di
MARIO CONSANI
25
giugno 2019
Arese
(Milano), 25 giugno 2019 - Tutti assolti anche in appello.
Nessuna
condanna
per ex vertici ed ex manager di Fiat, Alfa Romeo e Lancia, imputati
per una quindicina di casi di operai
morti per forme tumorali provocate
dall’esposizione all’ amianto negli
stabilimenti dell’Alfa Romeo di Arese.
Ieri i giudici hanno confermato l’assoluzione decisa due anni fa in
primo grado dal tribunale per l’ex ad Fiat Auto Paolo
Cantarella,
per l’ex presidente Fiat Giorgio
Garuzzo,
per l’ex presidente Lancia Industriale Pietro
Fusaro
e per altri due ex ad di Alfa Romeo. Ci vorranno tre mesi per
conoscere
le motivazioni della sentenza
pronunciata dalla quinta Corte d’appello milanese presieduta da
Monica
Fagnoni.
«Questa volta c’erano tutte le condizioni per arrivare a un
verdetto di condanna. Ricorreremo
in Cassazione,
le cui ultime pronunce sono state a noi favorevoli», protesta
l’avvocato Laura Mara,
che assiste le parti civili Medicina democratica e Associazione
italiana esposti amianto. Nel dibattimento si erano
costituite parti civili anche la Regione Lombardia, il comune di Arese e le famiglie di otto operai morti per l’esposizione all’amianto. Il sostituto pg Nicola Balice aveva chiesto condanne per gli ex manager fino a 8 anni di reclusione. Non è stato «possibile accertare» se l’amianto presente nello stabilimento dell’Alfa di Arese tra metà anni ’70 e metà anni ’90, «abbia causato, o concorso a causare, i decessi per tumore polmonare o mesotelioma pleurico dei 15 lavoratori che in quella fabbrica «hanno prestato per molti anni la loro attività, né a chi siano attribuibili tali decessi», si leggeva nelle motivazioni del verdetto di non colpevolezza pronunciato due anni fa dal tribunale in primo grado nei confronti degli stessi imputati accusati di omicidio colposo plurimo.
Quei
lavoratori, argomentava il giudice, sono
stati esposti alla sostanza nociva
non solo ad Arese, ma anche «in altre esperienze extralavorative,
come Novara o Scaffidi, od
occupazionali prima dell’assunzione in Alfa o in Fiat,
e non si è potuto acclarare in alcun modo quanto ciascuno di essi
abbia contratto irrimediabilmente e irreversibilmente la malattia,
cioè quando si sia conclusa la fase di induzione non determinabile
in termini di mesi o anni dalla prima esposizione». L’assoluzione
pronunciata allora dal giudice Paola
Braggion
- così come quella ribadita ieri - è
in linea con tutti gli altri verdetti di giudici e corti milanesi che
a più riprese hanno assolto dirigenti e manager delle grandi aziende
- da Pirelli a Falck, dalla Breda alla Franco Tosi all’Enel di
Turbigo - per le morti dei lavoratori aggrediti da mesotelioma
pleurico o altre forme tumorali perché esposti all’amianto, per
l’accusa senza misure di prevenzione. «Rimane
un profondo senso di amarezza
per il fatto che una grande azienda come Fiat abbia
proposto un risarcimento solo ad alcuni ex dipendenti
di Arese quando Alfa era già stata acquisita dal gruppo torinese e
non ad altri dipendenti del gruppo in un periodo diverso ma che come
i colleghi si sono ammalati e sono morti», spiega l’avvocato Paolo
Cassamagnaghi
che rappresenta i familiari di una delle vittime costituiti parte
civile. «Dispiace anche constatare - conclude - come nessuna delle
difese degli imputati in questo processo abbia
mai chiesto scusa ai familiari degli operai morti o
abbia mai detto un semplice “ci dispiace”».costituite parti civili anche la Regione Lombardia, il comune di Arese e le famiglie di otto operai morti per l’esposizione all’amianto. Il sostituto pg Nicola Balice aveva chiesto condanne per gli ex manager fino a 8 anni di reclusione. Non è stato «possibile accertare» se l’amianto presente nello stabilimento dell’Alfa di Arese tra metà anni ’70 e metà anni ’90, «abbia causato, o concorso a causare, i decessi per tumore polmonare o mesotelioma pleurico dei 15 lavoratori che in quella fabbrica «hanno prestato per molti anni la loro attività, né a chi siano attribuibili tali decessi», si leggeva nelle motivazioni del verdetto di non colpevolezza pronunciato due anni fa dal tribunale in primo grado nei confronti degli stessi imputati accusati di omicidio colposo plurimo.
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