Nel corso della pandemia l’industria militare non si è mai fermata, la produzione di armamenti non si è mai interrotta e gli investimenti per la difesa, considerati un volano indispensabile per la ripartenza, sono ricompresi nell’idea malsana di “crescita” che ci ha portato al disastro, e che continua a rappresentare l’orizzonte malato delle scelte politiche ed economiche nazionali e internazionali. Perché anche in tempi di coronavirus non abbiamo assistito a nessuna riconversione, nemmeno temporanea, della produzione bellica a favore di quella medico-sanitaria?
«Se diamo un’occhiata al complesso militare-industrale transnazionale, in questo ultimo anno quello che emerge e turba le coscienze è che la pandemia da Coronavirus è stata un’occasione storica unica – così come nei tempi funestati dai peggiori conflitti bellici – per moltiplicare profitti e sviluppare l’export di sistemi di distruzione e morte.
La dilagante militarizzazione delle società e del settore più colpito dalla crisi pandemica (la sanità), l’uso a 360 gradi delle forze armate e di polizia per gestire lo “stato di guerra” dichiarato contro il Covid-19, hanno fornito le condizioni “culturali” e il consenso (o la disattenzione) generale per favorire un’ulteriore emorragia di risorse pubbliche per destinarle alle spese militari e al rafforzamento dei dispositivi militari-sicuritari.
Suggerisco la lettura della lunga introduzione del Ministero della Difesa al Documento Programmatico della Difesa per il Triennio 2020-22, dove senza ipocrisie si spiega che le mutazioni socio-economiche causate o favorite dall’odierna pandemia devono imporre una rivisitazione del concetto di “sicurezza” e dunque un più forte impegno delle forze armate e del sistema militare-industriale-finanziario in ormai quasi tutti gli aspetti della vita sociale ed economica.
Ciò comporta la disponibilità di nuove e maggiori risorse per nuove armi e nuovi sistemi di controllo e distruzione e soprattutto la piena legittimazione degli apparati militari. E l’impegno totale e instancabile delle forze armate nella “guerra al Covid” – sempre secondo gli estensori del Piano Pluriannuale – deve essere comunque ampiamente riconosciuto da tutti e soprattutto premiato».
I sanitari dell’esercito nelle corsie degli ospedali sovraccaricati dai pazienti Covid-19, le tende dell’esercito per il triage fuori degli ospedali, la bare di Bergamo trasportate dai camion militari, i vaccini antinfluenzali somministrati negli ospedali militari, l’esercito a presidiare le strade, i vaccini Covid-19 scortati nei loro viaggi da mezzi militari, le Frecce Tricolori che sorvolano l’Italia tutta, etc. Come è possibile che l’approccio alla pandemia sia stato ricondotto in uno spartito di difesa militarista piuttosto che di protezione sanitaria?
«Innanzitutto ciò risponde alle ragioni che descrivevo prima, per “legittimare” pienamente l’uso del militare per gestire ogni funzione civile, occupare la sfera pubblica e assumere il pieno controllo dell’ “ordine pubblico” e dello stato di “guerra” contro il nemico invisibile.
Leggi emergenziali, limitazioni delle libertà costituzionali e militarizzazione delle strade e delle corsie degli ospedali consentono un colpo d’acceleratore del processo di militarizzazione e sicurizzazione della società e dell’economia come non sarebbe mai stato possibile in tempi di “normalità”.
Se poi a questo processo si accompagna l’attacco globale alla politica e agli spazi di aggregazione sociale appare ancora più evidente che il creare le condizioni e utilizzare il linguaggio e le narrazioni di “guerra” consente un attacco mortale alle sempre più ridotte forme di partecipazione e lotta democratica.
E, come dicevo prima, la militarizzazione dell’intervento sanitario anti-Covid (invece della scelta di interventi di compartecipazione democratica, decentramento e potenziamento dei centri per la salute e la prevenzione distribuiti e/o prossimi territorialmente) assicura il ruolo “imprescindibile” e “insostituibile” delle forze armate nella gestione della crisi-conflitto.
Siamo di fronte a un modello culturale, ben costruito soprattutto in ambito mediatico, del tutto opposto a quanto accadde 40 anni fa con il Terremoto in Irpinia, quando l’associazionismo di base, il volontariato e le forze sociali e politiche vive del paese ebbero la capacità di denunciare e documentare l’assoluta inefficienza delle forze armate nelle fasi post-sisma e di ricostruzione e dunque di proporre modelli del tutto differenti di gestione di emergenze naturali-ambientali e sanitarie.
L’Irpinia impose il dibattito sulla de-militarizzazione delle crisi e di una protezione civile democratica, diffusa, partecipata e decentrata. Oggi sembrano passati millenni da quella importante fase di confronto politico generale su diritti ed “emergenze”.
E così le forze armate e il complesso militare-industriale e finanziario possono oggi “battere cassa” con più arroganza di prima, imponendo schemi e linee di spesa pubblica ancora più insostenibili».
Da un parte un sistema sanitario al collasso grazie ai tagli costanti della spesa, una scuola che non riesce a riaprire perché non si è in grado di metterla realmente in sicurezza, dall’altra la spesa per gli armamenti che ha continuato a crescere anche nel corso della pandemia, con il benestare di tutte le parti politiche. Fino a quando continueremo a confondere la sicurezza di stampo militare col “vivere in sicurezza” a partire dalla tutela del diritto alla salute? Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza come si pone in questa dialettica?
«Partirei dal Recovery Fund. Otto mesi fa si disse: trasformiamo la pandemia in un’occasione per rimettere finalmente in discussione i modelli di società e di consumo e soprattutto puntiamo a una profonda trasformazione del sistema sanitario, educativo e scolastico-universitario.
Per tutto questo s’invocarono massicci investimenti finanziari e dal cappello della politica UE uscì il Recovery Fund. Oggi ne scopriamo l’intrinseca funzionalità alla riproduzione del sistema economico neoliberista dominante e all’emarginazione di ogni forma di partecipazione democratica e di decisione dal basso, secondo i bisogni dei territori, specie di quelli più marginalizzati.
Così tra i “vincitori” dei primi round della crisi pandemica e dell’(auspicata) uscita dall’emergenza, oltre alle forze armate e alle industrie belliche, compaiono holding informatiche, della telefonia cellulare e della cyber security, transazionali farmaceutiche e della sanità privata e, nel caso poi della green economy in salsa italiana, finanche il colosso energetico ENI.
Ancora una volta risorse pubbliche (più l’indebitamento consequenziale generale) vengono destinate a favore di ristrette oligarchie finanziarie, ampliando i divari tra i sempre più pochi ricchi e sterminate masse di vecchi e nuovi poveri.
La questione chiave è se e come sarà possibile tentare di invertire queste tendenze e le loro drammatiche conseguenze sulle nostre vite.
Di certo, lockdown più o meno generalizzati e strumentalizzati e militarizzazioni e militarismi imperanti, condannano ognuno di noi all’isolamento e alle solitudini forzate. Ma il diritto-dovere di resistenza ci impone il dovere di abbattere i muri fisici e quelli virtuali. È questa la grande scommessa per poter continuare a sopravvivere tutte e tutti davvero alla pandemia».
* da Gruppo Pandemico
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