sabato 20 marzo 2021

pc 20 marzo - ILVA/ARCELORMITTAL - PROCESSO/SITUAZIONE IN FABBRICA - ROVESCIARE LA NARRAZIONE "INQUINATA" - Dall'intervento di proletari comunisti di Taranto nell'incontro informativo on line del Patto d'azione del 26/2


Il processo Ilva “Ambiente svenduto” è un processo di rilievo nazionale e internazionale. È il più grande processo di questo genere con la fabbrica aperta, per di più ora nelle mani di una multinazionale, il primo produttore di acciaio nel mondo, con stabilimenti in 30-40 paesi. 
È diventato un processo a un sistema, ed è in questo senso che lo Slai Cobas a Taranto ha costruito sin dall'inizio la sua partecipazione. Bisognava portare dentro l'aula dei Tribunali la lotta dei lavoratori, la resistenza e i danni che i lavoratori, i cittadini avevano subito.
Un processo di classe contro una classe è quello che abbiamo impostato, in perfetta continuità con altri processi che ci sono stati in questa città aventi come sfondo il sistema Riva, l’Ilva. Vi è stato il processo per la 'Palazzina LAF', dove Riva aveva confinato 70 lavoratori per fiaccarli sul piano psicologico e pratico- alcuni di loro sono finiti negli ospedali psichiatrici, altri hanno avuto altri gravissimi problemi di salute. Una vera e propria palazzina lager per stroncare sul nascere ogni opposizione e resistenza all’affermarsi, dopo la fase dell'industria di Stato, del primato del comando di padron Riva. Vi sono stati poi processi per truffa e estorsione ai danni dei lavoratori in particolare quelli dell'appalto Nuova Siet nel quadro di un altro aspetto della politica sviluppata da Riva, quella di internalizzare le grandi ditte dell’appalto per ridurre i costi assorbendone i lavoratori come se fossero dei nuovi assunti e imponendo accordi che ne penalizzavano salario e diritti con la complicità dei tre sindacati confederali, uno dei quali all'epoca era guidato da Palombella, l'attuale segretario nazionale della della UILM, che in quel processo fu testimone a favore di Riva. Fu un processo importante, conclusosi con la più pesante condanna che Riva abbia mai subito. Oggi speriamo che questa condanna venga superata da quella comminata ai successori di Riva (dato che il capostipide è morto) nell'attuale processo, come da richieste dei dei pubblici ministeri.
La condanna fu ottenuta a suo tempo dallo Slai Cobas e da 150 lavoratori della Nuova Siet, in perfetta solitudine, contro un’azienda che aveva al suo fianco le organizzazioni sindacali confederali e il silenzio assenso di tutto l'arcipelago ambientalista che delle condizioni materiali dei lavoratori non si è mai preoccupato. 
Vi sono stati altri processi. Il processo a Margherita Calderazzi, coordinatrice dello Slai Cobas sc, ritenuta mandante di una scritta “Riva assassino”, una scritta che forse oggi rivendicherebbero anche i Pubblici Ministeri in questo processo, stando a ciò che hanno detto nelle conclusioni. In quell'occasione Riva si presentò di persona, ed è l'unica volta che lo ha fatto nei diversi processi a suo carico, dove mandava uno stuolo infinito di avvocati ma lui non si presentava In quell'occasione, invece, volle farlo, perfino contro il consiglio del suo avvocato, perché voleva vedere chi l'aveva chiamato “assassino”, dato che lui riteneva – come disse – di essere solo un imprenditore che produce acciaio e fa il bene alla città perché porta lavoro, salari e benessere. Margherita Calderazzi si ritrovò in aula sostenuta solo dal piccolo drappello di operai dello Slai Cobas, perché i sindacati dissero che era pericoloso farsi vedere al processo con Riva presente, ci sarebbero stati dei rischi per loro. Ma la vittoria di quel processo fu salutata con molta solidarietà da parte di lavoratori. Anche in quell'occasione gli ambientalisti avevano la testa altrove. 

La descrizione che viene fatta di questa città, della fabbrica, in cui gli operai avrebbero sempre pensato solo al salario mentre fuori si moriva è una favola nera. Così non è mai stato. Negli anni che hanno preceduto l'attuale esplosione gli operai in quella fabbrica hanno lottato, hanno resistito e sono stati spesso licenziati per aver protestato, sono stati dequalificati, spostati, spesso con la complicità e gli accordi dei sindacati confederali. Gli operai hanno provato a opporsi all’andazzo che c'era in quella fabbrica ma non avevano gli strumenti elementari per farlo, il sindacato di classe, l'autorganizzazione, e quelli che hanno cercato di impugnarli sono stati stroncati. Basta citare il fatto che per anni le deleghe dello Slai Cobas sc sono state respinte al mittente e non c'era tribunale che tenga. Per non dire di quello che succedeva quando c’erano le elezioni RSU, o quando si sono fatte le raccolte firme su diversi aspetti, tra cui quello dell'amianto.
In tutto quel periodo c'è stato l’ostracismo verso lo Slai Cobas sc con la complicità dei sindacati confederali, che arrivavano anche alle minacce; quando mandavamo una delega all’azienda finiva subito nelle mani del sindacalista di turno che andava a trovare l'operaio gli diceva: ma che ti vuoi rovinare?
Quindi, possiamo dire che c'è stata una guerra sotterranea, con momenti di esplosione aperta, che gli operai hanno persa, esattamente come la si è persa alla Fiat, come si è persa in tutti i posti di lavoro. Ogni volta che gli operai hanno provato a resistere sono stati stroncati e non hanno avuto il sostegno di massa, e il modello Riva, la gestione capitalistica assassina di Riva ha avuto campo libero, ha prodotto sia morti sul lavoro, un primato assoluto per diverso tempo, sia morti sul territorio. 
Quindi, è dentro questa guerra di classe che padron Riva ha vinto ed è dentro questa guerra di classe che bisogna combattere i padroni, i loro governi e il loro sistema.

Il processo - dicevamo - mette sotto accusa un intero sistema. Non esistono altri processi come questo; che riguardi allo stesso tempo morti sul lavoro e disastro ambientale e in cui come imputati trovi il rappresentante dell’arcivescovo, il Presidente della Regione, il Sindaco di Taranto, gli Enti che dovevano controllare la tutela dell'ambiente, il dirigente della Digos, uno che in tutta la sua vita ha perseguitato i compagni comunisti e dello Slai Cobas, ecc.
Questo tipo di processo avrebbe meritato un'azione di “guerra”, un'azione non solo politica e giudiziaria ma anche di tipo militante, compagni, perché ai padroni che uccidono non si risponde solo con le denunce e l'attesa che venga condannato. Non ci sono state le condizioni per poterlo fare, perché siamo stati combattuti, isolati. Perché i compagni, non solo a livello locale ma anche a livello nazionale, hanno fatto da spettatori di questa vicenda drammatica per lo scontro di classe nel nostro paese. Questa vicenda drammatica per lo scontro di classe nel nostro paese è entrata in questo processo, di straforo e con difficoltà, e sta combattendo la sua battaglia fino alla fine, perché sappiamo che questo è un processo infinito. Ci sono voluti anni per poterlo portare a conclusione e ancora non ci siamo arrivati, si dovrebbe arrivare alla sentenza intorno a maggio, ma  si tratta solo del primo grado di giudizio e possiamo immaginare che seguirà l’appello dei condannati, il ricorso in Cassazione, tentativi sporchi di azzerare i risultati acquisiti, come è avvenuto per il processo Eternit, per il processo Thyssen Krupp, per tutta un'altra serie di importanti processi e più recentemente per il processo per la strage di Viareggio.

In questo quadro il processo non è altro che una delle pagine della lotta di classe, l'interfaccia di quello che materialmente poi sta avvenendo in ArcelorMittal. In questo quadro, organizzare come parti civili, in forme auto-organizzate, dei lavoratori è stata anche un un problema. All'inizio noi avevamo pensato realmente di organizzare centinaia e centinaia di operai e lavoratori per essere parti civili in questo processo. Questa battaglia l’abbiamo vinta solo parzialmente. Solo un piccolo gruppo di lavoratori, un centinaio, si è autorganizzato con noi in questo processo, insieme a una rappresentanza di settori della città, del quartiere Tamburi, dei familiari. Avremmo voluto fosse molto più largo ma abbiamo trovato opposizione del Comitato Liberi e Pensanti che prima ha rifiutato di costituirsi al processo e quando abbiamo chiesto che i 200-300 lavoratori da loro raccolti si organizzassero per essere parte nel processo non l'hanno fatto, salvo poi, all'ultimo momento, costituirsi come associazione, non certo come lavoratori.
Ma non ha senso un processo in cui sono presenti le sigle e non i lavoratori concreti che hanno subito i danni, non i cittadini e così via. Lo stesso hanno fatto tutti gli altri sindacati, la Fiom che avrebbe presentato come parti civili 500 operai ma non ne ha mai organizzato uno perché  assistesse direttamente alle udienze, se non il primo giorno, quando Landini venne a fare il suo show, di quelli che è abituato a fare.
Abbiamo visto una platea di parti civili che hanno fatto pura demagogia, che hanno trasformato la giustezza delle rivendicazione delle parti civili in una farsa, sparando cifre pensando alle proprie parcelle invece che agli interessi lesi.
Questo processo è stato grande sia nei lati positivi, sia nei lati negativi e se non si coglie la dialettica che questo processo ha con la realtà cittadina è difficile capire questa vicenda.
Questo processo si svolge mentre gli operai non stanno guardando al processo, e non perché siano su una posizione di classe che considera la giustizia borghese, ma perché sono attanagliati da una guerra più vicina che li riguarda, la guerra che li vuole mandare a casa, punto e basta, con la chiusura dell'impianto, entro 60 giorni dice il TAR, così – dicono il Sindaco e buona parte degli ambientalisti, sarebbe tutelata la loro salute e la loro vita e sarebbero sottratti al ricatto.
Ma anche questa è una favola nera, un episodio della guerra, non certo una soluzione. 
Quella fabbrica senza gli operai diventa il cimitero industriale più grande d'Italia, un deposito di inquinamento e scorie molto ma molto più grande di come lo è da anni Bagnoli - ricordiamo che a decenni di distanza dalla chiusura di Bagnoli non è stata fatta la benché minima bonifica e che il piano di bonifica che viene ipotizzato è giustamente contestato perchè tutto darà tranne lavoro e salute. Taranto sarebbe una Bagnoli moltiplicata per 100. Sarebbe la morte civile della città.

Il nostro problema è un altro. È come innescare il conflitto di classe, la lotta dei lavoratori, che possano difendere il lavoro, il salario, e nello stesso tempo diventare punto di riferimento di una radicale ambientalizzazione della fabbrica o della sua morte se questa ambientalizzazione non è possibile.
Ma permettete che siano gli operai a deciderlo? Gli operai sono fantasmi? Devono avere oltre al danno dei morti in fabbrica, dello sfruttamento, anche la beffa dei calci in culo di chi li considera dei veri e propri fantasmi? Ecco, questa è la battaglia che stiamo facendo. 
Noi vogliamo che gli operai si ribellino, si liberino del sindacalismo aziendalista, mettano a ferro a fuoco la città, la blocchino e impongano soluzioni alternative reali, che significa passare da lavoro a lavoro, con la tutela del salario, e non certo seguire le fantasie e l'immaginifico di ambientalisti da strapazzo che finora hanno prodotto solo carta e progetti e che – attenzione, non pochi di loro - attraverso queste carte e progetti si sono ben collocati nel sottobosco delle Amministrazioni comunali e regionali.
A Bagnoli la maggior parte dei soldi è stata spesa proprio in questa maniera, per progetti da cui non non è venuto fuori né un posto di lavoro, se non per chi li faceva, né alcun miglioramento della vita dei cittadini e delle masse popolari. Questo è il problema che in questo momento è al centro anche della condizione dei lavoratori.
Un altro operaio è morto stamattina, è morto di infarto perché gli operai sono sotto stress ogni giorno, ogni giorno vengono bombardati da annunci che devono essere mandati a casa, che stanno per chiudere la fabbrica e nello stesso tempo vengono trattati come pezze da piedi, per la mancanza spesso di dispositivi di sicurezza, per le forzate e la cassa integrazione che diventa cig-covid in una fabbrica che ha lavorato durante il periodo del lock-down con 5000 persone come imposto dal governo con l’avallo della Prefettura e accettazione dei tre sindacati. 
Durante il lockdown in questa fabbrica si è lavorato come se niente fosse, se la produzione è calata non è certo perché gli operai non andavano al lavoro ma perché siamo nella nota crisi mondiale dell'acciaio. Che senso ha quindi autorizzare una montagna di ore di cassa covid perché ArcelorMittal avrebbe subito danni dalla pandemia. Anche non ci fosse stato il covid, avrebbe comunque messo in cassa integrazione lo stesso numero di operai.
Su questo i sindacati prima dicono no ma poi sono sempre lì, un giorno sì e un giorno no in direzione a trattare l'aria fritta, a cogestire i piani aziendali, la cassa integrazione in condizioni di insicurezza che permangono e in una situazione in cui il salario è tagliato pesantemente dalla cassa covid, tanto che il salario di chi sta lavorando e ancor meno di quello dei lavoratori che sono stabilmente in cassa integrazione da quando sono stati buttati fuori dall’accordo del 2018. 

È una guerra in cui gli operai sono le vittime sacrificali. Noi stiamo operando perché da questa guerra si esca con una nuova fase della lotta di classe. In una situazione di ostracismo assoluto 400 operai delle ditte dell'appalto e dell’ArceloMittal  hanno sottoscritto una “piattaforma operaia” che noi vorremmo che fosse discussa in assemblea. Assemblee che non si fanno da un intero anno. In un'occasione si sono riunite le RSU di FIM, FIOM, UILM e USB e hanno detto che non si poteva scioperare perché si era tenuto un incontro con il governo e c'era un ciclo di assemblee da fare prima di scioperare. Quelle assemblee che non le ha viste nessuno! Le uniche volte che qualcuno ha potuto parlare è quando si sono fatti i presidi di lotta, alcuni organizzati dal USB, davanti alla direzione. Altrimenti gli operai devono stare zitti, non devono alzare la voce.
Ma se in questa fabbrica si facesse un'assemblea generale in cui gli operai si ritrovano, allora ne sentiremmo delle belle, allora sarebbe difficile ignorarli e considerarli come fantasmi. 

Quando si vuole descrivere l'Ilva, si descrivono gli impianti, i danni che fanno i fumi, ma di chi ci vive dentro non c'è mai una descrizione, mai una voce. Assistiamo allo scandalo di sindaci e amministratori comunali che sparano balle, ordinanze e ricorsi ma non incontrano gli operai, mai sono andati davanti alla fabbrica, che non conoscono neanche come è fatta, chi ci lavora, come si lavora.
Questa narrazione deve essere rovesciata. Se non si rovescia questa narrazione, questa guerra si concluderà con un deserto che chiameranno pace. “Pace e sviluppo” dove lo sviluppo e l'acquisizione di parte dello stabilimento da parte della Leonardo che come si sa non fa cioccolatini o della Saipem che è collegata all’Eni, un’altra delle grandi fonti inquinanti in questa città, o col cambio di cavallo dagli indiani ai cinesi, anche se contro i cinesi ci sono i diktat delle delle multinazionali USA.

In qualche maniera, compagni, dobbiamo costruire una mobilitazione cittadina e nazionale in cui il processo, la fabbrica e la situazione nel quartiere possano essere collegati. La inizieremo a preparare nelle prossime settimane, attraverso una serie di assemblee informative, oltre che interventi nei luoghi in cui siamo, nel patto d'azione anticapitalista, Assemblea Lavoratori Combattivi e la costruzione di una piattaforma che veda gli operai protagonisti e non in attesa di trasformarsi in un oceano di cassintegrati, poi in mobilità, poi lavoratori socialmente utili e infine “pizzaioli” - Uno dei capi dei “Liberi e Pensanti”, ex operaio Ilva ha accettato l’incentivo alle dimissioni, e attualmente gestisce una trattoria. Il suo discorso come ha detto in delle interviste è: quella fabbrica è morte, quella fabbrica deve morire, gli operai si devono riciclare, io sono un esempio... 
Dico questo perchè si comprenda, compagni, che c'è un altro mondo che bisognerebbe conoscere. Certo, se ci si limita a letture superficiali e trasmissioni televisive della TV del dolore difficilmente riusciamo a capire cosa c'è all'interno di questa “bestia” chiamata Ilva, e che altro non è che la bestia del modo di produzione capitalista, che uccide.

Quindi, faremo altre assemblee informative nei prossimi mesi, anche direttamente dai cancelli della fabbrica o dal quartiere Tamburi o in altri luoghi ove sia possibile far sentire la voce diretta di chi a questa questione si sta opponendo senza aspettare che la TV di turno gli metta il microfono in bocca. Perché attraverso questo tipo di informativa noi vogliamo cambiare il punto di vista anzitutto dei compagni e metterli in grado, come si dice, di “viaggiare informati”. 
Perché dovranno viaggiare, venire in questa città a manifestate e a lottare insieme a noi.

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