Studio dell’Università di Torino: «La sua condizione provoca un affaticamenti fisico e psicologico che aumenta il rischio di malattie quali diabete e ipertensione»
Nella città simbolo della fabbrica, la notizia non farà piacere a molti: le tute blu vivono meno dei colletti bianchi. Prevedibile, in fondo. E infatti la novità vera è un’altra. Ora si sa che un operaio non qualificato ha una speranza di vita di ben cinque anni inferiore a chi si trova all’estremo opposto della scala sociale e appartiene alla classe dirigente. Lo ha quantificato Giuseppe Costa, epidemiologo dell’Università di Torino e autore di «40 anni di salute a Torino», il «volume-bussola» per Comune, Asl e Regione per pianificare le politiche sanitarie. E tra i capitoli si legge anche questo dato choc che rende bene l’idea di quanto il lavoro possa influire sulla longevità. «Anche se in Norvegia la disuguaglianza arriva anche a sei anni», avverte Costa.
Calcolo a 35 anni
Il professore ha effettuato il calcolo a 35 anni.
Quando, cioè, si presume che una persona non cambi più la strada lavorativa che
ha imboccato. In quel momento, un dirigente può sperare di vivere ancora
48,7 anni e arrivare, quindi, a 83,7. Diverso il caso di un operaio semplice, che ha di fronte a sé soltanto 43,24 anni e, dunque, raggiunge in media i 78,24 anni.
48,7 anni e arrivare, quindi, a 83,7. Diverso il caso di un operaio semplice, che ha di fronte a sé soltanto 43,24 anni e, dunque, raggiunge in media i 78,24 anni.
Reddito e risorse per la salute
Le ragioni sono molte. «C’è un aspetto che riguarda
il reddito — ammette il professor Costa —. Un professionista di livello ha più
risorse per la salute. Non solo, vanta anche maggiori conoscenze e sa meglio
come districarsi di fronte a un problema». Ma prima ancora dell’aspetto
economico, il docente ragiona sulle dinamiche in cui è coinvolto un lavoratore
manuale: «Queste persone hanno meno controllo delle proprie condizioni di vita:
devono rispettare i ritmi lavorativi, la loro retribuzione monetaria, ma anche
emotiva, è bassa, le possibilità di fare carriera scarse. Tutto ciò provoca
quello lo “stress cronico”, che aumenta il rischio di diabete, ipertensione,
depressione, infarto. Senza contare che chi vive questa condizione spesso si
consola con uno stile di vita malsano: mangia male, è sedentario, cede al gioco
d’azzardo, fa sesso non protetto, fuma».
Le donne vivono più degli uomini (circa 3 anni)
Sulle donne vanno fatte due riflessioni. La prima: lo
studio torinese conferma che hanno una sopravvivenza in generale maggiore a
quella degli uomini di circa tre anni. La seconda: nel loro caso, la professione
incide meno sull’aspettativa di vita. A 35 anni, una dirigente può ambire ad
avere ancora 51,7 anni davanti, mentre un’operaia 50,09, cioè 1,61 in meno.
«Questo perché, tra le donne, i comportamenti insalubri si concentrano
storicamente proprio tra quelle in carriera. Penso al fumo. Oppure al fatto che
si fanno figli sempre più in là con l’età, abitudine che incide negativamente
sull’insorgenza dei tumori femminili. Ma notiamo che la tendenza sta cambiando.
I dati più recenti mostrano che le differenze tra uomini e donne si stanno
assottigliando e nel Nord Europa non esistono già più».
Il distacco
Lo studio ha poi anche calcolato la speranza di vita
a 65 anni. Qui le diversità per professione si assottigliano: 20,8 anni per i
dirigenti contro i 17,85 degli operai non qualificati, cioè 2,95 in meno, e 23,2
contro 22,13 tra le donne. Il distacco rimane. «Ma è meno impattante perché,
diciamolo, a 65 anni bisogna arrivarci. E le persone di una classe sociale
svantaggiata che li raggiungono sono già da considerarsi particolarmente
resistenti». Secondo Costa il sistema previdenziale deve tenere conto di queste
differenze lavorative. «D’altra parte l’età pensionabile si basa sulla speranza
di vita. Quindi, a voler essere giusti, un lavoratore manuale dovrebbe andare in
pensione prima di un docente universitario». Ma almeno tutti possono contare sul
sostegno del sistema sanitario nazionale, di cui ieri in Regione si sono
festeggiati i 40 anni. «Le liste d’attesa? Il sistema è migliorabile».
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