mercoledì 21 luglio 2021

pc 21 luglio - LE MOLTE FACCE DELLA REPRESSIONE DEL CONFLITTO NEI LUOGHI DI LAVORO

lavoratori

Come spiegare la fretta di ogni governo insediato di emanare quanto prima un nuovo e luccicante pacchetto sicurezza?

Perché a fronte di piazze ormai vuote e conflitto abbandonato – e tradito – da parte dei sindacati concertativi, il dissenso politico e la rivendicazione di migliori condizioni di vita nelle sue varie forme soffre di particolari attenzioni da parte delle legislazioni e prassi poliziesche a livello nazionale e continentale?

L’unica lettura in grado di spiegare tale evidente sproporzione è che il ruolo storicamente giocato dal sistema giudiziario, guardato nel complesso dei suoi strumenti e della sua finalità, si è adattato alle esigenze che le differenti fasi storico-politiche ponevano, spesso dando vita a vere e proprie anomalie e forzature in particolari periodi e frangenti.

In tutti i casi, oggi come ieri, la sua funzione principale è stata quella di cristallizzare i rapporti di forza tra le classi, dapprima attraverso la deterrenza e l’intimidazione a rivendicare condizioni sociali migliori – non senza sfruttare la violenza e la pervicacia del sistema poliziesco – e, in seconda battuta, accanendosi su militanti e movimenti al fine di limitarne la libertà personale e l’agibilità politica.

Abbiamo di fronte un sempre più palese modello politico autoritario di società in cui i diritti di proprietà e quelli di impresa prevalgono brutalmente sui diritti costituzionali all’abitare, al lavoro, alla salute, alla dignità, colpendo preventivamente e repressivamente chi ritiene che l’ordine di tali priorità vada rovesciato e quindi oppone resistenza.

Così sono da intendere gli ormai tristemente celebri decreti Minniti e Salvini che chirurgicamente sono andati a colpire le manifestazioni di piazza inasprendo le pene, prevedendo DASPO e arresti in «flagranza differita» legate alle manifestazioni e creando nuove norme incriminatrici (una fra tutte il famigerato blocco stradale)1, per nulla scalfiti dalla revisione operata nel 2020 nel cosiddetto “superamento dei due decreti sicurezza voluti da Salvini”.

La diretta conseguenza è la repressione delle istanze provenienti da lavoratori e sindacati conflittuali nell’ambito dei quali si contano centinaia di processi penali2. Da ultimo la contestazione di associazione a delinquere ai portuali di Genova, gli stessi lavoratori per le cui azioni erano stati elogiati dal Papa3.

Ma la repressione non è solo manette. La repressione del conflitto capitale-lavoro agisce in modo più subdolo e meno vistoso con strumenti e meccanismi predisposti negli ultimi trenta anni come conseguenza del progressivo venir meno dei rapporti di forza determinati dalla spinta dell’Ottobre e dal potente conflitto di classe del Novecento.

Parliamo ad esempio dei meccanismi che limitano l’agibilità dei sindacati conflittuali nei luoghi di lavoro: la liberticida legge sulla rappresentanza (T.U. del 2014) che ha azzerato la democrazia sindacale nelle aziende private. Lo stesso Testo Unico sulla rappresentanza che ha disciplinato le nuove clausole che obbligano ad astenersi dal proclamare uno sciopero durante la vigenza del CCNL [Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro] che hanno stipulato. In caso di inottemperanza, il sindacato è esposto a significative sanzioni economiche.

Ancora più eclatante la legge sullo sciopero che in nome del diritto degli utenti e consumatori ha compromesso il diritto costituzionale a scioperare, esponendo le organizzazioni sindacali determinate nei loro obiettivi a grosse sanzioni da parte della Commissione di Garanzia, come del resto accaduto recentemente all’Unione Sindacale di Base4.

La repressione passa anche dall’obbligo di fedeltà al padrone imposto ai dipendenti intesa – come risultato di un’inaccettabile operazione di interpretazione giudiziale – come obbligo di non danneggiare il datore di lavoro. Così qualsiasi opinione espressa nei confronti dell’azienda diviene occasione per far partire contestazioni disciplinari e licenziamenti, come nel caso degli operai di Pomigliano licenziati perché inscenarono il suicidio di Marchionne, le cui politiche di gestione della ex FIAT avevano portato a vari suicidi di lavoratori.

Stessa sorte è toccata ad un operaio di Arcelor Mittal di Taranto, licenziato disciplinarmente perché sul suo account Facebook aveva consigliato di seguire una fiction riguardante l’inquinamento ambientale interpretata da Sabina Ferilli, Svegliati amore mio. Secondo l’azienda ex ILVA questo post era tale da creare un danno all’immagine aziendale. Ulteriore atto del clima di terrore con cui si vuole imporre ai lavoratori di operare nel silenzio e nella passività, di fronte ai rischi continui per la salute e la vira dentro e fuori la fabbrica.

Per non parlare poi del settore della logistica in cui si assiste ad episodi di feroce violenza padronale: l’omicidio di Adil, militante SiCobas trascinato a morte da un tir per oltre dieci metri perché si trovava davanti ai cancelli dell’azienda ad infastidire la circolazione delle merci, ne è la prova. Peraltro la medesima sorte era tristemente toccata nel 2016 anche al sindacalista USB Abd El Salam.

Poche settimane fa invece dei picchiatori di professione venivano assunti da un’azienda (con tanto di pettorina) per reprimere le iniziative di lotta dei dipendenti e dei sindacati: spranghe e catene hanno massacrato i partecipanti al picchetto davanti all’inerme sguardo della polizia presente sul posto5.

La pandemia ha poi accelerato la situazione di crisi strutturale e per arginare la catastrofe sociale conseguente il governo ha predisposto misure di tamponamento quali blocco dei licenziamenti e degli sfratti, misure che però il 30 giugno sarebbero giunte al termine6 ma che con un accordo farsa dà “raccomandazione” ai padroni affinché prima di licenziare approfittino delle 13 settimane di cassa integrazione ordinaria, completamente gratuita e quindi completamente a carico dello Stato. La conseguenza sarà tragica, le stime parlano di centinaia di migliaia di licenziamenti che verranno intimati. Una platea di persone che aspireranno alla percezione dei vari ammortizzatori sociali, anch’essi strumenti di disciplinamento.

Basti ricordarsi che, a seguito delle proteste nei primi periodi di lockdown che si ritrovavano sotto lo slogan «tu mi chiudi tu mi paghi» e che portarono alla tanto mediatizzata rottura di una vetrina di Gucci, gli accusati (che ora rischiano condanne fino a 14 anni) corrono il rischio persino di vedersi aggravare le ripercussioni penali attraverso la revoca del reddito di cittadinanza7.

Tale misura di sostegno economico benchè inizialmente descritta come lo strumento che avrebbe «abolito la povertà», si è da subito rivelato uno dispositivo classista di disciplinamento con cui lo Stato si arroga il diritto di dettare regole di comportamento imponendo ai poveri umiltà, obbedienza e riconoscenza.

Ma la pandemia è stata anche un fortissimo fattore accelerante di atomizzazione e individualizzazione dei lavoratori che avrà molto probabilmente delle importanti ripercussioni in termini di de-sindacalizzazione. Il lavoro da casa nelle sue varie forme ha annullato i luoghi di incontro in azienda impedendo non solo il proselitismo dei sindacati ma anche le possibilità di confronto collettive. Questo superamento dello spazio fisico di lavoro, in alcuni settori, o la sua sovrapposizione con quello virtuale, in altri, ci pone di fronte al pensare a nuove modalità di organizzazione e avanzamento dei diritti nei luoghi di lavoro e di accesso al reddito, senza distogliere lo sguardo dagli strumenti e dai dispositivi di disciplinamento.

Parlare di repressione non è mai un esercizio di piangeria, una discussione sul tema è prodromica ad una migliore comprensione sul che fare e come muoversi per combattere i meccanismi che ingabbiano il conflitto ma anche per capire chi sono i nemici di classe.

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