nei confronti dei Padroni AM e tutti i padroni uniti a difesa di AM - Governo nelle sue diverse anime e opposizione reazionaria di destra, Stato borghese, sindacati confederali e tutto l'arco dell'opportunismo politico/sindacale e dell'ambientalismo piccolo borghese che sostiene con diverse motivazioni la posizione della chiusura della fabbrica. In questo Speciale troveranno spazio anche quelle posizioni, diverse dalla nostra in alcuni aspetti, ma che si distinguono dal 'fronte' che noi critichiamo e combattiamo, nell'interesse dell'autonomia operaia, lotta di classe, anticapitalismo che guidano e orientano le nostre posizioni e le nostre azioni.
ArcelorMittal
Taranto
Apparenza
e sostanza
Tutti gli avvenimenti meritano
di essere decifrati. Chi li cavalca così come appaiono deforma la
realtà, nasconde la natura reale del conflitto e obiettivamente
contribuisce alla “tempesta perfetta fase 2”.
Cominciamo dalla giornata del
8 novembre. È cominciata presto innanzitutto, e non alle 17 del
pomeriggio davanti ai riflettori delle televisioni, quando è
arrivato il Presidente Conte.
E’ cominciata alle 4,30 del
mattino – per usare le parole di uno dei delegati dell’appalto -
quando vi era lo sciopero indetto inizialmente solo da Uilm e Fiom, a
cui si era aggregata poi la Fim che aveva fatto un proprio sciopero
il giorno 6 novembre di netto stampo aziendalista, per difendere capi
e quadri dall’eliminazione dello scudo penale.
Mentre all’appalto i
delegati bloccano i cancelli, alzandosi appunto presto e ponendo
quindi in condizione i lavoratori di poter scioperare massicciamente
e di riempire con migliaia di operai il piazzale della portineria
imprese, i delegati dell’ArcelorMittal sono “rimasti a casa”,
lasciando i cancelli liberi e non svolgendo alcun ruolo per la
partecipazione allo sciopero né prima, né durante. E lo avevano
fatto apposta, nessuno lo nasconde, sulla base di una linea
esplicitata, quelli della Fim perché “avevano già dato”, quelli
della Uilm e della Fiom perchè avevano teorizzato lo “sciopero
silenzioso”, affidato alla buona volontà di ogni singolo operaio.
Per chiunque conosce minimamente le fabbriche e gli operai sa bene
che fare così significa solo contribuire all’indebolimento dello
sciopero.
Un velo pietoso va steso su
l’Usb che alle recenti roboanti dichiarazioni su nazionalizzazione
o chiusura ha fatto seguire una scomparsa dalla scena, che poi di
fatto è uno stare allineato e coperto dietro la posizione di
governo/M5S e Istituzioni locali e regionali.
Spuntare l’arma dello
sciopero ai lavoratori è quello che voleva ArcelorMittal
innanzitutto.
Operai silenti in attesa e
ambientalismo strillante è la miscela che produce “tutto il
potere” ai padroni, “tutto il potere” ai loro governi.
Altra realtà c’era nella
postazione di migliaia di operai delle Ditte dell’appalto, certo
prime vittime dell’azione di ArcelorMittal, che con la loro
presenza massiccia in qualche misura ponevano con forza la loro
opposizione ai licenziamenti, cassintegrazione che già i padroni di
alcune ditte hanno annunciato come immediati.
Cancellare la classe operaia e
le sue lotte, assediarla e ricattarla come fanno i padroni è non
certo mettere fine all’orrore senza fine delle morti sul lavoro e
da inquinamento, ma significa voler cancellare l’arma fondamentale
del cambiamento, che solo la lotta di classe e di massa, che solo
l’autonomia operaia può realizzare e che oggi deve significare
battersi sulla base di una piattaforma che raccolga effettivamente le
rivendicazioni degli operai e delle masse dei quartieri inquinati,
come quella proposta dallo Slai cobas per il sindacato di classe ben
prima della grave crisi di questi giorni.
Ma la miscela perversa della
difensiva operaia, della delega alla cosiddetta politica e al
governo, che aveva già prodotto il voto ai 5stelle, del sindacalismo
complice o confuso dell’Usb - passato dalla nazionalizzazione dei
primi giorni alla firma dell’accordo del 6 settembre 2018, alla
posizione della chiusura della fabbrica; a cui si aggiunge l’assedio
dell’ambientalismo della “chiusura della fabbrica”, amplificato
dai mezzi di comunicazione che praticano la TV del dolore a corrente
alternata; tutto questo rende difficile l’affermarsi delle
posizioni di classe in fabbrica e in città.
Il resto chiaramente lo ha fa
comunque la crisi mondiale dell’acciaio che i padroni, che ne sono
i responsabili, scaricano sulla pelle dei lavoratori sotto ogni
latitudine.
Boccia presidente della
Confindustria dà voce a questi padroni, non addolcendo assolutamente
le cose: “Se c’è una crisi non si può pretendere che le
imprese mantengano i livelli di occupazione; bisogna che il governo
gestisca questa fase. Come? Cassintegrazione (o peggio) per i
lavoratori, sostegno alle imprese con misure precise assecondando il
ciclo”. In concreto, difendere i profitti dei capitalisti, e
permettere loro di licenziare.
E se il governo ‘vorrebbe ma
ancora non può’ e c’è divisione al suo interno, fuori dal
governo Salvini, col suo compagno di merende Renzi/Bellanova, dice
Sì, sbrighiamoci...
La venuta del presidente
Conte, in nome di un populismo buono, all’”avvocato del popolo”,
ha in qualche maniera amplificato l’apparenza delle cose, tra i 200
di area ambientalista e le loro mille buone ragioni nella denuncia
dell’Ilva di Riva e ora di ArcelorMittal, e i 200 delegati
rinchiusi nel consiglio di fabbrica.
Le cronache e le immagini dei
due incontri – tumultuoso quello alla portineria, obiettivamente
plaudente dentro il consiglio di fabbrica – non hanno certo portato
le esigenze della classe e delle masse, ma hanno confermato la delega
al governo; al governo della borghesia gestito da rappresentanti
della piccola borghesia, alla ricerca di un’impossibile
conciliazione tra interessi delle masse – che per loro sono
interessi elettorali – e le ragioni dei padroni dell’acciaio e
dei padroni nel loro insieme.
Gli operai attaccati da Mittal
e dai padroni in generale, dal governo, si trovano schiacciati tra
due cappe.
Da un lato l’ambientalismo
antioperaio, diretto ed egemonizzato dalla piccola borghesia, benchè
al suo interno vi siano sia donne, giovani del popolo, dei quartieri
più inquinati ma anche più disastrati in termini di disoccupazione,
sanità, scuole, ecc., sia qualche operaio ex Ilva, lavoratori che
ragionano come il piccolo borghese o come il sottoproletario;
dall’altro l’aristocrazia operaia, ben rappresentata dai
sindacati confederali in ogni stabilimento Ilva, ma quasi da manuale,
in tutte e in ogni caratteristica, dalla Fiom di Genova.
Nel primo caso sembra quasi di
assistere a un “teatro” già visto nella storia della lotta di
classe: la piccola borghesia strilla, impone sulla scena i suoi tempi
e modi di protesta, impone le sue sole ragioni, i suoi obiettivi
illusori e perdenti, contrapponendoli a quelli degli operai, che non
si nominano o vengono giudicati col criterio se stanno dalla sua
parte o meno, e chi non si fa “pentito” di aver lavorato in
quella fabbrica, si trova accusato, pressato, offeso.
La seconda cappa pestifera,
l’aristocrazia operaia, sfodera tutto il suo corporativismo.
Emblematiche sono le dichiarazioni di Genova: alla fine, Genova può
anche staccarsi dalla sorte di Taranto, può continuare a produrre
facendo arrivare l’acciaio da lavorare da altri siti di
ArcelorMittal; che 15mila operai possano andare in malora non gli
interessa (chiaramente l’aristocrazia operaia è cieca e si illude
– senza la forza del numero degli operai di Taranto, sarebbe una
vittoria di Pirro, momentanea). Oggi questi lavoratori sono i
migliori rappresentanti dell’aziendalismo; tutte le denunce sono
contro il governo che non ha dato quello che la Mittal chiedeva, in
primis l’immunità penale. Chiaramente le dichiarazioni dei
rappresentanti di Genova, le forme di lotta usate in passato,
influenzano parte degli operai di Taranto, perchè guardano
all’apparenza e non alla sostanza che è: “mors tua vita mea”.
Il risultato di questo
scenario è che gli operai senza autonomia e organizzazione di classe
si mettono sulla difensiva, sono preoccupati ma sfiduciati attendono
di vedere cosa farà il governo. E così perdono comunque.
Lo sciopero degli operai, il
presidio permanente della fabbrica, una forza operaia che invade la
città e raccolga le larghe masse è l’opposto ed è l’unica
sostanza che può cambiare le cose e ripristinare la vera
contraddizione che è quella tra capitale e operai, che mette in luce
i veri interessi inconciliabili che non sono quelli tra la difesa del
lavoro degli operai e la salute dei cittadini, ma quelli tra profitto
dei padroni e lavoro, salario, salute diritti di operai e
masse popolari.
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