La
tempesta non sta per passare e nessuna riconciliazione è possibile.
Come la guerra culturale dell’estrema destra è riuscita a
trasformare l’Italia nel paese più reazionario d’Europa
di
Mattia Salvia *
Il
caso di Bibbiano – la rete di presunti illeciti nella gestione
degli affidi di minori in Emilia Romagna – ha sconvolto l’Italia
come poche cose nella sua storia recente. Nonostante se ne sappia
pochissimo (e proprio perché se ne sa pochissimo) tutti gli italiani
ne sono rimasti toccati, in due sensi opposti: la vasta maggioranza è
rimasta come in stato di shock, con la percezione di qualcosa di
gravissimo che sta venendo tenuto segreto; la minoranza è rimasta
ugualmente sconvolta, non dal fatto in sé bensì dalle dimensioni e
dalla violenza della campagna politica e mediatica che ci è stata
costruita sopra.
Fin
dai primi giorni in cui abbiamo cominciato a sentire «parlateci di
Bibbiano» da parte di opinionisti di destra, trasmissioni
televisive, giornali – insomma dall’apparato mediatico che, in
teoria, avrebbe dovuto parlare di Bibbiano in primis – c’è chi
si accorgeva di quello che stava succedendo, dell’entità della
manipolazione mediatica in corso, e proponeva una diagnosi lapidaria
per etichettare il fenomeno: Bibbiano
è il Pizzagate italiano.
Il riferimento è a quella teoria del complotto nata negli Stati
Uniti nel 2016, pompata dall’alt-right e dai siti di bufale di
estrema destra, secondo cui dietro a una pizzeria di Washington DC ci
fosse un giro di prostituzione minorile legato a importanti politici
del Partito Democratico americano. L’analisi è corretta –
ed è il motivo per cui è stata ripetuta così spesso. Le
similitudini sono effettivamente tante e inquietanti: in entrambi i
casi c’è il crimine orribile, ci sono le vittime bambine, c’è
il segreto, c’è la complicità di una forza politica percepita
come l’establishment «di sinistra» che ha gestito il potere fino
ad ora e che ne è stata recentemente scalzata. Quello che però
manca, che non viene preso in considerazione, sono le differenze di
clima e contesto in cui i due casi avvengono. Ovvero quello che c’è
di diverso tra gli Stati Uniti del 2016 e l’Italia del 2019,
l’apparato mediatico che ha spinto il Pizzagate negli Stati Uniti e
quello che ha spinto Bibbiano in Italia e le loro rispettive
contiguità con i gruppi che detengono il potere nei due
paesi. Prendiamo gli Stati Uniti del 2016: il frame del
Pizzagate è bene o male rimasto confinato in una bolla senza mai
arrivare al mainstream. Di spingerlo si sono occupati opinionisti
alt-right completamente screditati dai media di massa, siti di bufale
di destra dal grande traffico ma privi dell’influenza e della
capacità di penetrazione dei media tradizionali. Di conseguenza, la
grande massa della popolazione americana non è stata esposta alla
teoria del complotto del Pizzagate se non di riflesso, tramite il
modo in cui se ne parlava altrove. In breve: negli Stati Uniti del
2016, sebbene fosse stato appena eletto Donald Trump alla presidenza,
contrariamente a quanto si scriveva l’estrema destra non era in
grado di controllare la narrazione pubblica. Non si può dire la
stessa cosa dell’Italia del 2019. L’equivalente italiano degli
ambienti che negli Stati Uniti del 2016 avevano cercato di convincere
il paese che il principale partito di opposizione fosse composto da
pedofili hanno provato a fare una cosa simile con il caso di
Bibbiano, e in breve tempo hanno ottenuto risultati straordinari. Non
solo un caso di cronaca che, per quanto grave, normalmente avrebbe
ottenuto a stento rilevanza nazionale è diventato IL caso
dell’estate. Ma soprattutto la narrazione semplice ed efficace
creata dall’estrema destra si è imposta fino a oscurare
completamente i fatti: il principale partito di opposizione in Italia
(nell’immaginario comune è percepito come «di sinistra» se non
proprio come «i comunisti») ruba e tortura i bambini. Di Bibbiano
parleremo per anni e ne parleremo per anni in questo frame narrativo
qui. Come è potuto accadere? È potuto accadere perché,
rispetto agli Stati Uniti del 2016, nell’Italia del 2019 – che
probabilmente è il paese più reazionario d’Europa e uno dei più
reazionari del mondo – queste forze sono assolutamente egemoni.
Hanno sempre avuto le capacità, hanno accumulato col tempo un
bagaglio di esperienza e oggi sono al potere o ad esso contigue. Ergo
hanno occupato le posizioni giuste per controllare il discorso
pubblico nel paese – a partire dai media, come dimostra il Tg2. Le
bufale contro gli immigrati del 2016 partivano da siti equivoci
sfruttando i social e servivano più che altro a creare un «clima
culturale» favorevole alle destre. Oggi il clima culturale è
maturo, c’è una massa critica e la situazione è cambiata:
l’estrema destra in Italia è pienamente in controllo del discorso
pubblico. Vale a dire che ormai il discorso pubblico italiano,
l’opinione pubblica italiana, non è altro che la discussione e la
ripetizione delle parole d’ordine e dei frame dell’estrema
destra. Non devono più dimostrare
che le ONG sono complici dei trafficanti con i video in cameretta di
Luca Donadel: siamo noi che dobbiamo dimostrare il
contrario.
Ora che hanno preso le postazioni dominanti e padroneggiano le loro
armi possono lanciare offensive e parole d’ordine. Parole d’ordine
come «parlateci di Bibbiano». Non è un caso che la parola d’ordine
e la shitstorm su Bibbiano siano state lanciate proprio ora: non
aspettavano altro che uscisse un caso locale così, ne hanno intuito
il potenziale di venire gonfiato e piegato a una narrazione che fa
loro gioco e ci si sono buttati. Il primo vantaggio che ne ottengono
è che Bibbiano diventerà uno spartiacque nelle guerre culturali
italiane dei prossimi anni. Il secondo è che in Emilia Romagna si
vota a fine anno o all’inizio del prossimo, e dunque lo shitstorm
su Bibbiano è anche una campagna politica di delegittimazione per
strappare terreno al nemico e conquistare nuove posizioni. Se ho
usato lessico militare – strappare terreno al nemico, conquistare
nuove posizioni, prendere postazioni dominanti, padroneggiare le
armi, lanciare offensive – è perché quella che è in corso è una
guerra politico-culturale, che da interna alla classe dominante in
una logica di circolazione delle élite si sta adesso allargando a
tutta la società. Bibbiano è stata la prima grande, esplicita
offensiva di questa guerra culturale. Il primo caso in cui abbiamo
visto tutta quell’energia sociale costruita in anni di post sui
cani, post contro gli immigrati, post con foto di cibo, post su Milan
per costruire una comunità coesa… finalmente rilasciata in una
precisa direzione politica. Una parte consistente dell’opinione
pubblica italiana, trasformata in una comunità separata dalla
comunità italiana, lanciata contro i rappresentanti di chi di quella
comunità separata non fa parte; un’accusa terrificante quanto
falsa da trasformare in versione ufficiale. In questo senso Bibbiano
non è solo un fatto di cronaca o una polemica, ma l’equivalente di
un raid squadrista delle camicie nere contro una casa del popolo. Da
qualche tempo a questa parte, di pari passo con il progredire
dell’imbarbarimento del discorso pubblico italiano, mi capita
sempre più spesso di sentire persone chiedersi come faremo a tornare
a una qualche forma di normalità quando la tempesta sarà passata.
In un pugno di anni abbiamo visto cadere una dopo l’altra tutte le
regole non scritte della convivenza democratica, abbiamo visto tutti
i valori che prima erano comunemente accettati e che insieme
contribuivano a creare una morale condivisa unificante per la nostra
società venire rovesciati e trasvalutati. Quindi è normale
chiedersi come si può fare per ritornare alla situazione di
partenza, quella in cui le diversità di vedute e di orientamenti in
seno alla società e all’opinione pubblica erano considerate come
diversità e non come «altro», come un «tradimento» o come
«anti-italianità». È normale chiederselo e non è una domanda
facile. Come
facevo notare all’inizio dell’anno proprio su Not,
la nostra sensazione di vivere in tempi eccezionali – e dunque in
tempi la cui stessa esistenza presuppone il ritorno a una normalità
– è una forma di pensiero
magico.
Non viviamo in una timeline «sbagliata» che prima o poi tornerà
sui binari giusti: la timeline in cui viviamo si è finalmente
corretta dopo decenni di anomalia ed eccezione. Il fatto che l’Italia
di oggi sia fondamentalmente spaccata in due parti contrapposte che
si odiano a morte non è un «errore», ma l’ennesimo riflesso di
tutto ciò: l’errore se mai è stato pensare che ci fosse una sola
Repubblica Italiana, quando ce ne sono sempre state due. Il nostro
paese è sempre stato un paese spaccato. La profonda frattura che si
manifesta oggi, con una larga parte del paese con il tricolore nel
nickname che accusa di «anti-italianità» o di tradimento della
patria chi ancora segue quei valori che fino a poco tempo fa si
potevano definire condivisi, è il venire alla luce di una frattura
costitutiva dell’identità nazionale italiana, che nei decenni di
crescita economica, stabilità e socialdemocrazia – quel periodo
che abbiamo preso a considerare «normalità» tanto che ora che si è
concluso ci sembra di essere entrati in una timeline «sbagliata»,
appunto – è sempre stata nascosta sotto il tappeto del
compromesso. È una frattura che risale almeno alla seconda
guerra mondiale, alla resistenza, alla contrapposizione tra
Repubblica Italiana e Repubblica Sociale, al modo in cui in Italia la
guerra civile latente che covava in quegli anni è stata compressa,
non è scoppiata non diventando mai una guerra civile esplicita. La
Repubblica Italiana e la sua Costituzione sono nate con
quell’intento, come compromesso tra due parti inconciliabili. Un
compromesso che poggiava su alcuni elementi: la costruzione di una
memoria condivisa come finzione ideologica in grado di far
dimenticare al paese la contrapposizione mortale che esisteva tra le
sue due anime, e la costruzione di un edificio fatto di elementi
costituzionali, politici, sociali e morali che servisse a mantenere
l’equilibrio tra le parti, impedire che una delle due prendesse
troppa forza, così che il conflitto rimanesse latente per la paura
di entrambe di soccombere. A un certo punto della nostra storia però
quest’equilibrio ha cominciato a rompersi e il paese ha cominciato
a polarizzarsi: la contrapposizione tra berlusconismo e
anti-berlusconismo degli anni Novanta e Duemila, successiva al crollo
della prima repubblica che era un tassello di quell’architettura di
compromesso, è stata un primo riattivarsi della faglia. Uno dopo
l’altro, anche gli altri elementi di quell’edificio hanno
cominciato a cedere. Dunque, in questa situazione, come possiamo fare
«quando la tempesta sarà passata» per rimarginare questo strappo,
arrivare a una riconciliazione nazionale e tornare alla situazione di
equilibrio e compromesso? Una delle soluzioni è provare a
restaurare quell’edificio, ovvero appigliarci a gli elementi di
quella costruzione istituzionale, politica, sociale e morale che sono
ancora in piedi e partendo da quelli cercare di trovare un nuovo
compromesso, una nuova morale condivisa che ci consenta di sotterrare
i rancori reciproci e di dimenticare quest’isteria collettiva. È
una soluzione, però, i cui spazi di agibilità si riducono di giorno
in giorno e di caso di cronaca in caso di cronaca – come nel caso
del carabiniere ucciso a Roma, dove i tweet di Salvini che parlano di
lavori forzati a vita o giustificano dei carabinieri che bendano un
sospetto e ne pubblicano le foto sui social – sono un chiaro colpo
di scalpello contro le stesse fondamenta di quell’edificio che
vorremmo conservare. Ma se non così, come? L’alternativa, che è
ancora solo una suggestione ma che sta prendendo sempre più corpo
man mano che quell’architettura viene smontata pezzo dopo pezzo, è
che non
ci sia nessuna riconciliazione possibile.
Invece di una riconciliazione tra le due parti della società,
l’espulsione di una di queste dal seno della società stessa. È
ancora solo una suggestione, ma se se guarda attentamente ci sono una
serie di segnali a validarla. La complessa architettura che oggi
sta venendo smontata serviva a mantenere l’equilibrio tra le due
repubbliche contrapposte all’interno della Repubblica italiana,
impedendo che una delle due parti potesse conquistare la forza
necessaria a ribaltare il tavolo, demolire quell’architettura
stessa e sostituirla con una nuova da imporre a forza a tutta la
società. Venute meno le costrizioni, viene meno l’equilibrio e può
manifestarsi di nuovo quel conflitto rimasto tanto a lungo latente,
il cui esito non è più incerto: una delle due parti non ha più
paura di soccombere e può passare con fiducia all’attacco. È
ingenuo pensare a come faremo a tornare alla normalità «quando la
tempesta sarà passata», perché tutti i segnali sembrano indicare
non
che
la tempesta stia per passare, ma che se mai stia per farsi ancora più
violenta. La direzione in cui andiamo è quella di un ulteriore
approfondirsi delle divisioni esistenti, di un ulteriore polarizzarsi
della nostra società e di un ulteriore radicalizzarsi delle nostre
opinioni. Le vie di mezzo che potremmo prendere per arrivare a una
conciliazione ci vengono sbarrate in faccia una dopo l’altra, per
il semplice fatto che non siamo più in una situazione di equilibrio
e che una delle due parti non ha interesse in una conciliazione. Non
è un fenomeno soltanto italiano – anche se l’Italia in quanto
roccaforte della reazione può fare da caso scuola. Ma la crisi
dell’ordine liberale e del modello democratico è una conseguenza
diretta di cambiamenti tellurici nell’ordine mondiale. Il modello
di cui abbiamo goduto per decenni, che poteva esistere appoggiandosi
a una certa catena del valore globale, sta entrando in crisi ora che
quella catena del valore sta cambiando. È da questa radice –
la cosiddetta Grande Convergenza – che nasce il fenomeno politico
con cui dovremo fare i conti nel prossimo futuro. «La
profonda ipocrisia e l’intrinseca barbarie della civiltà borghese
ci stanno davanti senza veli quando dalla madrepatria, dove assumono
forme rispettabili, volgiamo gli occhi alle colonie, dove esse vanno
nude»
scriveva Marx, e la domanda da porsi oggi è: che
succede a quelle forme rispettabili quando alla civiltà borghese
della madrepatria vengono a mancare le colonie? Nel
tentativo disperato di impedire o perlomeno di rallentare questo
processo, la società occidentale si spoglia degli orpelli inutili e
resta solo nei suoi caratteri fondamentali: pluralismo e democrazia
sono sacrificati sull’altare della tutela della posizione dominante
dell’Occidente. La democrazia si trasforma in democrazia
autoritaria: vale a dire una democrazia puramente formale che si
applica a una società già riplasmata in senso organico, con un solo
grande partito
dell’ordine
a garantire stabilità e i profitti minacciati delle classi dominanti
e l’espulsione di tutto ciò che è dissenso, equiparato a una
quinta colonna che lavora dall’interno al sabotaggio. Per le
due repubbliche italiane, tutto ciò ci spinge in una sola direzione.
La fine del compromesso e dell’equilibrio del sistema ci spinge
verso una direzione in cui una parte della popolazione, dell’arco
parlamentare e persino del pensiero politico non viene più
considerata come parte della nazione, ma viene accusa di
tradimento. È la direzione che vediamo anche dal processo di
autocoscienza in corso per le forze dell’ordine, un tempo elemento
di tutela – almeno «formale» – di quell’equilibrio e che oggi
sono sempre più un elemento schierato da una parte. Il
braccio armato di uno Stato nato per tenere sotto controllo due parti
contrapposte della società, ora che lo Stato è nelle mani di una
delle due parti, diventa il braccio armato di quella parte della
società.
Non a caso nei gruppi chiusi delle forze dell’ordine si
parla di sparare a politici di opposizione e fare colpi di stato,
dai gruppi chiusi delle forze dell’ordine partono
campagna di propaganda a suon di bufale,
dentro i gruppi chiusi delle forze dell’ordine si incontrano già
esponenti dell’arma che invocano
la guerra civile.
Tutti questi indizi fanno prendere sempre più corpo una
consapevolezza: non c’è più spazio per tutte e due le repubbliche
nella repubblica italiana. La
guerra civile che viene è la guerra civile di cui già parlano i
poliziotti nei loro gruppi chiusi.
Non sarà per forza un conflitto armato aperto, non finiremo a
spararci addosso uno con l’altro (forse). Sarà piuttosto
l’evoluzione della guerra culturale già in corso, con la
costruzione di una nuova narrazione per la società da parte della
maggioranza che verrà imposta con la forza anche all’altra parte.
Sarà un silenziare le voci del resto del paese, un eliminare
l’opposizione – le quinte colonne – non fisicamente, ma ma
espellendole dal discorso pubblico, scacciandole dalle posizioni da
cui possono partecipare all’opinione pubblica, attaccarle anche
nello spazio mentale per escluderle completamente dal consesso
civile. La parola chiave per comprendere quali forme potrebbe
prendere questa guerra civile è già qui: è «buonsenso»,
un termine già diventato la nuova parola chiave della Lega. Il
buonsenso, la «rivoluzione del buonsenso» che la Lega dice di voler
fare, vuol dire costruire una nuova morale, un nuovo senso comune a
cui far conformare tutto il resto della società pena l’esclusione
dal consesso sociale. Sarà il buonsenso delle “ONG complici dei
trafficanti”, degli immigrati che vengono qui a fare da esercito
industriale di riserva e che dovrebbero starsene a casa loro; il
buonsenso delle “zekke rosse dei centri a-sociali che sono tutti
figli di papà”; il buonsenso del populismo penale, delle pene
esemplari, della criminalità razzializzata del sostegno
incondizionato a ogni brutalità poliziesca perché chi la subisce se
l’è cercata; il buonsenso di commenti come «buon
appetito pesci» sotto
un post che parla di una strage nel Mediterraneo.
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