Se si richiede il risultato a
qualunque costo, la scorciatoia è sempre percorsa e richiama copertura
conseguente. Piuttosto, come si impedisce ai poliziotti di falsificare le
prove come hanno largamente dimostrato di saper fare? Se si pensasse a
questo problema si rafforzerebbe il ruolo del P.M. come garante della legalità
della loro azione e quest’ultimo dovrebbe non avere imbarazzo, come ha avuto
anche nel G8, a controllare e reprimere. La direzione opposta alla separazione
delle carriere.
In queste settimane si è infuocato il dibattito sulla
cosiddetta “riforma Cartabia” dettata, secondo i sostenitori della proposta, da
motivi cogenti legati a quanto ci chiede l’Europa eppure, proprio la corte
europea dei diritti umani ci aveva richiesta una legge contro la tortura che,
solo nel 2017, ha visto la luce con moltissimi limiti.
L’approvazione di una legge che codifichi la nozione di
“tortura”, è stata un’impresa sempre fallita in parlamento in violazione
dell’obbligo derivante dalla convenzione Onu che la imponeva dal 1984. Il
testo definitivo della legge promulgata nel luglio 2017 ne ha limitato
l’applicazione perché risente dell’enorme compromesso imposto apertamente dai
vertici delle stesse forze di polizia, che paventavano la paralisi della loro
azione. Ci siamo trovati di fronte a un cedimento sull’applicazione puntuale
degli obblighi convenzionali che prevedono un divieto assoluto. Di fatto le
norme approvate difficilmente sarebbero applicabili proprio ai fatti genovesi.
La procura di Genova è stata accusata di teoremi perché
aveva osato indagare proprio la catena di comando che, nel caso della Diaz, era
dispiegata interamente sul campo. È evidente che i tanti agenti che hanno
torturato senza essere identificati sono in servizio. Ma gli ignoti possono
contare sul fatto che anche i vertici condannati per averli coperti, sono
tornati senza infamia nel corpo. Così consolidando le violazioni
convenzionali.
Il filo rosso delle varie condanne della Corte di
Strasburgo negli ultimi 20 anni dimostra che quando la tortura emerge è solo
apparentemente sporadica. Si ha infatti paura di riconoscere che la
tortura è per sua natura “istituzionale”, perché ha necessità di
tecniche, addestramento e pratica: non esiste neppure nella fiction il
“torturatore solitario”. Già dai tempi del G8 il fenomeno doveva essere
affrontato come tale. Non si tortura alla Diaz e a Bolzaneto se non si è già
capaci e pronti a farlo. Con Genova 2001 appare chiara un’altra cosa: i
diritti garantiti dalla democrazia e scritti nelle carte fondamentali non lo
sono tuttavia per sempre e ad ogni costo, come il modello presuppone. I
fatti del G8 hanno mostrato ciò che sarebbe poi successo in questi due ultimi
decenni durante i quali si è praticata la tortura non più nel segreto ma
cercandone, dopo secoli, una qualche giustificazione legale.
E secondo lei perché questo avviene?
Io credo che questo avvenga quando una democrazia ha paura
del conflitto e, quindi, muta la sua stessa caratteristica. Sono d’accordo con
chi sostiene che il modo migliore per difendere la democrazia sia quello di
attaccarla con le critiche, la protesta e il dissenso. Così la si rafforza non
la si indebolisce.
https://ilmanifesto.it/il-pm-genovese-zucca-la-svolta-repressiva-fu-impressa-da-de-gennaro/?goal=0_1006d401fe-f8fbd09f83-184817743&mc_cid=f8fbd09f83&mc_eid=78418a871c
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