Ilaria Cucchi, il suo racconto
da testimone: “Ho visto pestare un ragazzo a Roma”
La sorella di Stefano, insieme al padre di Riccardo
Magherini e ai familiari di Dino Budruni, hanno assistito a un'operazione di
polizia nei confronti di un giovane: "Era ammanettato a terra, aveva una
ferita sulla fronte. Su di lui tre agenti. Farò denuncia"
E’ il 30
luglio 2014. Sono le sei del pomeriggio. Io, Guido Magherini, papà di
Riccardo, Claudia Budroni e la sua famiglia siamo sul Grande raccordo
anulare di Roma, di fronte al guardrail, con le scarpe nel
fango. E’ il primo anniversario della morte di Dino, un colpo di pistola
al termine di un inseguimento, morte per cui nessuno ha ancora pagato. Un
sacerdote recita il Padre nostro e l’Ave Maria e fa una benedizione. Il
papà di Dino Budroni si avvicina alla foto del figlio appiccicata sulla rete
del guardrail per deporvi un mazzo di fiori. E’ tutto ciò che rimane a
quella famiglia del loro caro. Cerimonia semplice e breve, al termine della
quale io, Guido e il nostro comune avvocato, Fabio Anselmo, saliamo
sulla mia auto e ci avviamo verso la stazione Termini.
Decidiamo di
prendere la via Tiburtina perché il Gra è completamente intasato.
Arrivati di fronte al cimitero monumentale del Verano, improvvisamente
sento un urlo di Guido, che è seduto sul sedile posteriore : “Che cazzo fanno?
Guarda che fanno. Guarda, lo picchiano!”. Mi volto e sul marciapiede vedo tre
agenti della polizia penitenziaria, che tengono un ragazzo per il collo
e gli danno dei calci. Fermo la macchina poco più avanti, Guido scende al volo
e corre velocemente verso quella scena. Inutile il tentativo di Fabio di farlo
rimanere calmo e desistere da quella fuga. Papà Guido non sente. Arriva
lì e vede che il giovane è steso a terra, prono. Il viso è una maschera di
sangue, che fuoriesce da una ferita sulla fronte. Guido si rivolge agli agenti
in tono perentorio: “Tiratelo su! Mettetelo seduto! Tiratelo su!”.
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I tre agenti
lo guardano perplessi e lo invitano a farsi i fatti suoi: “Sappiamo quel che
facciamo”, replicano. “Tiratelo su! Tiratelo su!”, continua invece a urlare
Guido, “mio figlio Riccardo è morto così. Perché questo ragazzo deve
rimanere così, che è già ammanettato! Sono Guido Magherini. Sono di Firenze.
Mio figlio è morto così! Mio figlio è morto così”, continua a ripetere a voce
sempre più alta. Io rimango impietrita a qualche metro di distanza, mentre
Fabio prende per un braccio Guido portandolo via. Quello che riesco a fare è
chiamare il 118 per raccontare quello che ho appena visto e per chiedere
l’intervento immediato di un’ambulanza. Nella concitazione del momento, non mi
qualifico subito. La persona dall’altra parte mi ascolta in silenzio e poi
sbotta: “Umanamente è un bel gesto. Ma perché fa questa chiamata? Non si
fida degli agenti?”.
Un’ora più
tardi richiamo il 118 e un operatore molto cortese – al quale dico chi
sono – mi conferma l’invio dell’ambulanza e mi consiglia di dare il mio
nominativo al 113. Con Guido Magherini e l’avvocato Anselmo ancora presenti
chiamo subito la polizia e denuncio tutti i fatti, lasciando le
generalità mie e quelle di Guido. Se sarà necessario, nelle prossime ore
formalizzerò la denuncia per iscritto. Tutto questo accade il giorno
dell’anniversario della morte di Dino Budroni, morto ucciso da un colpo
di pistola, sparato da un agente di polizia ad altezza d’uomo sul Gra di Roma.
di Ilaria
Cucchi
da Il Fatto
Quotidiano del 31 luglio 2014
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