mercoledì 17 marzo 2021

pc 17 marzo - Il pantano Libia e imperialismo italiano - pc

La Libia segna l’ennesimo fallimento imperialista. A dieci anni dall’inizio della guerra della NATO scatenata per rovesciare il regime di Gheddafi, lo scontro tra le potenze imperialiste sul terreno della Libia ha prodotto a dei mutamenti nelle posizioni di forza “storiche” dei diversi paesi imperialisti; la spartizione della Libia in 3 parti; sul campo mercenari, eserciti e signori della guerra che combattono e una destabilizzazione che ha colpito persino i loro profitti della rapina del petrolio. La “pacificazione” imperialista significa contratti, cooperazione, mettere le mani sulle fonti dell’energia, petrolio e gas, che sono essenziali per le fabbriche e per il sistema di produzione capitalistico ma che per i popoli oppressi significa fame, guerre, migrazioni e la violenza nelle galere e quella ai confini della “fortezza Europa” per mano della polizia dei governi europei.

Per l’Italia imperialista i bombardamenti della NATO di dieci anni fa hanno segnato l’inizio di un processo di arretramento a vantaggio oggi della Turchia (e della Russia sul fronte opposto) ma la Libia è sempre strategica, fa parte del cosiddetto “Mediterraneo allargato”, i cui confini vanno dalle isole

Canarie sino al Caucaso e al Golfo Persico, e su questo concetto geostrategico è intervenuto il Presidente del Consiglio Mario Draghi nel suo discorso al Senato, un’area “di prossimità diretta del Paese, quelle dove coltiviamo la prima linea dei nostri interessi di sicurezza”. Cioè la “sicurezza” dei pozzi dell’ENI, i profitti delle aziende italiane impegnate nella ricostruzione. E con il Memorandum e i Decreti Salvini/Lamorgese l’Italia sta ancora coltivando la sua di “sicurezza”, cioè i respingimenti dei migranti, attraverso il sostegno agli aguzzini torturatori della guardia costiera libica e ai lager dove vengono rinchiusi e torturati i migranti.

Gli USA e l’UE, attraverso l’ONU, con il processo di “pacificazione” di Berlino, hanno imposto un nuovo governo provvisorio che dovrebbe “unificare” il paese e condurlo alle elezioni che i recenti colloqui di pace mediati dall’ONU hanno fissato per il 24 dicembre prossimo. Il primo ministro ad interim Dbeibah ha incassato il voto di fiducia dal parlamento e Fayez Al Sarraj, premier uscente, in cinque anni non l’ha mai ottenuta, questo sottolineano i media asserviti.

Cosa si sa di Abdul Hamid Dbeibah? Nel 2007, Gheddafi lo aveva nominato alla guida della società statale Libyan Investment and Development Company, responsabile di alcuni dei più grandi progetti di lavori pubblici e, in quella veste, ha preso mazzette dalle aziende turche per gli appalti. Dbeibah è una delle figure dell'era di Gheddafi più associate alla corruzione. Un corrotto al servizio della Turchia e finanziatore dei Fratelli Musulmani. Non a caso il primo provvedimento è l’invito alle aziende turche a costruire il nuovo porto commerciale a Tripoli.

Inoltre Dbeibah, riguardo la sua “elezione” avrebbe pagato alcuni dei 75 elettori con somme fino a 500.000 dollari su cui l'inviato ad interim delle Nazioni Unite per la Libia, Stephanie Williams, ha richiesto l’apertura di indagini.

Un governo che nasce già debole per i contrasti tra le varie fazioni e per la presenza di mercenari stranieri sul terreno: addirittura a Sirte dove si è votata la fiducia (la Camera dei rappresentanti di Tobruk si è trasferita per l'occasione nella città costiera di Sirte), era piena di mercenari, di cui il ritiro sarebbe dovuto essere uno dei punti discriminanti dell’accordo di pace assieme al cessate il fuoco.

Un governo che nasce per rappresentare la borghesia compradora libica interessata ad aumentare i profitti legati alla produzione di energia. Il presidente della NOC (National Oil Corporation, la società petrolifera di proprietà dello Stato libico) Mustafa Sanalla, è con il nuovo governo che “sia l'inizio di una nuova fase che realizzi le speranze e le aspirazioni della nazione libica ". L’economia libica dipende quasi esclusivamente dalla rendita del settore petrolifero, che rappresenta circa il 95% delle esportazioni e oltre la metà del prodotto interno lordo (PIL).

L’Eni, come ricorda l’AD Claudio Descalzi, è strutturalmente configurata come “azienda libica” e garante dei suoi servizi essenziali.

Il NOC ha riferito che le entrate petrolifere libiche per febbraio raggiungono 1,24 miliardi di dollari USA e che sono state depositate nella sua Libyan Foreign Bank (LFB) in linea con gli accordi temporanei in vigore. Fino ad ora, la NOC gestiva la politica petrolifera, i contratti e lo continuerà a fare con il nuovo ministero del petrolio del governo. La sede della Noc è a Tripoli, i giacimenti in cui opera sono situati in tutte le tre storiche regioni della Libia, alcuni sono ubicati anche off shore. L’ENI collabora con la Noc: emblema di questa modalità di accordi è lo stabilimento di Mellitah, ad ovest di Tripoli: si tratta di uno dei più importanti giacimenti della Libia, la cui società controllate è formata al 50% dalla Noc ed al 50% dall’Eni. Altro importante stabilimento gestito da NOC ed Eni è quello di El Feel, nel Fezzan. A poca distanza, vi è invece il giacimento di Sharara, uno dei più grandi del Paese, dove la NOC opera da anni assieme alla spagnola Repsol e ad altre compagnie straniere.

Profitti che non serviranno a migliorare la vita delle masse che, invece, peggiora sempre di più, i servizi essenziali sono al collasso a causa di corruzione e cattiva gestione (appena la metà delle centrali elettriche del paese è funzionante, così come le infrastrutture idriche o come gli ospedali distrutti o danneggiate dai combattimenti, in un contesto di instabilità accentuato dalla pandemia). Alla soluzione di questi problemi dovrebbe provvedere il nuovo governo libico ma è evidente che è nato per servire l’imperialismo e il protagonismo della Turchia del fascio-islamico Erdogan, e utile all’imperialismo USA a guida Biden in funzione antirussa.

pc

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