A che punto si trova il Movimento dei contadini indiani, dopo i disordini del Republic Day?
Solo pochi giorni dopo i disordini che hanno messo a ferro a fuoco la città di Delhi per tutta la giornata del 26 gennaio, in coincidenza con la doppia parata del Republic Day (quella dei trattori contadini, oltre alla tradizionale sfilata militare), il governo di Narendra Modi è passato al contrattacco.
- di Daniela Bezzi
- la città futura
Solo pochi giorni dopo i disordini che hanno messo a ferro a fuoco la città di Delhi per tutta la giornata del 26 gennaio, in coincidenza con la doppia parata del Republic Day (quella dei trattori contadini, oltre alla tradizionale sfilata militare), il governo di Narendra Modi è passato al contrattacco, con decine di denunce ai danni di una quarantina di attivisti e leader di quella protesta che da oltre due mesi era andata crescendo in vari punti nevralgici alle porte della capitale indiana, per denunciare l’insostenibilità di una legislazione che pretenderebbe di liberalizzare l’intero settore agro-alimentare azzerando quelle minime tutele che ancora esistono, almeno in alcuni Stati.
E come purtroppo si temeva, la resa dei conti ha investito il movimento contadino anche al suo interno, con seri problemi di leadership e la defezione di due sindacati numericamente importanti all’interno della grande coalizione (quasi 50 organizzazioni) che si era riconosciuta nel Samyukt Kisan Morcha.
Se fino a pochi giorni fa la mirabile compattezza, capacità di organizzazione, incrollabile determinazione di questo movimento erano riuscite a conquistare persino la simpatia di quell’India urbana che non aveva mai seriamente guardato alle sofferenze dell’India rurale, l’idea di poter celebrare il Republic Day con una propria autonoma parata subito dopo quella ufficiale, con decine di migliaia di trattori ordinatamente in fila lungo un percorso sì periferico ma senz’altro significativo, si è rivelata insomma controproducente – per non dire un boomerang.
Ma andiamo con ordine, e proviamo a riassumere la genesi di questa protesta, che i recenti episodi di guerriglia hanno indebolito sul piano negoziale, ma che non potranno certo vanificare.
L’India rurale, che nel complesso assorbe il 60% della forza lavoro dell’intero sub-continente e totalizza una popolazione di quasi 800 milioni di persone (molte delle quali in condizioni di mera sussistenza), è da tempo in crisi profonda. Nella complessa transizione dal periodo coloniale, e sotto la guida di Nehru, è stata investita di radicali riforme: ridimensionamento della proprietà fondiaria, ridistribuzione delle terre ai contadini, soprattutto in alcuni Stati a perdurante governo di sinistra (come in Kerala e in West Bengala).
Conquiste significative in termini di relativa equità sociale e innovazione tecnologica (come nel caso della cosiddetta Green Revolution che venne promossa in particolare nel Punjab) che però non hanno favorito la produttività di un settore caratterizzato per lo più da microimprese a conduzione familiare. Oltre l’86% di chi lavora nell’agricoltura possiede in effetti appezzamenti di terra inferiori ai due ettari. E se durante gli anni ’60 il settore agricolo dell’India riusciva a contribuire intorno al 40% del Pil, i dati degli ultimi anni non superano il 15% – che risulta superiore alla media del resto del mondo, ma senz’altro non all’altezza delle ambizioni di un governo Modi, la cui prevalente preoccupazione sembra quella di “rispondere” al meglio alle pressioni del settore corporativo e delle banche d’affari.
Nel corso dell’ultima campagna elettorale Narendra Modi aveva promesso sensibili miglioramenti economici all’India rurale: agevolazioni nell’accesso al credito, precise tutele, redditi raddoppiati per ogni nucleo familiare – e infatti il grosso dei voti che lo hanno riconfermato in carica gli arrivò dall’immenso settore contadino. Promesse che però sono state smentite dalla realtà. Si è aggravato l’indebitamento cronico di tutto il settore, per l’acquisto di pesticidi e fertilizzanti che hanno avuto ovunque l'effetto di compromettere ulteriormente la funzionalità di falde acquifere già “naturalmente” in sofferenza per i mutamenti climatici (monsoni sempre più in ritardo e sempre meno copiosi). E non è diminuito il numero dei suicidi per debiti, decine di migliaia ogni anno, come da tempo denuncia (tra gli altri) l’ecologista Vandana Shiva. La situazione si è ulteriormente aggravata con il Coronavirus, che in molte regioni ha causato enormi carenze di forza lavoro proprio nei mesi tradizionalmente deputati ai raccolti.
In questo quadro di acuta sofferenza, e senz’altro approfittando delle condizioni di eccezionalità ovunque create dall’emergenza Covid, il governo Modi ha annunciato verso l’inizio dell’estate una serie di “modernizzazioni” del settore agricolo, formulate poi in tre proposte di legge, che nel mese di settembre sono tranquillamente passate al parlamento indiano: ignorando le proteste già da tempo espresse dalle organizzazioni sindacali – e ignorando persino la Costituzione, che per simili disegni di legge imporrebbe la consultazione con i governi di tutti gli Stati della Federazione.
In sintesi, queste tre leggi avrebbero l’ambizione di liberalizzare un settore che fino a ora prevedeva un forte intervento statale, garantendo precise tutele (per esempio un minimo garantito) per l’acquisto di quanto prodotto, e assumendo la totale responsabilità sul fronte dello stoccaggio dei raccolti, e successive fasi di distribuzione e relative contrattazioni.
Dal punto di vista del governo questa legislazione dovrebbe rappresentare una vantaggiosa opportunità per i contadini, offrendo loro la facoltà di vendere alle migliori condizioni di mercato, bypassando gli intermediari, traendo ulteriore profitto dalle possibilità dell’e-commerce, in una prospettiva di maggiore ottimizzazione e competitività. Dal punto di vista dei contadini, queste leggi sono la scorciatoia verso l’abisso: privati di quelle minime tutele che fino a oggi hanno salvaguardato i loro magri bilanci, non saprebbero come controllare la spirale dei debiti che in breve tempo li costringerebbe alla svendita dei loro campi. Un radicale scontro di posizioni, che il governo centrale non ha neppure tentato di sottoporre alle verifiche previste (come si è detto) dalla stessa Costituzione – ed è per questo che soprattutto negli Stati del Punjab e dell’Haryana, i sindacati contadini hanno cominciato a mobilitarsi fin dal mese di giugno. L’estate è trascorsa in un crescendo di proteste a macchia d’olio, finché la notizia che le tre leggi erano state votate dall’esecutivo (nel mese di settembre) ha fornito il cemento di cui queste sparse mobilitazioni avevano bisogno.
A ottobre ecco un primo unitario sit-in, per più giorni, a Delhi. E il 26 novembre, in coincidenza con il formidabile sciopero generale che in un solo giorno ha registrato l’astensione dal lavoro di 250 milioni (!) di lavoratori in ogni possibile settore produttivo dell’india (era d’altronde già successo nel gennaio dello stesso anno), ecco la spettacolare proposta del Dilhi Chalo, ovvero il tentativo di portare la protesta di tutte le organizzazioni contadine da tempo in lotta, nel cuore della capitale. Una sfilata di trattori e veicoli di vario calibro che, partita dal nord del Punjab si è via via ingrossata di adesioni – ma che, una volta raggiunta la periferia di Delhi, ha trovato lo sbarramento delle forze di polizia. Scontri, lacrimogeni, cannonate d’acqua, le immagini dei contadini più anziani brutalmente attaccati nonostante l’età hanno fatto brevemente notizia anche fuori dall’India. Da quella data il movimento non si è mai più mosso da dove era stato bloccato, e anzi, settimana dopo settimana, si è esteso in vari altri siti tutt’intorno a Delhi, con l’arrivo di altre rappresentanze contadine dal Rajasthan, dall’Uttar Pradesh, e così via.
Una situazione letteralmente senza precedenti. La più grande, coordinata, organizzata, per non dire documentata, studiata, commentata mobilitazione che mai si sia verificata nella storia del pianeta – e soprattutto ammirevole per la fermezza, per l’unitaria determinazione con cui di volta in volta ha affrontato il negoziato con il governo: ben undici successivi incontri per tentare di arrivare a una qualche mediazione, che la leadership del movimento ha regolarmente rifiutato, reiterando ogni volta la medesima richiesta, ovvero la revoca di quelle tre leggi, firmata nero su bianco da Modi in persona.
Con il passare dei giorni, si sono verificati non pochi decessi: per ipotermia, malori o per incidenti di varia natura. E nella crescente attenzione da parte dei media, sono fioccate sempre più numerose le manifestazioni di solidarietà, non solo dalla vasta area dei movimenti dell’India, ma da quella numerosa diaspora di sikh che dal Canada all’Australia, dal Regno Unito all’Italia, ha fornito sostegno anche finanziario. Trascorso così il primo mese, entrati nel secondo, la partita è diventata sempre più una sfida personale per Narendra Modi, che alla fermezza della protesta contadina ha risposto con varie “proposte” diversive, per esempio suggerendo a un certo punto la mediazione della Corte Suprema – mentre si avvicinava a grandi passi la data del 26 gennaio, Republic Day.
Da sempre questa data è stata la rituale celebrazione delle mille facce dell’india, con sfoggio di surreali tableaux vivants, aerei svettanti nel cielo, carri armati tirati a lucido e truppe in marcia nelle più diverse divise, lungo il presidenziale Rajpath. Una data troppo importante perché potesse essere ignorata dal Movimento contadino che infatti il 20 gennaio ha osato annunciare un’inedita celebrazione “dal basso”, con una propria pacifica sfilata di trattori, lungo un itinerario da concordare. E questo ha aperto un secondo e quanto mai incerto negoziato direttamente con le forze dell’ordine, che ha contribuito a spostare l’attenzione dalla rivendicazione principale, ovvero la revoca delle famose tre leggi.
Ed è così che si è arrivati al fatidico appuntamento del Republic Day: con un itinerario solo all’ultimo momento definito nei particolari di percorso, un dettagliato elenco di raccomandazioni per i partecipanti (in termini di disciplinato scorrimento, comportamento rispettoso sia per le aree attraversate sia verso i militari “che sono per lo più figli di contadini, benché in divisa”), vari numeri da chiamare in caso di difficoltà e una buona dose di apprensione per le tante incognite che avrebbero potuto verificarsi.
Quel che in effetti è successo ha superato ogni peggior previsione ed è ancor oggi oggetto di indagine e speculazione – e così sarà per chissà quanto tempo. A chi accusa una frangia particolarmente impaziente del movimento contadino di aver messo moto ai trattori parecchio prima dell’ora stabilita, sfondando gli sbarramenti che sarebbe toccato alla polizia rimuovere, il movimento risponde che in realtà l’itinerario che era stato negoziato non era affatto dotato degli sbarramenti utili a segnalare il corretto percorso a una moltitudine che entrava a Delhi per la prima volta, per cui la sfilata ha in più punti deragliato fin da subito, trovandosi poi in un inferno di lacrimogeni. Ma gli interrogativi più inquietanti riguardano la spettacolare Presa del Forte Rosso, il monumento simbolo dell’India, non solo per la sua possente architettura Mughal, ma perché da uno dei suoi leggiadri pinnacoli Nehru pronunciò il primo discorso alla nazione finalmente liberata dal dominio coloniale, la notte del 15 agosto 1947. Come è stato possibile permettere a un gruppo di manifestanti di superare le precarie transenne, penetrare fino in cima al forte, sapere su quale palo arrampicarsi, in modo da far sventolare la bandiera del “Nishan Sahib” – vessillo sacro per i devoti della religione sikh – accanto a quello (supremo sfregio!) del tricolore repubblicano?
Le indagini avrebbero già appurato il coinvolgimento di un certo Deep Sidhu, attore di b-movie bollywoodiano piuttosto popolare in Punjab per il suo oltranzismo – e tutt’altro che sconosciuto al movimento contadino, che già all’inizio della protesta lo aveva allontanato dai vari sit-in per le sue posizione divisive. E guarda caso Deep Sidhu sarebbe in relazione di personale “amicizia” con lo stesso Narendra Modi, e vari suoi sodali in Punjab, come dimostrerebbero varie foto scattate durante l’ultima campagna elettorale (2019). Insomma, un inquietante pasticcio, un sinistro intreccio di corresponsabilità tutte da appurare, che molto probabilmente confermeranno l’ingerenza dello stesso ministro degli Interni Amit Shah nella macchinazione dei disordini di fatto provocati per gettare discredito su tutto un Movimento – e tutto questo monopolizzerà l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica per chissà quanti giorni a venire. Ma al tempo stesso contribuirà a spegnere i riflettori sulla “questione contadina” e sulle motivazioni, le urgenze, le ragioni che per oltre due mesi avevano motivato la resistenza di decine di migliaia di uomini e donne di ogni età, affiliati al più ampio spettro di posizioni politiche oltre che sindacali – dall’ala più chiaramente “krantikari”, ovvero rivoluzionaria, a quella più banalmente delusa dal governo Bjp dopo averlo votato.
Bilancio quindi problematico per il Movimento, come si è detto: decine i leaders colpiti da denuncia, centinaia i manifestanti già in prigione, un morto tra le fila dei dimostranti (per cause da appurare), decine di feriti tra quelle delle forze dell’ordine e non si sa quanti tra i dimostranti. Ma il prezzo più rilevante è la demoralizzazione che è ormai calata in quelle improvvisate cittadelle di resistenza alle porte di Delhi; e la defezione di fette importanti della coalizione sindacale – il danno tra tutti peggiore, per un movimento che della compattezza aveva fatto il suo maggior punto di forza.
Chiudo queste note mentre arriva la notizia che la preannunciata marcia (questa volta solo a piedi) che era stata prevista il 2 febbraio verso il parlamento indiano, per un sit-in di protesta in coincidenza con la finanziaria del 2021, è stata prudenzialmente cancellata. In compenso è stato indetto uno sciopero della fame per il 30 gennaio, data in cui l’India ricorda i suoi martiri. E di martiri da ricordare l’India ne ha sempre di più, non solo il Mahatma Gandhi, e il meno noto ma ben più ribelle Baghat Singh (morto nelle carceri inglesi giovanissimo e già autore di pamphlet popolarissimi ancora oggi); ma il crescente numero di coloro che si trovano a languire nelle prigioni di oggi, colpiti dal quella legge draconiana nota come Uapa (acronimo che sta per “Legge per la prevenzione di attività illegali”, che può significare qualsiasi cosa).
Nonostante tutto, però, ciò che è successo per il Republic Day ha reso lampante una cosa: la rabbia, fortissima, contagiosa, non più contenibile, che mesi di inascoltate proteste hanno reso incandescente e non solo negli stati del Punjab e dell’Haryana. L’intera India è stata non a caso teatro nei giorni scorsi di parate e sfilate che non erano solo di rituale solidarietà per gli eroici sit-in di Delhi, ma l’espressione della stessa protesta, primaria insofferenza e predisposizione alla rivolta. E di questo il governo Modi non potrà non tener conto – se non è già troppo tardi. Perché un’altra cosa che questo movimento ha evidenziato, è la fortissima interconnessione tra movimenti sociali e sindacali politicamente molto consapevoli e preparati, nella rivendicazione di condizioni che vanno ben oltre la revoca delle tre leggi – e che mettono in discussione un intero paradigma di sviluppo, crescita, cieco mercatismo.
Siamo alla vigilia di qualcosa che potrebbe assomigliare a una rivoluzione? O almeno di un ribaltamento, negli “equilibri” da troppo tempo funzionali all'esclusiva crescita del settore corporativo? È un’ipotesi sulla quale non pochi in India osano scommettere.
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