Una recensione
Se sette minuti vi
sembran pochi…
di Riccardo Tavani
Undici donne, undici
operaie, chiuse in uno spogliatoio, dentro una fabbrica vuota,
deserta, attorno a un tavolo, tra gli armadietti metallici. Devono
decidere della loro condizione ma – soprattutto – di quella delle
loro compagne e compagni di lavoro che sono di fuori con cartelli e
striscioni ai cancelli. Questo è il contesto di 7 minuti, l’ultimo
film di Michele Placido. Un film tratto da una storia vera, accaduta
in Francia, a Yssingeaux, nell’Alta Loira, dalla quale Stefano
Massini, uno degli sceneggiatori del film, aveva tratto un suo
precedente lavoro teatrale con la regia di Alessandro Gassmann.
L’azione è spostata in
Italia e ambientata nella zona delle piccole e medie fabbriche di
Latina, per farne un racconto cinematografico tratto da situazioni e
caratteri umani della nostra attuale condizione operaia, e femminile
in particolare. La vicenda, d’altronte, ha tratti ormai comuni non
solo a tante fabbriche ma anche a molti altri posti di lavoro con
contratti sia a tempo indeterminato sia – soprattutto – soggetti
al frastagliato arcipelago di contratti o non contratti del
precariato.
Quella di questo film è
la fabbrica tessile dei Fratelli Varrazzi (uno dei quali interpretato
dallo stesso Placido) che stanno cedendo il pacchetto di maggioranza
azionaria a una multinazionale francese. Da Parigi giunge, con il
primo volo della mattina, Madame Rochette per stipulare l’atto
formale di accordo con la vecchia proprietà. Questo dovrà essere
poi approvato dal Consiglio di Fabbrica e quindi ratificato dal resto
del personale. Le operaie delegano una loro rappresentate a
partecipare come osservatrice alla stesura dell’accordo padronale.
È Bianca – interpretata da Ottavia Piccolo, come nella precedente
pièce teatrale di Massini –, l’operaia più esperta, con trenta
anni di anzianità aziendale alle spalle. Madame Rochette ha molta
fretta di concludere il tutto entro le cinque del pomeriggio, per
essere la sera di nuovo a Parigi, a festeggiare il compleanno di un
suo nipote.
Quando Bianca torna nello
spogliatoio, tra le sue dieci compagne del Consiglio di Fabbrica, ci
sono dunque poche ore di tempo per votare sì o no a quell’accordo.
L’atto di cessione prevede questo: la fabbrica non chiude, non ci
sarà alcun licenziamento, i turni di lavoro rimarranno immutati. La
nuova proprietà chiede il taglio di soli sette minuti di pausa.
Sembra un grande risultato, le delegate telefonano all’esterno,
dove iniziano canti e balli, e vogliono immediatamente, compattamente
votare sì, per chiudere subito l’intera vicenda e tornarsene a
casa. L’unica che annuncia il suo voto contrario è proprio Bianca.
Quando lei è entrata in fabbrica, la pausa era di 45 minuti,
ridottasi progressivamente fino a 15. Tolti questi sette, ne
rimarranno solo 8. Bianca invita le compagne a ragionare, a
riflettere, prima di precipitarsi a votare sì, perché quei sette
minuti in meno si trascinano inevitabilmente dietro molte altre
rinunce.
Inizia una discussione
tesa, drammatica, acre, a tratti violenta, con accuse, recriminazione
reciproche che spacca l’organismo di fabbrica e contrappone le
singole compagne di lavoro l’una all’altra. Attraverso questo
aspro confronto, Placido ci mostra, anzi, compie una vera e propria
vivisezione dell’attuale composizione di classe umana dentro questa
realtà industriale italiana. Donne sposate, single, separate, con
molti, nessun figlio, immigrate dall’Africa, provenienti dall’ex
Est europeo, condizionate, ricattate, soggette ad attenzioni
padronali di tipo sessuale. Una composizione umana frammentata,
dispersa, i cui vuoti neanche gli slanci di affetto e solidarietà
cementati in anni di lavoro in reparto riescono autenticamente a
superare. Su questa divisione strutturale punta il padronato per
affermare le proprie imposizioni.
Sta divenendo sempre più
un fatto di cronaca quotidiana la recrudescenza padronale su
controllo, rigida regolamentazione, riduzione, negazione delle pause
lavorative, siano esse tra i turni, per il pasto o per i bisogni
corporali. Una recrudescenza che tocca dunque non più soltanto la
sfera fisico-meccanica esterna della forza lavoro, ma direttamente
quella biopsichica più intima. Un bio-potere pervasivo che vuole
appropriarsi dell’accresciuta componente sensibile, culturale,
intellettiva e immateriale che ogni lavoratrice, lavoratore porta
oggi all’interno del processo lavorativo, senza che essa sia loro
minimamente riconosciuta.
Una vicenda
cinematografica resa viva dalle undici attrici che formano questo
sfrangiato ventaglio di classe e che sono: Cristiana Capotondi
(Isabella), Ambra Angiolini (Greta), Fiorella Mannoia (Ornella),
Violante Placido (Marianna), Ottavia Piccolo (Bianca), Clémence
Poésy (Hira), Maria Nazionale (Angela), Balkissa Maiga (Kidal),
Luisa Cattaneo (Sandra), Erika D'Ambrosio (Alice), Sabine Timoteo
(Micaela). A completare un cast tutto al femminile c’è inoltre
Anne Consigny nel ruolo di Madame Rochette. Donne che – riprendendo
il celebre canto di protesta delle mondine tra le risaie “Se otto
ore vi sembran poche” – potrebbero ora intonarlo ai più intimi
minuti di vita che vorrebbero loro strappare via.
È importante che un
regista e un attore italiano di successo come Michele Placido –
invece di dedicarsi a copioni che sarebbero certamente più redditizi
per lui – porti sullo schermo temi legati alla condizione della
resistenza operaia sul fronte del lavoro. Se pensiamo anche a un
altro film operaio, quello del regista inglese Ken Loach I, Daniel
Blake, vincitore di Cannes 2016, una cosa colpisce: il lavoro vivo
non appare più sullo schermo cinematografico. Appare invece, e come,
in un film sul lavoro precario più crudele ambientato tra Nettuno e
la zona Tuscolana di Roma. È Sole Cuore Amore di Daniele Vicari,
presentato all’ultima Festa del Cinema di Roma. Un altro film da
non mancare e del quale Stampa Critica ha già scritto.
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