Cina e Usa contesa nel Mar Cinese Meridionale
Una delle zone del mondo più ad alta tensione politica, sull’orlo da anni di sfociare in conflitto armato, è il Mar Cinese Meridionale, ovvero la distesa acquatica che tocca le coste di diversi paesi dell'Asia, come Cina, Filippine, Vietnam, Brunei, Malesia.
Ad essere detonatore delle prospettive di conflitto è la volontà cinese di estendere lo sfruttamento delle risorse naturali di questa zona oltre quelli che sono i diritti a lei spettanti dalla Convenzione Onu per i diritti dei mari (UNCLOS), ovvero quelli relativi alle 200 miglia marittime dalla propria costa, designate dal diritto dei mari come Zona Economica Esclusiva di un paese.
La Cina ha negli ultimi anni costruito ad hoc una serie di atolli - poi fortemente militarizzati con portaerei e navi da guerra - all’interno delle acque internazionali della zona (vedi cartina più in
basso), al fine di poterli definire come “limite estremo” del territorio cinese e poter così affermare diritti allo sfruttamento di porzioni molto maggiori di acque, coincidenti con quelle tendenzialmente sottoposte alla giurisdizione di altri paesi.
A questo sforzo pratico si sono uniti anche il rivendicarsi il possesso di isole presenti nella zona (le Paracel e le Spratly), una forte attività di riscrittura storica e l’aumento della propaganda politica, mirata ad affermare un diritto naturale della Cina a poter sfruttare le aree in questione, con giornali fedeli alla linea del Partito Comunista in prima fila anche nell’affermare la necessità di Pechino di prepararsi ad un conflitto militare.
Da segnalare come la causa di questa intensa attività militare e propagandastica sia da leggere anche all’interno di una necessaria “mobilitazione delle masse” in una prospettiva che punta sul nazionalismo e sull’orgoglio patriottico per allontanare i problemi derivanti dalla difficile fase politica interna (rallentamento della crescita, enormi problemi ambientali, corruzione a livelli stellari).
Le Filippine hanno reagito alla situazione, nel 2013 sollevando il caso alla Corte Arbitrale dell’Aia dopo aver affermato che in 17 anni non ci sono state possibilità reali di risolvere il conflitto. La Corte il prossimo 12 luglio dovrà esprimersi sulla questione, dando con tutte le probabilità ragione a Manila e sancendo l’impossibilità per la Cina di avanzare le proprie pretese sull’area. Siglando così un importante precedente che potrebbe poi riversarsi a cascata sugli altri conflitti in cui la Cina è protagonista e che sono per gli analisti geopolitici il focus reale per capire se la Cina intenderà muoversi all’interno dello status quo dei rapporti geopolitici o provare a modificarli. Insomma, se si porrà come una potenza revisionista o meno, con tutte le conseguenze del caso.
La tensione è altissima. Basti pensare al ruolo del Giappone, altro giocatore della larga partita che riguarda il rapporto di forza nell’area, il quale è al centro di uno scontro con la Cina rispetto alle isole Diaoyu/Senkaku, così chiamate a seconda del paese che vi si riferisce. Nello scorso mese infatti reparti dell’aviazione nipponica hanno avuto nuovamente schermaglie aeree con la Cina (sarebbero già decine di casi negli ultimi mesi) dando seguito pratico alla retorica che negli ultimi mesi ha informato i discorsi del presidente giapponese Abe, impegnato nella rottura del paradigma post-bellico che impedisce al Giappone la creazione di forze armate a scopo offensivo.
Gli Stati Uniti sono ovviamente l’attore principale della vicenda, impegnati nello sforzo (proposto in prima battuta dall’amministrazione Obama) di ridefinire le proprie priorità geopolitiche spostando il focus dal Medio Oriente al Pacifico. Gli States hanno costruito negli ultimi anni un insieme di accordi economico-militari proprio con i paesi toccati dalle volontà espansionistiche cinesi (Filippine in primis); e proprio con la decisione dell’arbitrato della Corte previsto per il 12 luglio provano a dare un primo colpo alla Cina, che va detto non ha in alcun modo partecipato ai lavori della corte, di fatto negandole alcun tipo di legittimità. Pechino ha in tutta risposta lanciato una settimana di esercitazioni navali militari nelle zone contestate, che si concluderà proprio il giorno prima dell’attesa sentenza della Corte.
La questione è davvero spinosa e complessa: da un lato gli Stati Uniti giocano sulla questione del soft power, aspettando solamente il risultato della corte per poter attaccare globalmente la Cina, delegittimandola come elemento che si muove al di fuori del diritto internazionale e potendo così appoggiare senza remore un conseguente conflitto nei confronti di una Pechino dedita alle maniere forti per far valere le sue prerogative. Due navi della marina USA sono state inviate nella zona proprio per dare corpo e visibilità all’irriducibilità americana riguardo a questa partita.
Dall’altro lato la Cina sa benissimo che il suo ruolo nell’economia internazionale è talmente decisivo e imponente che muoverle guerra potrebbe portare ad esiti improbabili per la stabilità del pianeta a livello complessivo. Negli ultimi anni la Cina ha rinforzato la sua presenza già pesante nell’economia globale, siglando numerosi accordi commerciali bilaterali e soprattutto dando il via all’AIIB, l’Asian Infrastructure Investment Bank che nei progetti di Pechino dovrebbe costituire un ente alternativo alla Banca Mondiale e che con la partecipazione già di 57 paesi alle riunioni fondative si propone come il primo vero colpo all’architettura finanziaria internazionale nata con Bretton Woods.
La sfida insomma sembra questa: gli Stati Uniti sono disposti a morire, o quantomeno a farsi molto male, in un confronto militare eventuale contro Pechino? La risposta è quantomeno dubbia: non farlo significherebbe per gli Usa perdere qualsiasi credibilità rispetto alle parti di mondo che si propone di difendere rispetto all’espansione politico-militare-economico cinese; accettare la sfida potrebbe portare invece consistenti svantaggi rispetto alla tenuta dell’economia statunitense, totalmente dipendenti dalle esportazioni cinesi, con Pechino che è anche il primo possessore di debito statunitense.
E’ questa condizione di “frenemy” tra Usa e Cina, questo oscillare tra cooperazione e competizione tra le due superpotenze globali, che rende la questione davvero complessa: dalla volontà rispettiva degli Stati implicati di volerlo rispettare o meno si potranno dedurre lo stato attuale dei rapporti di forza e le linee di tendenza della politica internazionale nei prossimi anni.
Ad essere detonatore delle prospettive di conflitto è la volontà cinese di estendere lo sfruttamento delle risorse naturali di questa zona oltre quelli che sono i diritti a lei spettanti dalla Convenzione Onu per i diritti dei mari (UNCLOS), ovvero quelli relativi alle 200 miglia marittime dalla propria costa, designate dal diritto dei mari come Zona Economica Esclusiva di un paese.
La Cina ha negli ultimi anni costruito ad hoc una serie di atolli - poi fortemente militarizzati con portaerei e navi da guerra - all’interno delle acque internazionali della zona (vedi cartina più in
basso), al fine di poterli definire come “limite estremo” del territorio cinese e poter così affermare diritti allo sfruttamento di porzioni molto maggiori di acque, coincidenti con quelle tendenzialmente sottoposte alla giurisdizione di altri paesi.
A questo sforzo pratico si sono uniti anche il rivendicarsi il possesso di isole presenti nella zona (le Paracel e le Spratly), una forte attività di riscrittura storica e l’aumento della propaganda politica, mirata ad affermare un diritto naturale della Cina a poter sfruttare le aree in questione, con giornali fedeli alla linea del Partito Comunista in prima fila anche nell’affermare la necessità di Pechino di prepararsi ad un conflitto militare.
Da segnalare come la causa di questa intensa attività militare e propagandastica sia da leggere anche all’interno di una necessaria “mobilitazione delle masse” in una prospettiva che punta sul nazionalismo e sull’orgoglio patriottico per allontanare i problemi derivanti dalla difficile fase politica interna (rallentamento della crescita, enormi problemi ambientali, corruzione a livelli stellari).
Le Filippine hanno reagito alla situazione, nel 2013 sollevando il caso alla Corte Arbitrale dell’Aia dopo aver affermato che in 17 anni non ci sono state possibilità reali di risolvere il conflitto. La Corte il prossimo 12 luglio dovrà esprimersi sulla questione, dando con tutte le probabilità ragione a Manila e sancendo l’impossibilità per la Cina di avanzare le proprie pretese sull’area. Siglando così un importante precedente che potrebbe poi riversarsi a cascata sugli altri conflitti in cui la Cina è protagonista e che sono per gli analisti geopolitici il focus reale per capire se la Cina intenderà muoversi all’interno dello status quo dei rapporti geopolitici o provare a modificarli. Insomma, se si porrà come una potenza revisionista o meno, con tutte le conseguenze del caso.
La tensione è altissima. Basti pensare al ruolo del Giappone, altro giocatore della larga partita che riguarda il rapporto di forza nell’area, il quale è al centro di uno scontro con la Cina rispetto alle isole Diaoyu/Senkaku, così chiamate a seconda del paese che vi si riferisce. Nello scorso mese infatti reparti dell’aviazione nipponica hanno avuto nuovamente schermaglie aeree con la Cina (sarebbero già decine di casi negli ultimi mesi) dando seguito pratico alla retorica che negli ultimi mesi ha informato i discorsi del presidente giapponese Abe, impegnato nella rottura del paradigma post-bellico che impedisce al Giappone la creazione di forze armate a scopo offensivo.
Gli Stati Uniti sono ovviamente l’attore principale della vicenda, impegnati nello sforzo (proposto in prima battuta dall’amministrazione Obama) di ridefinire le proprie priorità geopolitiche spostando il focus dal Medio Oriente al Pacifico. Gli States hanno costruito negli ultimi anni un insieme di accordi economico-militari proprio con i paesi toccati dalle volontà espansionistiche cinesi (Filippine in primis); e proprio con la decisione dell’arbitrato della Corte previsto per il 12 luglio provano a dare un primo colpo alla Cina, che va detto non ha in alcun modo partecipato ai lavori della corte, di fatto negandole alcun tipo di legittimità. Pechino ha in tutta risposta lanciato una settimana di esercitazioni navali militari nelle zone contestate, che si concluderà proprio il giorno prima dell’attesa sentenza della Corte.
La questione è davvero spinosa e complessa: da un lato gli Stati Uniti giocano sulla questione del soft power, aspettando solamente il risultato della corte per poter attaccare globalmente la Cina, delegittimandola come elemento che si muove al di fuori del diritto internazionale e potendo così appoggiare senza remore un conseguente conflitto nei confronti di una Pechino dedita alle maniere forti per far valere le sue prerogative. Due navi della marina USA sono state inviate nella zona proprio per dare corpo e visibilità all’irriducibilità americana riguardo a questa partita.
Dall’altro lato la Cina sa benissimo che il suo ruolo nell’economia internazionale è talmente decisivo e imponente che muoverle guerra potrebbe portare ad esiti improbabili per la stabilità del pianeta a livello complessivo. Negli ultimi anni la Cina ha rinforzato la sua presenza già pesante nell’economia globale, siglando numerosi accordi commerciali bilaterali e soprattutto dando il via all’AIIB, l’Asian Infrastructure Investment Bank che nei progetti di Pechino dovrebbe costituire un ente alternativo alla Banca Mondiale e che con la partecipazione già di 57 paesi alle riunioni fondative si propone come il primo vero colpo all’architettura finanziaria internazionale nata con Bretton Woods.
La sfida insomma sembra questa: gli Stati Uniti sono disposti a morire, o quantomeno a farsi molto male, in un confronto militare eventuale contro Pechino? La risposta è quantomeno dubbia: non farlo significherebbe per gli Usa perdere qualsiasi credibilità rispetto alle parti di mondo che si propone di difendere rispetto all’espansione politico-militare-economico cinese; accettare la sfida potrebbe portare invece consistenti svantaggi rispetto alla tenuta dell’economia statunitense, totalmente dipendenti dalle esportazioni cinesi, con Pechino che è anche il primo possessore di debito statunitense.
E’ questa condizione di “frenemy” tra Usa e Cina, questo oscillare tra cooperazione e competizione tra le due superpotenze globali, che rende la questione davvero complessa: dalla volontà rispettiva degli Stati implicati di volerlo rispettare o meno si potranno dedurre lo stato attuale dei rapporti di forza e le linee di tendenza della politica internazionale nei prossimi anni.
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