Con
la visita di metà ottobre 2019 del presidente russo Vladimir Putin in
Arabia Saudita, la Federazione Russa ha assestato un altro colpo al
tradizionale sistema di alleanze mediorientali degli Stati Uniti: il
memorandum firmato da Ryad e Mosca riguarda l’ambito energetico
(idrocarburi e nucleare), aerospaziale, culturale, alimentare e
militare.
Nonostante il Cremlino si fosse detto disposto ad avviare una trattativa per la vendita a Ryad del sistema antimissile S-400, di quest’ultimo non viene fatta menzione del memorandum firmato da Ryad e Mosca. La cessione dell’S-400 all’Arabia Saudita (dopo
la sua vendita alla Turchia) avrebbe prodotto delle rilevanti conseguenze sul piano strategico, avvicinando ulteriormente Mosca e Ryad ed allontanando questa da Washington.
Washington è dunque corsa ai ripari, annunciando, appena quattro giorni prima della visita di Vladimir Putin a Ryad di voler dislocare in Arabia Saudita almeno 1.600 militari oltre a missili e sistemi di difesa antiaerea. Fa specie rilevare che a pochi giorni dagli attacchi contro le raffinerie saudite di metà settembre 2019, gli Stati Uniti ipotizzassero un incremento della propria presenza militare in Arabia Saudita nell’ordine delle centinaia di unità: l’ordine di grandezza assai diverso evidenzia che Washington non ha nessuna intenzione di rinunciare a Ryad. Quest’ultima, almeno stando a quanto dichiarato da Donald Trump, si farà integralmente carico del costo delle truppe statunitensi di stanza in Arabia Saudita.
Dopo la visita a Ryad, Putin ha fatto tappa ad Abu Dhabi, rinsaldando il proprio rapporto con gli Emirati Arabi. La visita ha ratificato un accordo del valore di oltre un miliardo di dollari, confermando gli Emirati Arabi come il primo partner commerciale di Mosca tra le monarchie del Golfo.
Il valore dell’intesa tra Mosca ed Abu Dhabi sembra destinato ad aver effetti non trascurabili anche sul conflitto yemenita, conflitto in cui gli Emirati Arabi sembrano essere sempre più riluttanti a sostenere l’oltranzismo saudita già fortemente ridimensionato dai recenti attacchi alle raffinerie di Aramco.
La guerra esplosa in Siria nel 2011 e quella deflagrata in Yemen nel 2015 si concluderanno con un Vicino Oriente assai diverso da quello che le ha viste cominciare. Il progetto di costringere Bashar al-Assad a lasciare la presidenza siriana è fallito: le conseguenze dirette del fallimento dell’operazione con cui l’Occidente intendeva rovesciarlo si possono calcolare nella devastazione pressoché totale della Siria, in qualcosa come duecentomila morti e in milioni di profughi rifugiatisi tra Libano, Turchia ed Europa.
La guerra ha inoltre allontanato la Siria dall’Occidente, provocando danni profondi sul piano delle relazioni culturali ed economiche, in particolare all’Italia. A dispetto di questo, nel Bel Paese l’ipotesi di superare le sanzioni economiche di cui la Siria si trova tutt’oggi ad essere oggetto e di riallacciare le relazioni diplomatiche sospese nell’ormai lontano 2011 tra Roma e Damasco sembra essere sostenuta da una porzione molto circoscritta di politica.
Durante le prime avvisaglie della guerra in Siria del 2011, Erdogan aveva promesso al mondo che di lì a breve “avrebbe pregato” nella Grande Moschea degli Omayyadi di Damasco e forse, senza l’intervento russo del 2015, la sua promessa avrebbe avuto qualche possibilità in più di concretizzarsi.
Ma esaminiamo cosa è avvenuto di recente: Preceduta dall’operazione “Ramo d’ulivo” cominciata all’inizio del 2018, l’operazione denominata da Ankara “Fonte di pace” (‘autunno 2019) ha segnato l’inizio di una nuova fase della guerra che si combatte tra Siria e Iraq ormai da otto anni: per condurre l’operazione, Ankara ha affiancato varie milizie jihadiste al proprio esercito regolare, rinnovando il proprio fiancheggiamento alle formazioni armate di ispirazione islamista in chiave anticurda e antisiriana.
Benché l’annunciato ritiro ufficiale delle truppe statunitensi di per sé non corrisponda affatto ad un loro ritiro totale effettivo, la decisione sostenuta da Donald Trump ha certamente segnato un prima ed un dopo: un accordo tra Ankara e Washington ha fatto corrispondere al ritiro ufficiale delle truppe statunitensi dal nord della Siria l’inizio dell’operazione con cui Ankara ha voluto colpire quanto più duramente possibile le milizie a maggioranza curda legate al PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) ed al PYD (Partito dell’Unione Democratica) siriano.
Dopo aver di fatto assecondato la politica statunitense nella regione – confidando nel fatto che la presenza militare di Washington avrebbe costituito un efficace deterrente anti-turco – la dirigenza dei partiti a maggioranza curda PKK-PYD non ha potuto fare a meno della fisiologica seppur litigiosa intesa con Damasco e Mosca.
Del resto, il fare spregiudicato con cui la dirigenza politica curda ha assecondato la politica statunitense di destabilizzazione – e balcanizzazione della Siria – si è rivelato un sanguinoso fallimento, in primis per la comunità curda.
Le recenti mosse del Cremlino nel nord della Siria hanno tagliato alla radice le mire neo-ottomane della Turchia di Erdogan, il quale è alle prese anche con un calo di consensi e con la recessione economica nel suo Paese. Di fatto, quello che Erdogan ha dovuto accettare durante ilvertice di Soci è il controllo russo del confine turco-siriano.
Il Cremlino, in questo quadro, si trova nella condizione di garante delle milizie a maggioranza curda delle YPG: in questo momento la presenza russa garantisce a milizie curde ed esercito siriano che Erdogan non continui a forzare la mano.
Allo stesso modo – almeno sulla carta e sulla scorta degli accordi di Adana firmati nel 1998 da governo turco e governo siriano – Erdogan dovrebbe essere tranquillizzato dall’idea che la presenza russa impedisca alle milizie a maggioranza curda dall’utilizzare il nord della Siria come un retroterra strategico per compiere eventuali attacchi in Turchia.
Il fazzoletto di territorio siriano momentaneamente concesso alla Turchia dal Cremlino manca di valore strategico, e corrisponde a forse un quinto del territorio di cui Erdogan intendeva assumere il controllo. Certamente Erdogan non mancherà di presentare all’opinione pubblica turca l’operazione “Fonte di pace” come un successo: tuttavia, l’avere sotto il proprio controllo alcuni territori del nord della Siria per Ankara potrebbe rivelarsi più un grattacapo che una risorsa, soprattutto in relazione alle pressioni russe e iraniane.
Ankara vuole spezzare la continuità etnico-territoriale a maggioranza curda presente nella parte sud-orientale della Turchia e in quella nord-orientale della Siria: per fare questo intende ricollocare nelle zone attualmente a maggioranza curda almeno una parte dei quasi quattro milioni di rifugiati siriani di etnia araba.
Sin dall’inizio della guerra siriana, uno dei problemi che maggiormente preoccupa Mosca è stato quello dei combattenti stranieri legati allo Stato Islamico ed alle altre formazioni jihadiste: com’è ben noto migliaia di questi sono arrivati a combattere in Siria ed Iraq dalle repubbliche dell’ex Unione Sovietica, tra cui naturalmente la Federazione Russa.
Oltre a produrre centinaia di vittime tra civili e combattenti, l’offensiva turca diretta contro il nord della Siria ha avuto tra le sue conseguenze quella di far evadere un numero enorme di combattenti dell’ISIS fatti prigionieri e detenuti nelle carceri curde. Alcuni di questi potrebbero riorganizzarsi per colpire Mosca – e Damasco – in loco così come altrove.
Anche per questo, con il recente vertice di Soci, Mosca ha dettato ad Ankara delle condizioni assai dure, bloccando poco dopo il loro inizio le operazioni militari volute da Erdogan, che durante il vertice è apparso piuttosto sommesso e quasi in imbarazzo.
Nel frattempo, il Viceministro degli Esteri della Federazione Russa Sergej Vershinin ha chiarito il punto di vista del Cremlino sulle relazioni tra Damasco e la popolazione di etnia curda: “Da parte sua la Russia sostiene il dialogo tra i curdi e Damasco. Allo stesso tempo, crediamo che i curdi siano una parte essenziale del popolo siriano. [la Russia] ha un grande rispetto per i curdi. Il nostro popolo ha sempre avuto con loro profondi legami storici. Siamo consapevoli del contributo che i curdi hanno dato per combattere l’ISIS ed i terroristi”.
Il destino fisiologico delle milizie curde sembra dunque quello del loro graduale assorbimento tra i ranghi dell’esercito siriano: un processo che, se sostenuto dalla volontà delle parti in parallelo alla nuova costituente, può produrre vantaggi reciproci per la comunità curda così come per quella araba e le altre comunità etnolinguistiche di Siria.
Quanto possa realmente durare nel tempo l’equilibrio tra Mosca ed Ankara resta un’incognita aperta. La storia recente e meno recente suggerisce che Ankara stia solo dissimulando, messa all’angolo dalle mosse del Cremlino, la propria tendenza antirussa (e anticinese). Del resto la Russia e la Turchia annoverano nella propria storia comune secoli di contrapposizioni e conflitti, che forse, presto o tardi, riemergeranno nel nuovo Vicino Oriente, ormai multipolare e post-americano.
Il disappunto e la frustrazione sono gli elementi che – per il momento – hanno connotato l’impotenza di Washington a fronte del rebus siriano. Le bellicose dichiarazioni delle massime autorità statunitensi hanno prodotto soltanto le ipotesi di inasprire le sanzioni economiche contro la Turchia: sanzioni che, paradossalmente, avrebbero avuto l’effetto opposto di quello desiderato da Washington, ossia quello di dare vigore ai legami di Ankara poco graditi agli Stati Uniti. Non a caso le sanzioni antiturche sono state rimosse da Donald Trump pochi giorni dopo la loro imposizione.
Proprio in relazione ai “legami sgraditi” della Turchia gli Stati Uniti hanno messo in agenda lo spostamento delle proprie testate nucleari dalla base turca di Incirlik, che probabilmente verranno collocate tra l’Italia e la Grecia.
La lenta decadenza – non solo mediorientale – degli Stati Uniti sembra spingere Washington a far di tutto per non perdere il controllo – diretto o indiretto – di una quota di petrolio mediorientale.
Riguardo la questione del petrolio siriano è intervenuto l’altro viceministro degli Esteri della Federazione Russa Mikhail Bogdanov: “Tutte le infrastrutture petrolifere devono tornare sotto il controllo siriano”. Un messaggio molto chiaro, soprattutto per Washington, a quasi trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, mentre l’ordine internazionale assume giorno dopo giorno sempre più le caratteristiche multipolari del mondo immaginato da Evgenij Primakov.
* da Quadrante Futuro
Nonostante il Cremlino si fosse detto disposto ad avviare una trattativa per la vendita a Ryad del sistema antimissile S-400, di quest’ultimo non viene fatta menzione del memorandum firmato da Ryad e Mosca. La cessione dell’S-400 all’Arabia Saudita (dopo
la sua vendita alla Turchia) avrebbe prodotto delle rilevanti conseguenze sul piano strategico, avvicinando ulteriormente Mosca e Ryad ed allontanando questa da Washington.
Washington è dunque corsa ai ripari, annunciando, appena quattro giorni prima della visita di Vladimir Putin a Ryad di voler dislocare in Arabia Saudita almeno 1.600 militari oltre a missili e sistemi di difesa antiaerea. Fa specie rilevare che a pochi giorni dagli attacchi contro le raffinerie saudite di metà settembre 2019, gli Stati Uniti ipotizzassero un incremento della propria presenza militare in Arabia Saudita nell’ordine delle centinaia di unità: l’ordine di grandezza assai diverso evidenzia che Washington non ha nessuna intenzione di rinunciare a Ryad. Quest’ultima, almeno stando a quanto dichiarato da Donald Trump, si farà integralmente carico del costo delle truppe statunitensi di stanza in Arabia Saudita.
Dopo la visita a Ryad, Putin ha fatto tappa ad Abu Dhabi, rinsaldando il proprio rapporto con gli Emirati Arabi. La visita ha ratificato un accordo del valore di oltre un miliardo di dollari, confermando gli Emirati Arabi come il primo partner commerciale di Mosca tra le monarchie del Golfo.
Il valore dell’intesa tra Mosca ed Abu Dhabi sembra destinato ad aver effetti non trascurabili anche sul conflitto yemenita, conflitto in cui gli Emirati Arabi sembrano essere sempre più riluttanti a sostenere l’oltranzismo saudita già fortemente ridimensionato dai recenti attacchi alle raffinerie di Aramco.
La guerra esplosa in Siria nel 2011 e quella deflagrata in Yemen nel 2015 si concluderanno con un Vicino Oriente assai diverso da quello che le ha viste cominciare. Il progetto di costringere Bashar al-Assad a lasciare la presidenza siriana è fallito: le conseguenze dirette del fallimento dell’operazione con cui l’Occidente intendeva rovesciarlo si possono calcolare nella devastazione pressoché totale della Siria, in qualcosa come duecentomila morti e in milioni di profughi rifugiatisi tra Libano, Turchia ed Europa.
La guerra ha inoltre allontanato la Siria dall’Occidente, provocando danni profondi sul piano delle relazioni culturali ed economiche, in particolare all’Italia. A dispetto di questo, nel Bel Paese l’ipotesi di superare le sanzioni economiche di cui la Siria si trova tutt’oggi ad essere oggetto e di riallacciare le relazioni diplomatiche sospese nell’ormai lontano 2011 tra Roma e Damasco sembra essere sostenuta da una porzione molto circoscritta di politica.
Durante le prime avvisaglie della guerra in Siria del 2011, Erdogan aveva promesso al mondo che di lì a breve “avrebbe pregato” nella Grande Moschea degli Omayyadi di Damasco e forse, senza l’intervento russo del 2015, la sua promessa avrebbe avuto qualche possibilità in più di concretizzarsi.
Ma esaminiamo cosa è avvenuto di recente: Preceduta dall’operazione “Ramo d’ulivo” cominciata all’inizio del 2018, l’operazione denominata da Ankara “Fonte di pace” (‘autunno 2019) ha segnato l’inizio di una nuova fase della guerra che si combatte tra Siria e Iraq ormai da otto anni: per condurre l’operazione, Ankara ha affiancato varie milizie jihadiste al proprio esercito regolare, rinnovando il proprio fiancheggiamento alle formazioni armate di ispirazione islamista in chiave anticurda e antisiriana.
Benché l’annunciato ritiro ufficiale delle truppe statunitensi di per sé non corrisponda affatto ad un loro ritiro totale effettivo, la decisione sostenuta da Donald Trump ha certamente segnato un prima ed un dopo: un accordo tra Ankara e Washington ha fatto corrispondere al ritiro ufficiale delle truppe statunitensi dal nord della Siria l’inizio dell’operazione con cui Ankara ha voluto colpire quanto più duramente possibile le milizie a maggioranza curda legate al PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) ed al PYD (Partito dell’Unione Democratica) siriano.
Dopo aver di fatto assecondato la politica statunitense nella regione – confidando nel fatto che la presenza militare di Washington avrebbe costituito un efficace deterrente anti-turco – la dirigenza dei partiti a maggioranza curda PKK-PYD non ha potuto fare a meno della fisiologica seppur litigiosa intesa con Damasco e Mosca.
Del resto, il fare spregiudicato con cui la dirigenza politica curda ha assecondato la politica statunitense di destabilizzazione – e balcanizzazione della Siria – si è rivelato un sanguinoso fallimento, in primis per la comunità curda.
Le recenti mosse del Cremlino nel nord della Siria hanno tagliato alla radice le mire neo-ottomane della Turchia di Erdogan, il quale è alle prese anche con un calo di consensi e con la recessione economica nel suo Paese. Di fatto, quello che Erdogan ha dovuto accettare durante ilvertice di Soci è il controllo russo del confine turco-siriano.
Il Cremlino, in questo quadro, si trova nella condizione di garante delle milizie a maggioranza curda delle YPG: in questo momento la presenza russa garantisce a milizie curde ed esercito siriano che Erdogan non continui a forzare la mano.
Allo stesso modo – almeno sulla carta e sulla scorta degli accordi di Adana firmati nel 1998 da governo turco e governo siriano – Erdogan dovrebbe essere tranquillizzato dall’idea che la presenza russa impedisca alle milizie a maggioranza curda dall’utilizzare il nord della Siria come un retroterra strategico per compiere eventuali attacchi in Turchia.
Il fazzoletto di territorio siriano momentaneamente concesso alla Turchia dal Cremlino manca di valore strategico, e corrisponde a forse un quinto del territorio di cui Erdogan intendeva assumere il controllo. Certamente Erdogan non mancherà di presentare all’opinione pubblica turca l’operazione “Fonte di pace” come un successo: tuttavia, l’avere sotto il proprio controllo alcuni territori del nord della Siria per Ankara potrebbe rivelarsi più un grattacapo che una risorsa, soprattutto in relazione alle pressioni russe e iraniane.
Ankara vuole spezzare la continuità etnico-territoriale a maggioranza curda presente nella parte sud-orientale della Turchia e in quella nord-orientale della Siria: per fare questo intende ricollocare nelle zone attualmente a maggioranza curda almeno una parte dei quasi quattro milioni di rifugiati siriani di etnia araba.
Sin dall’inizio della guerra siriana, uno dei problemi che maggiormente preoccupa Mosca è stato quello dei combattenti stranieri legati allo Stato Islamico ed alle altre formazioni jihadiste: com’è ben noto migliaia di questi sono arrivati a combattere in Siria ed Iraq dalle repubbliche dell’ex Unione Sovietica, tra cui naturalmente la Federazione Russa.
Oltre a produrre centinaia di vittime tra civili e combattenti, l’offensiva turca diretta contro il nord della Siria ha avuto tra le sue conseguenze quella di far evadere un numero enorme di combattenti dell’ISIS fatti prigionieri e detenuti nelle carceri curde. Alcuni di questi potrebbero riorganizzarsi per colpire Mosca – e Damasco – in loco così come altrove.
Anche per questo, con il recente vertice di Soci, Mosca ha dettato ad Ankara delle condizioni assai dure, bloccando poco dopo il loro inizio le operazioni militari volute da Erdogan, che durante il vertice è apparso piuttosto sommesso e quasi in imbarazzo.
Nel frattempo, il Viceministro degli Esteri della Federazione Russa Sergej Vershinin ha chiarito il punto di vista del Cremlino sulle relazioni tra Damasco e la popolazione di etnia curda: “Da parte sua la Russia sostiene il dialogo tra i curdi e Damasco. Allo stesso tempo, crediamo che i curdi siano una parte essenziale del popolo siriano. [la Russia] ha un grande rispetto per i curdi. Il nostro popolo ha sempre avuto con loro profondi legami storici. Siamo consapevoli del contributo che i curdi hanno dato per combattere l’ISIS ed i terroristi”.
Il destino fisiologico delle milizie curde sembra dunque quello del loro graduale assorbimento tra i ranghi dell’esercito siriano: un processo che, se sostenuto dalla volontà delle parti in parallelo alla nuova costituente, può produrre vantaggi reciproci per la comunità curda così come per quella araba e le altre comunità etnolinguistiche di Siria.
Quanto possa realmente durare nel tempo l’equilibrio tra Mosca ed Ankara resta un’incognita aperta. La storia recente e meno recente suggerisce che Ankara stia solo dissimulando, messa all’angolo dalle mosse del Cremlino, la propria tendenza antirussa (e anticinese). Del resto la Russia e la Turchia annoverano nella propria storia comune secoli di contrapposizioni e conflitti, che forse, presto o tardi, riemergeranno nel nuovo Vicino Oriente, ormai multipolare e post-americano.
Il disappunto e la frustrazione sono gli elementi che – per il momento – hanno connotato l’impotenza di Washington a fronte del rebus siriano. Le bellicose dichiarazioni delle massime autorità statunitensi hanno prodotto soltanto le ipotesi di inasprire le sanzioni economiche contro la Turchia: sanzioni che, paradossalmente, avrebbero avuto l’effetto opposto di quello desiderato da Washington, ossia quello di dare vigore ai legami di Ankara poco graditi agli Stati Uniti. Non a caso le sanzioni antiturche sono state rimosse da Donald Trump pochi giorni dopo la loro imposizione.
Proprio in relazione ai “legami sgraditi” della Turchia gli Stati Uniti hanno messo in agenda lo spostamento delle proprie testate nucleari dalla base turca di Incirlik, che probabilmente verranno collocate tra l’Italia e la Grecia.
La lenta decadenza – non solo mediorientale – degli Stati Uniti sembra spingere Washington a far di tutto per non perdere il controllo – diretto o indiretto – di una quota di petrolio mediorientale.
Riguardo la questione del petrolio siriano è intervenuto l’altro viceministro degli Esteri della Federazione Russa Mikhail Bogdanov: “Tutte le infrastrutture petrolifere devono tornare sotto il controllo siriano”. Un messaggio molto chiaro, soprattutto per Washington, a quasi trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, mentre l’ordine internazionale assume giorno dopo giorno sempre più le caratteristiche multipolari del mondo immaginato da Evgenij Primakov.
* da Quadrante Futuro
Nessun commento:
Posta un commento