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Dal Rapporto di Matteo de Bellis, ricercatore di
Amnesty InternationalImpronte digitali prese con la forza
Le informazioni presentate in questo documento sono state raccolte da rappresentanti di Amnesty International durante il 2016, attraverso quattro visite a diverse città e centri di accoglienza in Italia: Roma, Palermo, Agrigento, Catania e Lampedusa (marzo), Taranto, Bari e Agrigento (maggio), Genova e Ventimiglia (luglio), Roma, Como e Ventimiglia (agosto). Alcune informazioni sono basate su precedenti visite in Italia, comprese quelle ai centri di accoglienza di Lampedusa e Pozzallo a luglio 2015. Durante queste visite, Amnesty International ha intervistato 174 rifugiati e migranti e ha avuto conversazioni più brevi con molti altri. Le interviste hanno avuto luogo in centri di accoglienza che hanno la funzione di hotspot (Lampedusa e Taranto)
Dopo il suo salvataggio, Salih e altri nuovi arrivati sono stati portati in autobus al così detto «hotspot» di Taranto... «Non volevamo che ci prendessero le impronte digitali ma quattro poliziotti ci
hanno trascinati fuori dall'autobus e fino all'ufficio, dove hanno cominciato a picchiarmi» mi ha detto Salih.
«Mi hanno colpito almeno quattro volte con un manganello e poi ho sentito una scossa elettrica sulla schiena. Sono collassato e ho iniziato a vomitare. Dopo 10 minuti sul pavimento ho accettato di dare le impronte digitali».
Dopo quattro giorni nell'hotspot di Taranto, Salih è stato portato alla stazione ferroviaria e lasciato lì. «Nessuno mi ha chiesto se volevo chiedere asilo o nient'altro» mi ha detto. «Voglio andare via dall'Italia. Voglio stare con mio zio e la sua famiglia, in Inghilterra»
Ibrahim, 47 un uomo di 27 anni del Sudan,
che cerca di raggiungere il fratello nel Regno Unito, ha raccontato
in modo dettagliato che il gruppo era sbarcato a Reggio Calabria il
23 giugno, prima che la polizia li trasferisse su sei autobus
all’hotspot di Taranto, dove sono arrivati la mattina presto. Non
appena gli autobus si sono fermati di fronte al centro, le persone si
sono rifiutate di scendere, temendo che avrebbero immediatamente
preso le loro impronte digitali. “Sette poliziotti sono saliti
sull’autobus e ci hanno preso con la forza a uno a uno, mi hanno
circondato. Uno di loro ha preso il bastone elettrico e me lo ha
messo sul braccio destro. Sono caduto svenuto. Mi hanno svegliato con
un ventaglio. Sentivo molto dolore al braccio… Due poliziotti mi
hanno sollevato e portato nell’ufficio. La polizia mi ha chiesto
nome, nazionalità e data di nascita... Da lì mi hanno portato di
forza all’ufficio accanto per fare la foto… Mi hanno preso le
impronte digitali, prima un dito alla volta e poi all’intera mano”.
Ramadan, 49 Sudanese di 23 anni, sbarcato
a Catania e poi trasferito all’hotspot di Taranto, ha spiegato come
poliziotti lo abbiano fatto scendere dall’autobus ed entrare
nell’ufficio della polizia: “Lì mi hanno preso a pugni, forte e
dappertutto, mi si è gonfiata la faccia, con pugni, schiaffi,
calci... Poi hanno cercato di mettermi la mano sulla macchina per le
impronte, io l’ho ritratta, allora con i manganelli mi hanno
picchiato sulle due braccia, vicino alle spalle, così da farmi tanto
male da non poter resistere.” Amnesty International ha visto segni
sulla spalla sinistra e sulle gambe di Ramadan, coerenti con il suo
resoconto. Abass, di 22 anni, e Salih, 51 di 16, hanno vissuto storie
simili. In due casi, persone hanno detto ad Amnesty International che
la polizia li aveva maltrattati causando loro forti dolori ai
genitali e infliggendo umiliazioni sessuali. Ishaq52 ha affermato di
essere stato umiliato sessualmente
Ibrahim, descrivendo cosa è accaduto
quando è arrivato all’hotspot di Taranto il 24 giugno 2016, ha
spiegato come gli avvertimenti dell’interprete che lavorava con la
polizia siano pian piano diventati minacce di violenza fisica e
detenzione prolungata: “L’interprete somalo ci ha detto che
dovevamo lasciare le impronte digitali, che lo volessimo o meno.
Abbiamo chiesto garanzie che fosse solo per ragioni di sicurezza. Ci
ha detto di scendere dall’autobus ma ci siamo rifiutati. Così
l’autobus è stato portato dentro al cancello. Il somalo ci ha
detto: ‘È la vostra ultima opportunità’… 7 poliziotti sono
saliti sul bus e ci hanno preso uno a uno, ero il primo e sono
sceso…Poi ho visto l’interprete, che mi ha detto ‘Vuoi dare le
impronte digitali o no? O lo fai o soffrirai come gli altri’…
[Più tardi] l’interprete mi ha detto che non mi avrebbero lasciato
andare finché non avessi dato le impronte”.
Sempre in relazione agli eventi
nell’hotspot di Taranto, Abass ha spiegato in modo dettagliato come
l’interprete lo aveva minacciato e aveva fatto riferimento alla
pressione esercitata dai governi europei per spingere l’Italia a
prendere le impronte digitali: “Un interprete, algerino o tunisino,
ci ha spiegato che dovevamo dare le impronte perchè l’Italia
altrimenti avrebbe preso una multa. Ha detto che c’erano altri
poliziotti europei che controllavano se tutti davano le impronte. E
che chi non lasciava le impronte sarebbe stato picchiato dalla
polizia italiana”.
Khider, parlando degli incidenti
all’hotspot di Taranto del 24 giugno 2016, ha parlato di un altro
uomo: “L’ultimo continuava a rifiutarsi di dare le impronte
digitali e alla fine lo hanno picchiato, gli hanno dato scosse
elettriche quando era ormai a terra da cinque minuti. Alla fine ha
detto che potevano fargli tutto quello che volevano. Ero
nell’ufficio… Ho sentito le urla e ho visto la scena dalla
finestra. Quando sono andato fuori era ancora a terra, privo di
sensi. Quattro ore dopo è tornato e aveva difficoltà a camminare”.
A maggio 2016, Amnesty International ha
visitato anche l’hotspot di Taranto, dove un altro ufficiale di
polizia ha confermato: “La legge consente un uso proporzionato
della forza – c’è una circolare del ministero dell’Interno su
questo – ma qui non ce ne è mai stato bisogno”.38 Quattro mesi
dopo, lo stesso funzionario ha dichiarato ad Amnesty International
che durante l’estate la polizia aveva fatto ricorso all’uso della
forza per ottenere le impronte digitali di rifugiati e migranti che
non volevano collaborare, nei casi in cui era stato ritenuto
necessario, sottolineando tuttavia che “l’uso della forza è
esercitato raramente, in maniera commisurata e senza usare violenza”.
Tutte le fonti consultate da Amnesty International hanno affermato in
maniera coerente che la polizia ha fatto ricorso all’uso della
forza in diverse occasioni durante il 2016.
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