- Teatri di guerra nella città ribelle
Il
Sindaco ribelle, Luigi De Magistris, prometteva, tempo fa, lo
stanziamento di un milione di euro per le piccole realtà teatrali
cittadine – in costante affanno, se non proprio annegate – da
distribuire mediante bando. A tutt’oggi, il bando non è ancora partito
ma la somma si è già assottigliata, drasticamente e magicamente, a
trecentomila euro circa. Settecentomila euro andati in fumo, dunque.
D’altro canto, a Napoli si aprirà, nella sede di quello che fu l’ex istituto per cadetti Nunziatella – a Pizzofalcone – la prima Scuola di Guerra Europea, voluta dall’Ue (e dalla Nato), frutto avvelenato del cosiddetto accordo Pesco (Politica Estera e Sicurezza Comune) siglato dai Ministri della Difesa della Comunità Europea. Insomma, Teatri di Guerra – per riprendere il titolo di un bel film di Martone, degli anni ’90 – anziché Teatri. La Cultura della Guerra, invece della Cultura contro la Guerra.
Come se non bastasse, tra gli antichi e stanchi vicoli di Partenope, la cultura camorristica
ed il suo parto bastardo: quella guerra di camorra che, da sempre, insanguina le strade cittadine, per il controllo del business e degli affari, illeciti o leciti, con il coinvolgimento della borghesia imprenditoriale e dei gruppi di potere, le cui mani son diventate, nel tempo, tentacoli sulla nostra metropoli.
Guerra di camorra, cui fa da risonanza l’annesso rimando mediatico su scala planetaria, sotto forma di fiction, televisiva o letteraria, che ha trasformato Napoli da capoluogo culturale e città teatrale per antonomasia, a non luogo-mito di una moderna Gomorra. Biblica condanna per piaghe morali ed umano decadimento, che affliggerebbero una città – complessa, certo, ma non più di altre megalopoli contemporanee – il cui destino segnato sarebbe quello di finir distrutta dal fuoco divino.
Narcisistico compito assunto, da circa un decennio, da un auto proclamatosi padreterno di piccolo cabotaggio, come Saviano, o da altri Savonarola e fustigatori di turno, specie nordico-savoiardi o lombardo-veneti, cui non dispiacerebbe veder seppellita Napoli da ceneri e lapilli infernali.
Contraddizioni e ipocrisie ad impalcatura di un sistema, dunque, che condanna la guerra di strada, prodotto di distorti rapporti di forza e di produzione, nonché di perverse dinamiche classiste, figli e figlie del capitalismo selvaggio; che però accetta ed anzi promuove la guerra sul ben più ampio scacchiere internazionale, tra Stati, Popoli ed Imperi, a sancire un simulacro di democrazia che, invece, altro non rappresenta se non il sintomo più doloroso dello stesso morbo: il capitalismo finanziario. La guerra, insomma, a qualunque livello, come estensione naturale del Mercato.
Di fronte a tanta barbarie, solo un’arte e una cultura “clandestine”, e il teatro come ultima sacca di resistenza, possono/potrebbero creare, a nostro modesto parere, anticorpi sociali, intelligenze e tendenze di pensiero capaci di opporsi a questo atroce supermercato della morte.
A Napoli, però, le giunte susseguitesi nel tempo non sono riuscite a disegnare uno straccio di politica culturale, programmatica e seria, che non fosse quella dei grandi eventi, dispendiosi ma inutili, lasciando progressivamente morire proprio quelle piccole realtà “clandestine”, le sole capaci di ridare senso, in termini estetici e politici, ad un discorso teatrale ormai stagnante ed autoreferenziale. Passi per le giunte di destra, notoriamente estranee alla materia…
Ma l’Amministrazione De Magistris non fa certo eccezione. Circoscrivendo qui il discorso al solo ambito teatrale, Napoli Teatro Festival, Fondazione Campania dei Festival e Teatro Nazionale si muovono e si organizzano seguendo esclusivamente le logiche asfittiche e stritolanti del liberismo economico, secondo cui la quantità conta decisamente più della qualità. Il prodotto più dell’arte. Il profitto più della crescita civile e culturale dei cittadini.
E allora ben vengano le Scuole di Guerra, i cui prodotti – umani e militari – agiranno in teatri bellici per distruggere culture e civiltà diverse, nondimeno difendendo interessi e garantendo guadagni, seppur su corpi e bare. Mentre invece periscano pure i Teatri, la cui unica funzione, oramai, non è quella di parlare al pubblico e di far cultura, ma di riproporre, sui palchi, il linguaggio televisivo ed i suoi stereotipi, producendo profitto.
Eppure, una città che voglia considerarsi ribelle non può prescindere dall’elemento fondamentale per quella ribellione. Una controcultura, capace di attaccare alle fondamenta il sistema. Una cultura ribelle. A ben considerare, tuttavia, in questa triste e paradossale vicenda, fatta di compromessi, ripiegamenti strategici e riposizionamenti tattici, interni all’Amministrazione Comunale, lo slogan della Città Ribelle ci sta tutto, etimologicamente parlando s’intende.
Ribelle: da Re (di nuovo) e Bellum (Guerra). Che ricomincia la guerra.
La Giunta cittadina, dunque, composta anche da alcuni validi compagni, piega la testa alle logiche imperialistiche e guerrafondaie dell’Occidente, targato Usa. “L’Ombrello della Nato”, di berlingueriana memoria, evidentemente getta ancora molte, fredde e fosche ombre.
D’altro canto, a Napoli si aprirà, nella sede di quello che fu l’ex istituto per cadetti Nunziatella – a Pizzofalcone – la prima Scuola di Guerra Europea, voluta dall’Ue (e dalla Nato), frutto avvelenato del cosiddetto accordo Pesco (Politica Estera e Sicurezza Comune) siglato dai Ministri della Difesa della Comunità Europea. Insomma, Teatri di Guerra – per riprendere il titolo di un bel film di Martone, degli anni ’90 – anziché Teatri. La Cultura della Guerra, invece della Cultura contro la Guerra.
Come se non bastasse, tra gli antichi e stanchi vicoli di Partenope, la cultura camorristica
ed il suo parto bastardo: quella guerra di camorra che, da sempre, insanguina le strade cittadine, per il controllo del business e degli affari, illeciti o leciti, con il coinvolgimento della borghesia imprenditoriale e dei gruppi di potere, le cui mani son diventate, nel tempo, tentacoli sulla nostra metropoli.
Guerra di camorra, cui fa da risonanza l’annesso rimando mediatico su scala planetaria, sotto forma di fiction, televisiva o letteraria, che ha trasformato Napoli da capoluogo culturale e città teatrale per antonomasia, a non luogo-mito di una moderna Gomorra. Biblica condanna per piaghe morali ed umano decadimento, che affliggerebbero una città – complessa, certo, ma non più di altre megalopoli contemporanee – il cui destino segnato sarebbe quello di finir distrutta dal fuoco divino.
Narcisistico compito assunto, da circa un decennio, da un auto proclamatosi padreterno di piccolo cabotaggio, come Saviano, o da altri Savonarola e fustigatori di turno, specie nordico-savoiardi o lombardo-veneti, cui non dispiacerebbe veder seppellita Napoli da ceneri e lapilli infernali.
Contraddizioni e ipocrisie ad impalcatura di un sistema, dunque, che condanna la guerra di strada, prodotto di distorti rapporti di forza e di produzione, nonché di perverse dinamiche classiste, figli e figlie del capitalismo selvaggio; che però accetta ed anzi promuove la guerra sul ben più ampio scacchiere internazionale, tra Stati, Popoli ed Imperi, a sancire un simulacro di democrazia che, invece, altro non rappresenta se non il sintomo più doloroso dello stesso morbo: il capitalismo finanziario. La guerra, insomma, a qualunque livello, come estensione naturale del Mercato.
Di fronte a tanta barbarie, solo un’arte e una cultura “clandestine”, e il teatro come ultima sacca di resistenza, possono/potrebbero creare, a nostro modesto parere, anticorpi sociali, intelligenze e tendenze di pensiero capaci di opporsi a questo atroce supermercato della morte.
A Napoli, però, le giunte susseguitesi nel tempo non sono riuscite a disegnare uno straccio di politica culturale, programmatica e seria, che non fosse quella dei grandi eventi, dispendiosi ma inutili, lasciando progressivamente morire proprio quelle piccole realtà “clandestine”, le sole capaci di ridare senso, in termini estetici e politici, ad un discorso teatrale ormai stagnante ed autoreferenziale. Passi per le giunte di destra, notoriamente estranee alla materia…
Ma l’Amministrazione De Magistris non fa certo eccezione. Circoscrivendo qui il discorso al solo ambito teatrale, Napoli Teatro Festival, Fondazione Campania dei Festival e Teatro Nazionale si muovono e si organizzano seguendo esclusivamente le logiche asfittiche e stritolanti del liberismo economico, secondo cui la quantità conta decisamente più della qualità. Il prodotto più dell’arte. Il profitto più della crescita civile e culturale dei cittadini.
E allora ben vengano le Scuole di Guerra, i cui prodotti – umani e militari – agiranno in teatri bellici per distruggere culture e civiltà diverse, nondimeno difendendo interessi e garantendo guadagni, seppur su corpi e bare. Mentre invece periscano pure i Teatri, la cui unica funzione, oramai, non è quella di parlare al pubblico e di far cultura, ma di riproporre, sui palchi, il linguaggio televisivo ed i suoi stereotipi, producendo profitto.
Eppure, una città che voglia considerarsi ribelle non può prescindere dall’elemento fondamentale per quella ribellione. Una controcultura, capace di attaccare alle fondamenta il sistema. Una cultura ribelle. A ben considerare, tuttavia, in questa triste e paradossale vicenda, fatta di compromessi, ripiegamenti strategici e riposizionamenti tattici, interni all’Amministrazione Comunale, lo slogan della Città Ribelle ci sta tutto, etimologicamente parlando s’intende.
Ribelle: da Re (di nuovo) e Bellum (Guerra). Che ricomincia la guerra.
La Giunta cittadina, dunque, composta anche da alcuni validi compagni, piega la testa alle logiche imperialistiche e guerrafondaie dell’Occidente, targato Usa. “L’Ombrello della Nato”, di berlingueriana memoria, evidentemente getta ancora molte, fredde e fosche ombre.
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