22 novembre
2017
Daspo urbano e tolleranza zero. Una pacata istigazione all’odio di classe. Rudolph Giuliani in Italia sarebbe stato a “sinistra”
di Federico
Bonadonna
Dieci senza dimora allontanati con un daspo urbano,
il primo, dal centro di Bologna. Reato? Dormivano sotto il portico di
viale Masini, a due passi dalla stazione ferroviaria, con le loro coperte e
materassi. I dieci sanzionati che dovranno allontanarsi dalla città,
“impedivano di fatto la fruizione del passaggio pedonale nelle vicinanze di
infrastrutture ferroviarie”, dice in una nota il Comune. Al termine della
contestazione dei verbali, tutte le persone si sono allontanate consentendo
agli operatori di Hera la pulizia dell’area. Siamo portati a pensare che la Tolleranza
Zero sia un dispositivo inventato dalla destra recentemente adottato dalla
sinistra. Non è così. Mentre il sindaco di New York Rudolph Giuliani si
proponeva di “ripulire” la città nella metà degli anni’90, si affermava anche
la Terza Via di Clinton e Blair. In quegli anni però si affermano anche le
politiche law and order, provvedimenti anti-crimine che si
rincorsero vicendevolmente nell’innalzamento delle pene o nell’aspirazione
della loro applicazione ‘automatica’. Il cammino si arrestò all’ultima riforma
in ordine di tempo, quella delle three strikes. Se fino a quel
momento la riforma della giustizia, l’ultima quella del 1984, poggiava su un
solido dibattito scientifico, sul criterio e sulla razionalità, le riforme
negli anni Novanta e Duemila affondarono nell’irrazionale e nell’assoluta
assenza di riflessioni dottrinali. Esiste un legame forte tra la politica
criminale
statunitense e quella di altri stati, compresa l’Italia.
Gli Stati
Uniti rappresentano un laboratorio giuridico di notevole interesse al punto da
permettere di prevedere le tendenze evolutive future della politica criminale
globale (M. Garland, La cultura del controllo, 2004). Durante i
primi anni Novanta echeggia negli Stati Uniti lo slogan “Tre volte e sei
fuori!”, utilizzato per la prima volta nel 1993 dall’allora Presidente
degli Stati Uniti Bill Clinton durante il discorso annuale al Congresso.
Ogni americano conosce la regola tre volte e sei eliminato: è un
principio del gioco nazionale del baseball. La regola è diventata anche un
principio penale, tanto che volgarmente calata nel mondo criminale come titolo
della misura anticrimine, si può tradurre con un monito chiaro: «tre condanne
per gravi reati commessi e scoperti e tu, (criminale) ti becchi l’ergastolo». La
tolleranza zero dunque è un dispositivo securitario basato sul generico
inasprimento delle sanzioni, dei divieti e delle espulsioni dei devianti.
Naturalmente “cavalcare le paure” sociali è un modo per alimentare
l’insicurezza percepita. Nel suo Parola d’ordine: tolleranza zero. La
trasformazione dello Stato penale nella società neoliberale, Löic
Wacquant analizza l’estendersi dello “stato penale” in parallelo al
declino dello “stato assistenziale”, interpretando la tolleranza zero come
la risposta autoritaria alla crescente pauperizzazione provocata dal ridursi
dell’intervento pubblico nella sfera economica. Secondo Wacquant, gli stati
hanno rinunciato all’integrazione delle classi subalterne perché troppo
costosa, preferendo la criminalizzazione e la punizione dura dei comportamenti
“devianti”. Wacquant ripercorre la nascita e la diffusione della strategia
della tolleranza zero, supportata da think thank neoconservatori come American
Enterpise Institute, Cato Institute, Heritage Foundation, Manhattan Institute.
Richiamandosi a Foucault, Wacquant considera le norme penali come norme di
controllo sociale di stampo classista dei ceti marginali. Il testo smentisce,
citando numerose ricerche, tutte le tesi dei sostenitori della “tolleranza
zero” perché non è mai stato rilevato alcun nesso tra politiche repressive e
diminuzione del tasso di criminalità. La “tolleranza zero” si risolverebbe
perciò non in un rimedio al problema della criminalità, ma in una precisa
politica di repressione dei conflitti sociali e di legittimazione del potere
coercitivo.statunitense e quella di altri stati, compresa l’Italia.
Fondamento teorico della tolleranza zero è la broken
windows theory, una teoria criminologica degli anni Ottanta elaborata
sulla scia del pensiero funzionalista di Robert Merton. I sociologi Willson
e Kelling supposero che i cittadini, vedendo una finestra rotta di un
palazzo per lungo tempo, si abituassero all’idea di degrado e di mancanza di
regole che stimola le attività criminali. Negli anni in cui si elabora la
teoria delle finestre rotte che troverà applicazione in tante città
statunitensi con l’espulsione di migliaia di homeless dai centri urbani, a
Roma don Luigi Di Liegro, lo scomodo presidente della Caritas Diocesana,
realizza a Villa Glori, nel cuore della Roma-bene, i Parioli, un centro
di accoglienza per persone affette da Hiv. A quei tempi Parioli non era ancora
diventato l’ultimo baluardo della sinistra ma era il quartiere dei ricchi,
fulcro del movimento neofascista in doppio petto Dio, Patria, Famiglia. E
proprio mentre il Cardinal Siri tuonava che l’aids era un castigo di Dio
e medici e professionisti della zona strillavano che il contagio si diffondeva
nell’aria, don Luigi realizzava un centro, il primo della città, per malati di
Aids. Luigi fu minacciato di morte, una costante nella sua vita, ma quando
sembrava che la partita di Villa Glori fosse perduta, papa Woytila si
schierò con lui e a Villa Glori è ancora oggi funzionante. Di Liegro aprì anche
un centro di ascolto in via delle Zoccolette, la mensa della Caritas a Colle
Oppio, il dormitorio e il poliambulatorio in via Marsala, cioè nel cuore della
Capitale e non solo nelle periferie abbandonate, a testimonianza che il centro
storico non è una vetrina e che la città è di tutti, come dimostra anche
l’esperienza della comunità di Sant’Egidio a Trastevere. A partire dalla metà
degli anni Novanta e soprattutto negli anni Duemila, con l’affermazione del
centro-sinistra, il modello della Tolleranza Zero viene applicato anche in
Italia e in particolare a Roma. Nella fase 2001-2004 il modello Roma si può
riassumere nello slogan veltroniano “Nessuno resti solo” che portò a triplicare
i posti di pronta accoglienza per senza tetto, migranti e donne con bambini.
Allo stesso tempo però, il sindaco impose una serie di sgomberi a tappeto di
campi spontanei, occupazioni e baraccopoli. Nessuno sa con precisione quanti
siano stati. Un manifesto del centrosinistra per le elezioni comunali 2006
rivendicava che a Roma “in 5 anni sono state spostate 8.000 persone dagli
insediamenti abusivi”.
Manifesto del centrosinistra per le elezioni comunali
2006
Dunque una media di 1.600 persone all’anno,
oltre 113 al mese, quasi 5 persone al giorno. Secondo l’Associazione 21
Luglio uno sgombero costa 1.250 euro a persona, quindi, nel primo
quinquennio di Veltroni sono stati spesi oltre dieci milioni di euro per
“spostare” le persone che sono andate in altre occupazioni o in nuove strutture.
Il coordinatore degli sgomberi era Luca Odevaine, il vicecapo di
gabinetto del sindaco, mentre il principale gestore dei nuovi servizi era
Salvatore Buzzi con le sue cooperative, entrambi condannati in primo
grado nel processo ex Mafia Capitale. Gli “spostati” vagano da
vent’anni, e ancora oggi, da un interstizio della metropoli a un altro, come
dimostra lo sgombero di Piazza Indipendenza di agosto 2017 dove erano
presenti nuclei famigliari residenti in città da lungo tempo. Durante il suo
secondo mandato, Veltroni promosse il “Patto per Roma Sicura” che, nelle
linee guida, prevedeva la costruzione di almeno quattro “villaggi della
solidarietà” in grado di accogliere circa 1.000 persone da collocare «fuori dal
GRA» (cfr. Giovanna Vitale, Roma, campi-rom individuate le aree, La
Repubblica 20 maggio 2007) e la presenza della polizia romena all’interno dei
campi romani, sottoscritto del prefetto di Roma Serra subito dopo candidato (ed
eletto) nel 2008 nelle liste del PD, dal presidente della Regione Lazio
Marrazzo e dal presidente della provincia di Roma Gasbarra, alla presenza del
ministro dell’interno Amato. Ma il volto più feroce del Modello Roma
emerge con chiarezza la sera del 30 ottobre 2007 nei pressi della stazione ferroviaria
di Tor di Quinto. Piove, la strada è allagata e la zona è scarsamente
illuminata quando una donna di 47 anni viene rapita, seviziata e uccisa.
L’assassino è uno straniero che vive in una piccola baraccopoli lì vicino. Quel
giorno la sinistra è al governo della Capitale ininterrottamente da 14 anni e
Rifondazione Comunista ha la delega alle Periferie da sette anni. La gestione
del delitto Reggiani, il grande rimosso, può essere identificato come il
momento in cui la sinistra cambia il segno politico solidarista della sua
storia che l’aveva fino ad allora contraddistinta. Ma quella è anche la
scintilla – in concomitanza con un sondaggio Ipsos che rivela il crollo
del consenso verso il sindaco (cfr. C. Cerasa, La presa di Roma, Rizzoli,
2009, pag. 19.) – per scatenare una crisi politica che terminerà con la fine di
Prodi . Prima di far cadere il
governo però, Veltroni ottiene dal presidente del Consiglio dei ministri
iniziative straordinarie e d’urgenza sul piano legislativo in materia di
sicurezza, ricordando in una conferenza stampa che Roma era la città più sicura
del mondo prima dell’ingresso della Romania nell’Ue. Il presidente della
Repubblica Napolitano, quello del consiglio Prodi e i ministri della sinistra
radicale, Ferrero e Pecoraro Scanio votarono il decreto legge presentato dal
ministro degli interni Amato e dal vice ministro Marco Minniti. «I prefetti
devono poter espellere i cittadini comunitari che hanno commesso reati contro
cose e persone […] L’Italia deve porre la questione riguardo ai flussi
migratori dalla Romania in sede europea. L’Europa deve chiamare in causa le
autorità romene […] In Europa bisogna starci a certe regole: non si può aprire
i boccaporti e mandare migliaia di persone da un Paese all’altro», dichiarò tra
l’altro Veltroni in una conferenza stampa infuocata. Che poi precisò di non
fare generalizzazioni verso un singolo Paese, ricordando tuttavia che «il 75% di arresti
effettuati hanno riguardato i romeni». Tra i pochi critici del provvedimento e della
violenta virata del sindaco ci fu Marco Pannella che commentò lapidario: «Il dolce Veltroni ha ispirato una cosa da non
credere, un romeno ammazza una persona e il nostro governo si rivolge
all’Unione Europea e al governo romeno come se questo fosse il rappresentante
dell’aggressore». Fino al momento dell’omicidio – per altro in linea con la
tendenza delittuosa molto bassa della Capitale – Veltroni aveva sostenuto un
atteggiamento anche troppo tollerante rispetto le situazioni di degrado
sociale. Tanto che il delitto avvenne all’uscita della stazione di Tor di
Quinto, in una strada dissestata e mal illuminata seppure molto frequentata,
nei cui pressi c’era una baraccopoli. Eppure la gestione del territorio è un
elemento essenziale per le politiche sociali e agli amministratori pubblici si
chiede di investire il denaro pubblico per curare la città, non per alimentare
la paura, come invece fece il leder del neonato PD che, promuovendo il
decreto-sicurezza si candidò alle elezioni anticipate, spostando l’attenzione
dal piano del progetto della città a quello dell’emergenza. Anche se pochi
ricordano, in quei giorni Roma fu insanguinata da atti criminali di italiani
contro rumeni, ma i leader della sinistra, anziché fare una doverosa
autocritica, almeno per la parte che li riguardava, si limitarono ad accusare la destra di fare speculazione
politica.
Il primo daspo di Bologna è solo l’ultimo anello di
una catena lunghissima. Quasi 20 anni.
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