Cosa si cela dietro i vestiti di H&M?
La blogger 17enne svela il segreto
Si chiama Sweat Shop, ed è un docu-reality realizzato dal quotidiano norvegese Aftenposten nato per raccontare come e dove vengono prodotti gli abiti venduti da una delle più grandi catene di negozi di abbigliamento “low cost”, il colosso svedese H&M.
Lavoratori in una azienda cambogiana. (Human Rights Watch)
Tre giovani fashion blogger norvegesi sono state inviate in Cambogia – uno dei paesi dove l’azienda produce la maggior parte dei capi – e per un mese hanno vissuto a stretto contatto con i lavoratori dei laboratori tessili dove vengono realizzati gli abiti, vivendo nelle loro stesse condizioni, tra alloggi fatiscenti e turni di lavoro massacranti. Lo scopo dell’iniziativa di Aftenposten era quello di raccontare ai giovani norvegesi da dove viene la maggior parte dei vestiti che indossano ogni giorno, prodotti nei laboratori tessili dei paesi in via di sviluppo, diventati ormai da decenni “terreno di conquista” per i grandi brand della moda che delocalizzano la produzione dei capi di abbigliamento nei paesi del sud-est asiatico, dove milioni di persone lavorano anche per 16-18 ore al giorno con uno stipendio molto al di sotto di quello che considereremmo “salario minimo”, in condizioni igienico-sanitarie spesso molto precarie e senza tutela alcuna.
Eppure, il pesante velo di omertà che copre questo scenario non si squarcia nemmeno grazie al lavoro dei tre blogger norvegesi di Sweat Shop cui è stato chiesto, o per meglio dire imposto, di non raccontare parte di ciò che avevano visto e vissuto durante la loro esperienza nei laboratori tessili della Cambogia. Per questo motivo, la giovanissima Anniken Jørgensen, una delle tre blogger che ha partecipato al reality, ha deciso di raccontare la verità, intraprendendo da sola una campagna per far sapere al mondo le reali condizioni dei lavoratori tessili cambogiani e fare in modo che la propria esperienza non restasse solo “un pugno di video” pubblicati sul web
Nonostante la giovanissima età, Anniken ha 17 anni, la ragazza ha cominciato a fare i nomi delle aziende coinvolte nello sfruttamento degli operai, in particolare H&M, raccontando sul proprio blog la realtà dei fatti, accuratamente censurata anche dallo stesso Aftenposten. Per mesi, nonostante le obiezioni dei tre blogger, il quotidiano sarebbe riuscito a mantenere il silenzio, fino a un paio di mesi fa, quando Anniken non ha deciso di parlare “da sola” dopo aver compreso che nessuno sarebbe stato disposto ad ascoltare la sua storia: “È incredibilmente frustrante che una grande catena di abbigliamento abbia così tanto potere da spaventare e condizionare il più importante quotidiano della Norvegia. Non c’è da meravigliarsi: il mondo è così. Ho sempre pensato che nel mio paese ci fosse libertà di espressione. Mi sbagliavo”.
E così, grazie al tam tam del web, la denuncia di Anniken ha cominciato a prendere il largo, diventando virale insieme alla sua iniziativa di boicottare H&M e i suoi abiti. Fino al punto che la stessa azienda ha chiesto di poterla incontrare nella sede principale di Stoccolma annunciando, nello stesso tempo, di aver preso provvedimenti nei confronti dei laboratori tessili a cui commissiona la realizzazione degli abiti, affinché si impegnassero a migliorare le condizioni di vita dei propri operai. In diverse occasioni Anniken ha sottolineato che quel viaggio in Cambogia ha cambiato per sempre la sua vita e che mai potrà dimenticare le condizioni di lavoro di quegli operai. In particolare, la giovane racconta dell’incontro con una ragazza diciottenne, che ha iniziato a lavorare quando aveva appena nove anni
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