A Rafah e Khan Younis, l’esercito israeliano cattura 180 palestinesi mentre Hamas chiede il rilascio dei detenuti politici come condizione al cessate il fuoco.
Lo sciopero della fame, durato 63 giorni e lanciato ad aprile da 200 prigionieri politici palestinesi, si è concluso prima del mese sacro di Ramadan, il 24 giugno. Gaza non era ancora sotto le bombe, ma la campagna militare contro la Cisgiordania ha tolto visibilità alla battaglia dei detenuti. Eppure, la questione dei prigionieri politici resta centrale per il movimento di liberazione della Palestina, nonostante non occupi mai i tavoli negoziali tra Tel Aviv e Ramallah. A rimetterci l’accento è Hamas che – tra i dieci punti di un eventuale accordo di cessate il fuoco con Israele – chiede la liberazione dei 56 ex detenuti liberati con l’accordo Shalit dell’autunno 2011 e arrestati di nuovo durante le operazioni di ricerca dei tre coloni scomparsi vicino Hebron.
«Un’operazione durissima quella compiuta in Cisgiordania dal 12 al 30 giugno – spiega al manifesto Murad Jadallah, avvocato e ricercatore di Addameer, organizzazione che tutela i prigionieri politici palestinesi – Con l’accordo Shalit furono liberati 1.027 detenuti. Moltissimi sono stati nuovamente arrestati nei tre anni successivi, 56 quelli catturati nel mese di giugno. In quelle tre settimane sono stati spiccati 77 ordini di detenzione amministrativa, una misura cautelare che viola il diritto internazionale e prevede l’arresto senza accuse formali né processi».
Degli attuali 5.271 prigionieri palestinesi dietro le sbarre di un carcere israeliano, 377 arrivano da Gaza. Costretti a seguire la sanguinosa offensiva militare dalle loro celle, molti di loro hanno ricevuto la più dolorosa delle notizie dagli schermi di una tv o dalla voce della radio: la perdita di un familiare, in alcuni casi dell’intera famiglia, sotto le bombe sganciate da Israele. Salah Hamas, Rami Zweidi, Ahmad al-Sufi e tanti altri hanno pianto da soli, impotenti, lontano dalle loro case ridotte in macerie. Gli avvocati che hanno avuto il permesso di far loro visita nella prigione di Nafha hanno raccontato di uomini in stato di choc, altri che tentavano di riconoscere un parente in tv, mentre le telecamere riprendevano rapidamente i corpi portati via dalle ambulanze.
Ai 377 gazawi prigionieri, nei giorni scorsi se ne sono aggiunti 180, letteralmente rapiti dalle forze militari israeliane penetrate dentro Gaza durante l’offensiva via terra a Rafah e Khan Younis, al confine sud. Secondo Israele si tratta di miliziani di Hamas e Jihad Islamica. Diversa l’opinione palestinese: «L’esercito israeliano ha arrestato circa 180 persone – riprende Murad – Alcuni di loro sono stati catturati mentre erano dentro le ambulanze, feriti. Sono civili, non miliziani, che Israele vuole utilizzare per ottenere informazioni sulle attività della resistenza o la presenza di tunnel, una grave violazione della Quarta Convenzione di Ginevra. Sembra che alcuni siano stati rilasciati, ma non riusciamo ad avere informazioni certe o ad entrare in contatto con loro a causa della situazione a Gaza. Anche le associazioni per i diritti umani della Striscia hanno difficoltà a contattarli o anche solo a sapere i nomi di tutti quelli ancora prigionieri».
La lotta che viene combattuta dietro le sbarre è da decenni una delle colonne del movimento di liberazione nazionale, seppur spesso messa in un angolo dall’attuale leadership palestinese, vuoi per non irritare la controparte israeliana durante i negoziati, vuoi perché in carcere sono rinchiuse figure politiche di grande carisma – Marwan Barghouti e Ahmad Sa’adat su tutti – che potrebbero mettere a rischio la posizione del presidente Abbas.
Hamas, puntando ancora sui prigionieri politici, si garantisce una volta di più il rispetto della popolazione occupata: «La società civile palestinese, di cui Addameer è parte, sostiene la resistenza palestinese e la richiesta di liberazione dei prigionieri. Secondo il diritto internazionale, questi prigionieri vanno protetti in quanto detenuti politici. Ogni accordo possibile di tregua deve prevedere il rilascio di tutti, in particolare dei 56 liberati con l’accordo Shalit e poi catturati di nuovo».
Quell’accordo, che portò alla liberazione del soldato Gilad Shalit dopo 5 anni in mano ad Hamas in cambio di oltre mille palestinesi, è stato violato da Israele. Un anno dopo Tel Aviv ha violato l’accordo di cessate il fuoco che metteva fine all’operazione Colonna di Difesa. Se Hamas dovesse ottenere il rilascio dei 56, c’è già chi scommette su quanto impiegherà l’esercito per riportarli dietro le sbarre, insieme ad una consistente fetta delle leadership del movimento di resistenza.
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